antonio catricalà: canone rai, telecom, cyberbullismo e molto altro, ecco il quadro
a cura di
ANNA MARIA CIUFFA
Magistrato e uomo delle istituzioni, Antonio Catricalà è attualmente viceministro dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni. Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato dal 9 marzo 2005 al 16 novembre 2011, è stato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel governo Monti. Laureatosi con lode in Giurisprudenza a Roma, dove è stato allievo del prof. Pietro Rescigno, ha in seguito vinto il concorso per la magistratura ordinaria nonché superato l’esame di abilitazione di avvocato. Per due anni ha studiato economia, sociologia, storia e scienza dell’amministrazione nell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, ove è stato allievo di Federico Caffè. Procuratore e avvocato dello Stato, successivamente è stato nominato, sempre per concorso, consigliere e presidente di sezione del Consiglio di Stato. Ha pubblicato i libri «Zavorre d’Italia» sui vincoli dell’economia e «L’esame di diritto civile» in cui riporta il contenuto delle lezioni svolte nel suo corso per la preparazione al concorso in Magistratura, altri studi monografici e vari articoli. Ha insegnato diritto privato come professore a contratto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Tor Vergata di Roma. Attualmente è professore a contratto di Diritto dei consumatori nell’Università Luiss Guido Carli.
Catricalà ha terminato in anticipo di qualche mese la propria esperienza all’Autorità garante della concorrenza e del mercato perché nominato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri dal presidente Mario Monti. Il 2 maggio scorso è stato nominato viceministro dello Sviluppo economico nel Governo Letta.
Domanda. Il nuovo contratto di servizio con la Rai che il suo ministero sta elaborando in vista del rinnovo di quello in scadenza, contiene novità rispetto a quelli precedenti?
Risposta. La novità maggiore di questo contratto sarà la trasparenza nell’uso delle risorse pubbliche. Rispetto a ciò che noi abbiamo proposto, la Rai ha accettato di evidenziare i programmi finanziati con il contributo del canone. Probabilmente costituirà un piccolo aggravio per l’azienda fare scorrere una scritta o mostrare un bollino all’inizio, durante o alla fine di ogni programma, però il telespettatore avrà la soddisfazione di poter giudicare se i soldi da lui spesi sono stati bene o male impiegati dalla Rai. Quindi, secondo me, il risultato sarà positivo perché i cittadini saranno più consapevoli del motivo per il quale pagano il canone; e la Rai e tutte le sue articolazioni, compresi i conduttori, saranno più coscienti di svolgere un servizio pubblico. Questo all’inizio provocherà discussioni perché, quando un programma è finanziato con il canone, si richiedono comportamenti più trasparenti, lineari e soprattutto non di parte. Ma alla lunga questo sistema comporterà sicuramente effetti positivi in termini di qualità del prodotto.
D. Si verificano moltissimi casi di evasione del canone. Come farete a controllare che tutti lo paghino?
R. Una volta varato il contratto di servizio, io mi sono impegnato ad aprire un tavolo per superare il grave fenomeno dell’evasione del canone, che certamente va combattuto con determinazione. È vero che attualmente nei sondaggi una delle tasse più odiate è il canone della Rai, proprio perché non si comprende quale sia la differenza tra televisione pubblica e televisione privata. L’idea del bollino per indicare la destinazione del canone nel servizio pubblico servirà a questo, cioè a ricordare che la Rai svolge un servizio diverso da quello offerto dalle altre emittenti, per cui si giustifica la richiesta, da parte dello Stato, di un contributo finanziario.
D. Ma non potrebbe essere corretto far sì che anche per le tv private si introduca un canone in modo tale che o non si paga per nessuna o si paga per tutte?
R. No, perché il canone è legato alla concessione del servizio pubblico, quindi non è possibile. Comunque nel 2016 la concessione attuale della Rai prevista dalla legge scadrà. Occorrerà un’altra legge e il Parlamento potrà adottare le soluzioni che riterrà migliori. Le leggi riguardanti il servizio pubblico e radiotelevisivo necessitano di maggioranze particolarmente elevate, perché si deve tener conto delle esigenze anche delle opposizioni, ed è chiaro che l’indirizzo non può essere dato dal Governo bensì dal Parlamento, e con la maggioranza più estesa possibile, nell’interesse del pluralismo informativo.
D. Quali anomalie, irregolarità e inopportunità, contenute nel precedente contratto, saranno eliminate o corrette? Quali nuove esigenze, sorte negli utenti e nella società in generale, saranno tenute in considerazione in questo nuovo affidamento del servizio pubblico alla Rai?
R. Intanto abbiamo snellito il contratto che prima era formato da 35 articoli. L’abbiamo ridotto a 24 disposizioni. Questo comporta una maggiore chiarezza degli obblighi, una maggiore facilità di azione per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che deve controllare l’adempimento del contratto stesso. Quando gli obblighi sono fumosi, ripetuti in più articoli e diluiti senza una precisa specificazione delle prestazioni, diventa impossibile per il controllore stabilire se gli obblighi vengano adempiuti o no, e quale sia il livello degli adempimenti. Con il nuovo contratto puntiamo a facilitare il lavoro del controllore, eliminando tutte le zone grigie suscettibili di diverse interpretazioni.
D. Quali altre azioni portate avanti?
R. Abbiamo abolito la Commissione paritetica incaricata di assumere soluzioni interpretative che invece abbiamo inserito con evidenza nel contratto, perché quei secondi livelli decisionali non hanno funzionato. Abbiamo eliminato la possibilità per la Rai di trasmettere pubblicità nei programmi per i minori in età prescolare, perché stimolano i bambini a generare quel meccanismo indotto, incontrollato e irrazionale di desiderio del possesso, rinvenibile peraltro in un canale televisivo dinanzi al quale spesso i più piccoli vengono lasciati soli. La Rai dovrà compensare in qualche modo questa perdita, senza sacrificare e anzi incrementando comunque l’offerta dedicata ai più piccoli, ma noi speriamo che, quando il nuovo contratto di servizio andrà in porto, si riuscirà a recuperare in qualche modo il canone evaso e quindi possa esservi una compensazione. Come ulteriori novità abbiamo voluto definire con chiarezza la missione e il ruolo del servizio pubblico come motore di innovazione e di creatività tecnologica e di prodotto, incentivando l’alfabetizzazione informatica e garantendo il sostegno alla produzione audiovisiva nazionale. Il principale obiettivo del nuovo contratto è infatti quello di rendere chiaramente percepibile al pubblico che tutti i canali sono di servizio pubblico e che tutta la programmazione risponde con coerenza alla logica del servizio pubblico, al fine di far comprendere come viene impiegato il canone pagato dai cittadini.
D. Ritiene che le condizioni poste dallo Stato alla Rai possano essere di esempio per le molte emittenti private?
R. Diciamo che la Rai è in concorrenza con le altre emittenti private, e di questo bisogna tener conto perché il mercato ha le proprie ragioni. Tornando, ad esempio ma non solo, al tema dei minori, è evidente che la Rai, proprio perché beneficia di risorse pubbliche, sia soggetta a maggiori responsabilità e sia vincolata a comportamenti più rigorosi per quanto attiene ai contenuti della propria programmazione. Non possiamo imporre ai privati alcuni comportamenti se non attraverso formule di autoregolamentazione, e anche per questo ho ricostituito il Comitato «media-minori», che non operava da due o tre anni; l’ho rimesso in pista anche con il compito di rielaborare le regole vigenti dirette a tutelare i minori dall’uso distorto del mezzo televisivo, in modo che coinvolgano tutti i media, quindi anche l’uso di internet.
D. In tempi di spending review il nuovo contratto prevede condizioni dirette ad evitare sprechi e spese superflue, eccessive, ingiustificate, e comunque non adeguate alle nuove linee di politica economica e della spesa finalizzate alla riduzione del debito pubblico? E comunque finalizzate ad una gestione realistica e adeguata delle risorse finanziarie?
R. Il nuovo contratto di servizio prevede la separazione delle contabilità relative alle risorse pubbliche e a quelle private, la redazione di un bilancio delle entrate pubblicitarie; quindi, rispetto alla precedente versione, pone maggiore evidenza sulla destinazione delle risorse finanziarie. È chiaro che la politica gestionale dovrà essere rimessa agli organi direttivi, altrimenti si determinerebbe una commistione tra il Ministero che redige il contratto e la Rai che deve eseguirlo. La responsabilità della gestione deve essere affidata tutta agli organi di vertice, legittimati da una legge approvata dal Parlamento.
D. La crisi economica internazionale ha bloccato o comunque ridotto i programmi di sviluppo e di estensione della banda larga a zone del Paese in questo settore piuttosto svantaggiate rispetto ad altre. Quali sono i programmi in proposito, effettivamente realizzabili in breve tempo, e con quali risorse finanziarie realmente esistenti e immediatamente spendibili?
R. Intanto con soddisfazione ho registrato il ripristino dei fondi per la banda larga che erano stati sottratti al Paese da precedenti leggi finanziarie. Ciò ci consentirà di completare i programmi di cablatura del Sud Italia e di chiudere i bandi sia in Basilicata che in Calabria. L’abbiamo già fatto in Campania e in Sicilia, faremo il bando nel Molise per una cablatura da 30 a 100 megabyte, con l’arrivo della fibra ottica fino a casa o fino alla cabina, per consentire a territori, che non avrebbero avuto nessuna possibilità, di chiedere la connessione e di averla soprattutto ad elevata velocità.
D. Come si ripartiscono le risorse di questi bandi?
R. Un 70 per cento viene da fondi pubblici e un 30 per cento da fondi privati. Si tratta di un’impresa molto significativa che stiamo realizzando con le forze del Ministero e, naturalmente, con l’aiuto delle Regioni interessate, per chiudere quel «digital divide» altrimenti incolmabile per le Regioni che hanno minore capacità di attrazione di investimenti da parte degli operatori. Dove invece la cablatura è richiesta dal mercato, devono essere gli operatori a compiere gli investimenti, che non devono essere grandiosi ma sufficienti per arrivare al 2020 in perfetta linea con gli obiettivi della digitalizzazione prevista dal progetto «Europa digitale 2020». Progetto che prevede la definitiva allocazione di risorse strumentali in tutto il territorio nazionale, in modo che il 100 per cento della popolazione d’Europa, e quindi anche d’Italia, possa connettersi ad alta velocità e agire informaticamente in tutti i settori: sanità, e-commerce, istruzione, trasporto ecc. Insomma in tutto quello che può essere favorito dall’informatizzazione completa del Paese. Dei fondi strutturali dell’Unione europea abbiamo prenotato circa 200 milioni per distribuire voucher da 10 mila euro alle imprese e alle microimprese che vogliano varare programmi di digitalizzazione, informatizzazione e formazione digitale, migliori collegamenti o anche il miglioramento dell’immagine su internet, in modo da consentire la diffusione non solo della cultura digitale ma anche delle capacità digitali dei singoli piccoli imprenditori. Le piccole imprese hanno bisogno di questo aiuto che è «de minimis», ma essenziale in quanto consente, soprattutto alle imprese più giovani, di ben classificarsi nelle graduatorie ideali esistenti su internet per quanto riguarda i siti e la capacità di risposta informatica.
D. Come mai siamo così in ritardo rispetto agli altri Paesi?
R. Abbiamo investito poco, finora. Si sono registrati investimenti insufficienti sia da parte pubblica che privata. Ma questo non significa che non possiamo recuperare: opere significative sono state realizzate durante questi pochi mesi di mio impegno e tante altre iniziative si possono attuare fino al 2020. Ho elaborato una sorta di crono-programma che prevede una spesa generale per la cablatura del Paese con investimenti non inferiori ai 250-300 milioni di euro all’anno, da parte ovviamente dei privati. Questo mi sembra ragionevole. Lo Stato compirà la propria parte, come stiamo già facendo, laddove non ci sia la possibilità di chiedere al mercato questo sforzo, perché non ci sarebbe poi da parte degli utenti una domanda tale da ripagare l’investimento. Consideriamo che nel Sud stiamo spendendo 380 milioni di euro.
D. Dove siete arrivati con questi 380 milioni? Sono stati sufficienti?
R. Sono sufficienti e siamo arrivati in Sicilia. Già stiamo realizzando tutte le cablature. Ho pensato di portare avanti un regolamento che ci aiuterà moltissimo e che consente di compiere scavi piccoli anziché grandi per la banda larga. Il regolamento sulle «mini trincee» è stato già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Abbiamo incontrato le solite difficoltà ma siamo riusciti a superarle, ottenendo uno sconto sui lavori del 70 per cento. Il miniscavo avrà 25 centimetri di larghezza, 45 di profondità; in quello spazio, che sembra ridotto, potremmo collocarvi tanta fibra ottica da cablare tutta l’Europa. Restano aperti altri problemi. È un aspetto sostanziale che va sottolineato. La verità è che l’agenda digitale si compone di 3 grandi pilastri.
D. In che cosa consistono?
R. Il primo, che spetta a me realizzare, consiste nella cablatura del Paese, e me ne sto occupando; il secondo è l’informatizzazione del sistema, che non spetta a me ma all’Agenzia digitale e al commissario; il terzo pilastro è la formazione informatica. Ecco perché negli obblighi di servizio pubblico della Rai abbiamo aggiunto anche la diffusione della cultura digitale. Il grande gap non sta tanto nelle capacità tecniche che si acquisiscono, ma nel fatto che rispetto ad altri Paesi europei, si collega a internet un numero molto inferiore di cittadini italiani. Siamo al 53-54 per cento della popolazione, mentre altri Paesi raggiungono il 70-80 per cento.
D. Non dipenderà dal rifiuto di un diverso sistema di contatto, da parte degli utenti?
R. Manca una cultura del digitale ed evidentemente esistono anche tradizioni radicate. Esistono i nemici della digitalizzazione, nemici involontari. Per esempio il dirigente che riceve una mail e la stampa per consegnarla al proprio collaboratore anziché inoltrarla con il tasto, è un nemico della digitalizzazione. Altri semplicemente evitano il contatto con il pc: incaricano la segretaria di inviare una mail. Insomma esistono i digital enemy e i digital evader.
D. Ma tutta questa digitalizzazione non fa perdere posti di lavoro?
R. Da una parte sì, perché internet provoca una riduzione dei posti di lavoro, ma uno studio molto interessante di McKinsey sostiene che, per ogni posto di lavoro perduto, internet ne produce cinque, perché tante sono le nuove figure professionali da esso create.
D. Quanto siamo indietro rispetto agli altri Paesi in questo settore?
R. Siamo indietro nella cultura del digitale ma siamo avanti nella creazione di hardware. Nella connessione del Paese per il «digital divide» siamo al 98 per cento, mentre la Germania è al 97 per cento, quindi registriamo un risultato molto soddisfacente. Siamo un po’ indietro nella diffusione della banda ultralarga ma stiamo operando con finanziamenti in parte pubblici e soprattutto privati. Si tratta di insistere con Telecom Italia affinché compia ulteriori investimenti, anche perché è l’investitore istituzionale e naturale nella fibra ottica e quindi nella banda larga.
D. La rete telefonica è un asset di importanza strategica per la sicurezza e per gli interessi nazionali, per cui dovrebbe essere controllata, insieme ad altre reti strategiche, dallo Stato. Come tutelare gli interessi nazionali in casi di vendita a società straniere, come sta avvenendo in questo periodo per la Telecom Italia che è stata ormai acquisita dalla spagnola Telefonica?
R. Sono contrario in questo momento a cambiare le regole dell’opa, l’offerta pubblica di acquisto delle azioni, quando si sta svolgendo una partita già avviata. Non ritengo opportuno considerare Telefonica una società ostile da sottoporre a un trattamento particolare. È vero però che bisogna affrontare il problema delle scatole più grandi che controllano, in virtù di operazioni non di mercato, società che potrebbero essere, invece, vere e proprie «public company». Alcune modifiche devono essere fatte ma non è questo il momento, perché i mercati finanziari potrebbero ritenere che, per contrastare un’operazione di vendita, compiamo un’azione giusta ma nel momento sbagliato. Tanto più che disponiamo di altri strumenti, come il «golden power», cioè la riserva allo Stato italiano di poteri che ci consentono di ottenere lo scorporo societario della rete, soluzione in linea con le direttive europee. Naturalmente il Parlamento è sovrano e le sue decisioni andranno rispettate. Vogliamo che Telecom Italia mantenga e anzi aumenti gli investimenti nella rete, ne realizzi la separazione societaria che ha promesso e crei gli organi per gestirla con indipendenza e sicurezza. Ma abbiamo tutti gli strumenti e le possibilità di giungere a questi risultati. Ciò che oggi dobbiamo chiedere con forza è un maggiore impegno da parte di Telecom Italia nella partecipazione al progetto della digitalizzazione dell’intero territorio nazionale; è un impegno che la società deve assumere in maniera più stringente rispetto a quanto ha fatto nel passato.
D. E perché fino ad ora non ha compiuto quanto avrebbe dovuto fare?
R. Non so se c’è stata scarsa propensione e scarso incoraggiamento da parte della politica, ma oggi un tema rilevante e una priorità per il Paese sono costituiti dall’investimento in fibra ottica e in collegamenti ultraveloci. Telecom è la maggiore azienda in Italia nel campo della rete fissa, per cui deve necessariamente adeguarsi, fermo restando che dobbiamo incoraggiarla, come dobbiamo incoraggiare anche gli altri operatori a continuare la loro politica di incremento degli investimenti nelle autostrade del futuro. Autostrade però che vanno costruite con il contributo di tutti; c’è chi ha interesse a riscuotere un pedaggio e chi ad avere più possibilità e richieste di servizi, ma c’è anche lo Stato che ha interesse a sviluppare un’economia globale più moderna e competitiva: non potremmo competere se fossimo fuori dai circuiti della comunicazione elettronica.
D. Per quale motivo siamo arrivati ad avere capitali stranieri anche nella Telecom Italia? Tra qualche anno l’Italia sarà un Paese completamente venduto?
R. L’italianità di per sé costituisce un valore nella misura in cui risponde a una qualità effettiva della produzione aziendale, in termini sia di beni sia di servizi. Quello che è essenziale per il Paese è che una compagnia telefonica investa nella fibra e in tutto quello che è necessario per modernizzare la rete. L’Italia ha vissuto una grave crisi finanziaria che si è trasformata in crisi economica, e di questo hanno sofferto le nostre più grandi imprese. Restiamo un Paese fortemente esportatore, non possiamo chiudere il mercato se la nostra economia è basata soprattutto sulle esportazioni. Soffriamo oggi del rafforzamento dell’euro ma anche di una carenza di domanda nel mercato interno, anche se quello estero continua a sostenerci grazie all’esportazione di prodotti d’eccellenza. Ma certamente non possiamo chiuderci ai capitali stranieri, anzi dobbiamo invogliare investimenti dall’estero.
D. Quali sono i programmi del Governo per la tutela delle categorie cosiddette deboli della popolazione come ad esempio i minori, per la sopravvivenza, la libertà e la pluralità degli strumenti di informazione che sono stati colpiti pesantemente dalla crisi, e per la moralizzazione e la sicurezza delle attività svolte tramite internet?
R. Per quanto riguarda in particolare il mio settore stiamo cercando di varare un’idea comune a tutti gli operatori e a tutti gli interessati. Abbiamo avviato alcuni tavoli di lavoro e definito regole cui è sottoposta la nostra televisione che entra nelle case ed è a contatto diretto con i bambini e con noi stessi. Il problema riguarda anche chi opera su internet e gestisce grandi mercati. Per ottenere risultati occorre autodisciplina: data la sua globalità, è difficile imbrigliare internet con leggi nazionali. In particolare un tavolo, che abbiamo costituito e si è riunito già due volte e chiuderà la prima parte dei lavori entro l’anno, riguarda il «cyber bullismo», fenomeno particolarmente grave che ha visto due ragazze suicidarsi per gli insulti e le diffamazioni compiute a loro danno in rete da anonimi coperti dalla presunzione di non essere mai rintracciabili e riconoscibili. Questi due casi sono la punta di un iceberg, perché i nostri figli, quando operano da soli nei social network, sono ad alto rischio e possono subire tantissime umiliazioni e vessazioni.
D. Chi partecipa al tavolo?
R. Abbiamo chiamato a partecipare tutti gli internet provider più importanti, oltre alle istituzioni, ai Garanti dell’infanzia, della riservatezza e delle comunicazioni, al Comitato media minori, alla Polizia postale. Un tavolo che ha come scopo non la repressione del fenomeno dal punto di vista penalistico, compito che spetta alla Magistratura, ma l’inversione di tendenza del fenomeno, cioè evitarne la diffusione e anzi cercare di ridurlo al massimo diffondendo la cultura di un uso corretto di internet. Occorre far capire al cyber bullo che non è anonimo ma, che se dà uno «schiaffo informatico» a un ragazzo, può essere riconosciuto. È vero che è difficile identificarlo ma è possibile, e questo è il primo passo. E occorre far capire a chi subisce le umiliazioni che non è solo, che ha la possibilità di rivolgersi a Centri idonei a proteggerlo e a far sì che il fenomeno non si diffonda.
D. Dal momento che siamo nell’era della digitalizzazione, non dovrebbe essere diffusa dalle scuole una cultura digitale e curata una formazione al buon uso di internet?
R. Esistono già alcuni programmi nelle scuole. Al prossimo tavolo parteciperà anche il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per definire in che modo i programmi di formazione possano comprendere temi relativi alla sicurezza dei collegamenti informatici. Vogliamo anche approfittare dell’uso del computer da parte dei bambini per diffondere la cultura digitale all’interno della famiglia: i più piccoli non dovranno quindi usare il computer soltanto per i videogiochi, ma anche per studiare, per insegnare alla nonna come collegarsi, come stampare un modulo dell’Inps, come pagare una multa.
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