ivan cavicchi. la sanità e il riformista (che non c’è)
Dopo le elezioni dello scorso febbraio, il nuovo libro di Ivan Cavicchi «Il riformista che non c’è, le politiche sanitarie tra invarianza e cambiamento», Edizioni Dedalo, Bari 2013, propone alla nuova e alla vecchia classe politica e a tutto il mondo sanitario un progetto per rifondare la sanità. Esperto di politica sanitaria, l’autore ha svolto incarichi prestigiosi, collabora con prestigiose Università, è autore di saggi fondamentali sulla necessità di ripensare la medicina. Blogger su «Il Fatto Quotidiano» e opinionista del «Quotidiano Sanità», in questa intervista illustra il ricco contenuto del suo libro.
Domanda. «Il riformista che non c’è, le politiche sanitarie tra invarianza e cambiamento». Già il titolo fa pensare che lei, professore, in qualche modo voglia spostare il tiro dai problemi della sanità, di cui si parla sempre, ai soggetti che questi problemi dovrebbero risolvere e, da quel che si capisce, non riescono a risolvere. È così?
Risposta. Il «Riformista che non c’è» significa che oggi, particolarmente oggi, la sanità ha bisogno di «idee» e di «riformisti». Qualcuno, per descrivere la condizione attuale della sanità, ha parlato di «discesa agli inferi». Mentre si scende agli inferi... i riformisti sembrano spenti, appannati, se non inesistenti. Le vecchie tradizioni riformistiche dell’ultimo quarto di secolo del 900 si sono dissolte nell’amministrativismo e nel ragionierismo. Le idee senza i riformatori non bastano e i riformatori senza idee non sono riformatori.
D. Quindi è una questione di «volontà politica»?
R. Non solo. La volontà dipende, come è noto, dall’agente: se l’agente non è aperto al cambiamento, non avrà mai la volontà di cambiare. Soprattutto nella sanità, settore ad altissima complessità, per cambiare, cioè per risalire dagli inferi, la volontà politica non basta, anche se necessaria ovviamente. «Il riformista che non c’è» è una critica più radicale. Se qualcosa o qualcuno non esiste, il problema è certamente politico ma, prima di tutto ontologico... per cui bisogna fare in modo che quello che non c’è ci sia, costruirlo, crearlo... votarlo... e questo si fa con il pensiero, con il movimento delle idee, facendo opinione. Scrivendo libri. Facendo interviste come questa.
D. Ma con il suo libro tutti quelli della politica si arrabbieranno, si sentiranno accusati di non essere dei riformatori, quindi di esistere e di non esistere?
R. In un certo senso dovrei augurarmelo nel senso del «motus animi», cioè di provocare quanto meno un turbamento dello spirito, ma temo che tutti coloro che hanno responsabilità sulla sanità si sentano in tutta buona fede riformisti pur senza esserlo. Cioè loro esistono eccome... e se poi non sono dei riformatori questo, tutto sommato, è un dettaglio. La maggior parte di loro probabilmente schiverà la critica e non si sentirà toccato. «Il riformista che non c’è» è fatto da uomini e da donne in carne ed ossa, brave persone ma che, pur avendo delle possibilità di mettere in moto un cambiamento, continuano a reiterare un «pensiero debole» fino a mettere in pericolo, senza rendersene conto, le garanzie di diritto dei cittadini. Un pensiero è debole quando è inadeguato a risolvere i problemi. Quando è fuori contesto. Quando a sua volta è un problema e produce problemi. La sanità è vittima da anni di questo pensiero inadeguato.
D. Vuole dire che «il riformista che non c’è» a parte le persone è anche un certo pensiero politico?
R. Non c’è dubbio che «il riformista che non c’è» è un limite culturale esteso che persino va oltre la politica, e in un certo senso coinvolge un po’ tutti, e che in qualche mio libro ho definito «il senso comune della sanità». Il senso comune è legato a una visione della sanità ferma a leggi, politiche, organizzazioni, soluzioni del passato. Oggi «il riformista che non c’è» parla di manutenzione del sistema sanitario non perché ne sia convinto, ma perché non ha un pensiero di ricambio. Dice di voler difendere i «fondamentali» della sanità convinto che non si può fare altro, cioè parla di «resistenza». Ma «resistenza» contro chi? Se si tratta di resistere ai cambiamenti, alle crisi, alle difficoltà... stiamo freschi. Chi resiste al cambiamento non è altro che un «invariante», cioè il contrario di un «mutante», in altre parole un pericoloso conservatore.
D. Ci fa capire meglio, con degli esempi, chi è «l’invariante», cioè chi è per lei il «riformista che non c’è»?
R. È colui che parla della sanità come se fosse un’automobile alla quale fare dei tagliandi, senza capire che, se un’automobile cade letteralmente a pezzi, è insensato fare dei tagliandi. Le Regioni sono «invarianti » per antonomasia. Esse oggi sono come dei pugilatori sfiniti all’angolo del ring. A sfinirle mille mortificazioni, corruzioni, perdita della sovranità, perdita del prestigio istituzionale, e questo è grave perché sono le Regioni le titolari della sanità. La sanità assomiglia alla chiesa che per definizione è «reformanda», cioè è come un orto che va continuamente zappato, altrimenti crescono le erbacce. Ma la cosa più grave è che la crisi delle Regioni la pagano i cittadini e i malati. L’incapacità e l’incompetenza mettono in pericolo l’orto..., in questo caso i diritti delle persone. Sino ad ora le Regioni hanno tirato avanti con il pensiero di vecchie riforme macilente ormai spazzate via dai tagli lineari, dai piani di rientro, ma senza mai avere una loro specifica elaborazione strategica. Il Ministero della Salute è un «invariante» che non fa in nessun modo da argine ai tagli lineari, al definanziamento, perché anche esso non ha una strategia. Grazie al «riformista che non c’è» la sanità pubblica è diventata ostaggio della ragioneria, neanche più dell’economia. «Il riformista che non c’è» crede che i costi standard risolveranno i problemi della sanità, senza rendersi conto che non sarà di certo la ragioneria industriale a curare la sanità. Curare i malati con i costi standard, cioè con la contabilità industriale, credete a me, è una pessima idea.
D. Torniamo al titolo del libro. Parla di «politiche sanitarie tra invarianza e cambiamento», che cosa intende dire?
R. La sanità si trova in un punto delicato tra ciò che ormai non è più e ciò che non è ancora, ma anche in un breck point nel quale la questione finanziaria sta logorando il sistema. Oggi i forti limiti finanziari imposti al settore stanno operando in modo controriformatore, mangiandosi ad una ad una le nostre conquiste del passato. Di fronte a questi limiti, come dicevo prima, soprattutto le Regioni non sanno cosa controproporre. Sono prigioniere di quelle che, nel mio libro, chiamo le «politiche marginaliste», cioè politiche che ricorrono indefesse da almeno 30 anni e che, invece di cambiare, cercano paradossalmente di ottimizzare in mille modi l’invarianza, cioè lo status quo.
D. Ci faccia capire meglio. Vuol dire che, come chiedono le Regioni, alla sanità bisogna dare più soldi?
R. Nella sanità di soldi ve ne sono tanti, prima di tutto sotto forma di corruzioni, abusi e malaffare. Sto pensando al recente libro-inchiesta «La mangiatoia» di Michele Bocci e Fabio Tonacci, che definisce la sanità italiana il più grande affare speculativo del Paese; all’indagine condotta da Transparency international Italia, che riesce a quantificare solo la punta dell’iceberg per quanto sia complesso indagare sulle tante forme di speculazione; alle relazioni della Corte dei Conti, dei Nas, delle Fiamme gialle. Ma, ancora, al libro inchiesta di Daniela Francese «Sanità Spa», la giornalista che ha vinto il Premio Nazionale Informazione per la Salute al Festival internazionale di giornalismo di Perugia. Da parte mia, esattamente 7 anni fa scrissi il primo saggio sulla «lottizzazione» in sanità («Malati e governatori, un libro rosso per il diritto alla salute», Edizioni Dedalo Bari 2006), per il quale pagai pegno, cioè subii lo sdegno arrogante di certi governatori di punta. Quel saggio lo pagai caro.
D. Quindi lei sostiene che nella sanità si potrebbero liberare soldi di investimento? Quindi che i limiti finanziari imposti al settore in realtà puntano ad obbligare le Regioni ad essere virtuose?
R. In un certo senso sì, ma bisogna essere cauti. Per liberare risorse nella sanità non basta essere solo virtuosi, occorrono una certa idea di sistema, un programma di risanamento, un po’ come se dovessimo bonificare un sito inquinato da mille cose tossiche. Il dramma è che nella sanità vi sono tante cose tossiche, ma le Regioni non hanno idea di come liberarsene perché quel programma di risanamento non ce l’hanno. Molti dei problemi definiti «di corruzione» nascono dall’intreccio perverso tra politica e sanità. Le cronache ci parlano continuamente di questo intreccio del quale sono responsabili in prima misura proprio le Regioni. Il Governo però taglia, e meno le Regioni cambiano più il Governo taglia, per cui il sistema sanitario, nel suo essere sistema, si trova comunque ad essere definanziato, cioè depotenziato... danneggiando i malati. I tagli lineari alla fine sono funzione dell’invarianza più che della crisi perché, se il sistema fosse diverso, non ci sarebbe bisogno di ricorrervi. Quindi in questa fase si tratta di trovare un equilibrio tra le necessità finanziarie impellenti del sistema, che non si può privare drasticamente del necessario, e un cambiamento programmato che inizi a riconvertire il sistema. Ma anche per fare questo ci vuole una riforma e questa non c’è.
D. Oltre ai costi della corruzione, sembra che ve ne siano tanti altri che spesso sono quelli che stanno dietro al fenomeno che i giornali chiamano della «malasanità»?
R. Ha ragione. Ai costi della corruzione vanno collegati le diseconomie, cioè le cattive organizzazioni, i servizi inutili, i doppioni, gli sprechi. Le anti-economie, cioè i soldi che si spendono senza avere in cambio benefici adeguati, quindi vecchi modelli di servizi, vecchie organizzazioni del lavoro, persino vecchie professionalità cioè professioni non rinnovate. Eppoi le grandi contraddizioni come la medicina difensiva, cioè i comportamenti opportunisti degli operatori che, per difendersi dal rischio legale, spendono il doppio di quello che servirebbe erogando la medicina più inutile che esista. Insomma la palude è piuttosto fetida e maleodorante. Per cui, lo dico in particolare alle Regioni che piangono miseria prima di chiedere soldi: bonificate e non solo con la spending review... cioè riformate.
D. Ma sui giornali ogni giorno non si legge di assessori e di governatori che minacciano di non sedere al tavolo per il patto per la salute se non avranno altre coperture finanziarie?
R. Trovo francamente penoso che le Regioni facciano la voce grossa quando in realtà hanno perduto del tutto il loro potere contrattuale. I tagli lineari sono stati decisi senza di loro, i piani di rientro sono loro imposti, il patto per la salute è del tutto superfluo, abbiamo un prodotto interno che cala, il Governo non trova i soldi per scongiurare l’aumento dell’Iva. Ma cosa pretendono? Che le rifinanziamo il malaffare, la disorganizzazione e gli anacronismi dei loro sistemi sanitari? Invece di comportarsi come degli spacconi di periferia, vogliono davvero fare una cosa seria? Restituiscano il mandato al Presidente della Repubblica per manifesta incapacità, incompetenza e disonestà oppure tirino fuori un programma di riforma convincente che sia di risanamento e di cambiamento. Forse le Regioni non si sono rese conto che il titolo V della Costituzione è stato completamente svuotato dal potere di spesa dello Stato centrale. O forse le Regioni l’hanno capito e, pur di tenersi stretti i loro poteri formali, sono disposte a qualsiasi umiliazione. I costi standard cosa crediamo che siano? Sono una forma di centralizzazione del potere di spesa, quello che nel mio libro chiamo spending power, e che riducono le Regioni a semplici maggiordomi.
D. Alle Regioni come maggiordomi non avevamo pensato. Il suo giudizio sulle Regioni è molto severo.
R. Non sulle Regioni e neanche sulle singole persone che, secondo me, devono continuare a occuparsi di sanità, ma sul «riformista che non c’è». Perché da anni dico che, se le Regioni fossero diventate davvero Regioni cioè soggetti morali di governo e di riforma, non saremmo a questo punto in balia della ragioneria. Essere «tra invarianza e cambiamento», per riprendere il titolo del mio libro, significa che la sanità, soprattutto a causa delle Regioni, è in una transizione al buio, senza sapere dove si andrà a finire. Se non convinciamo «il riformista che non c’è» che bisogna voltare pagina, si corre il rischio di regredire oltre l’invarianza, cioè di tornare indietro. I segnali che abbiamo sui fondi integrativi, sulle mutue, sulla crescente privatizzazione, sull’abbandono sociale, sulle forme di ritorno della carità e della beneficenza stanno proprio a significare questo pericolo.
D. Per scongiurare questo pericolo, il suo libro propone la strada della riforma. Può spiegarla?
R. Io propongo in modo del tutto circostanziato, quindi in modo concreto, pratico, di riformare «il modello della tutela». Chiariamo i termini: tutela vuol dire letteralmente «difesa» e sta ad indicare un sistema concepito per difendere l’uomo dalle malattie, fatto da servizi, da professioni, da conoscenze, da pratiche, da modi di fare e quindi anche da risorse finanziarie. Dopo un lungo lavoro di analisi, di ricostruzione, di approfondimenti anche dettagliati, sono arrivato alla conclusione che, nonostante le tante cose fatte in questi 30 anni nel bene e nel male, nonostante ben tre riforme, i modelli fondamentali della nostra tutela sono rimasti quelli tipici del vecchio mutualismo. In particolare mi riferisco alle 4 funzioni fondamentali che dal sistema mutualistico sono passate nel sistema universalistico e che sono: l’assistenza di base, la specialistica, la farmaceutica e l’assistenza ospedaliera. Questo significa che, nonostante le tante riorganizzazioni adottate soprattutto dalle Regioni, alla fine, abbiamo comunque messo in piedi una supermutua certamente universalistica, nazionale, regionale, aziendale, territoriale ecc., ma, rispetto al modello culturale, comunque una «supermutua». Cioè abbiamo mantenuto un genere di tutela a presupposti e a postulati culturali invarianti quando invece, spinti dai grandi cambiamenti del mondo, avremmo dovuto riformarla.
D. Quali sono le conseguenze della super mutua, ammesso che ve ne siano?
R. Credo di aver dimostrato in più occasioni che, non essere riusciti a riformare il modello di tutela, oggi ci ha fatto accumulare un impressionante debito con il cambiamento. Debito in tutti i sensi. Quindi anche economico in termini di una spesa sanitaria che è più alta di quella che potrebbe ragionevolmente essere. Dire che spendiamo poco, come fanno le Regioni per avere soldi, serve a poco e non dice praticamente niente. Se vogliamo evitare davvero il default per la sanità pubblica, dobbiamo pagare questo debito e sgonfiare la spesa sanitaria. Oggi il vero dramma è che al debito di cambiamento si aggiungono le restrizioni della crisi. Questa è la vera miscela insostenibile. La responsabilità di questa situazione è prima di tutto del «riformista che non c’è».
D. Quindi dopo tre riforme lei ne vorrebbe fare una quarta?
R. Non nel vecchio senso del termine «riforma». Per me non si tratta di riformare l’ordinamento della sanità alla vecchia maniera delle altre riforme ma, come dicevo prima, di reinventare il modello di tutela sanitaria. Mi spiego meglio per non apparire astratto: la tutela altro non è se non un certo tipo di consumo e di uso della medicina, quindi è quella che decide come sono impiegati i mezzi culturali, scientifici, materiali, professionali, finanziari. Quel «come impiegare» va inteso come modo di tutelare. Ebbene riformare la tutela significa ripensare il consumo di medicine, l’uso della medicina, il modo di fare salute e cura. E da questo ripensamento ricavarne tutte le deduzioni sul modello di governo più adatto, sul tipo di servizio sanitario, sul tipo di operatori, sul tipo di conoscenze necessarie.
D. In questo caso quello che lei chiama «debito con il cambiamento» è soprattutto un «ritardo con il cambiamento». La responsabilità del suo «riformista che non c’è» sarebbe soprattutto quella di essere culturalmente in ritardo nei confronti delle mutazioni. È così?
R. È esattamente così. Già nel 1978, l’anno della grande riforma, avremmo dovuto riformare il tipico consumo e uso di medicina del mutualismo, ma non l’abbiamo fatto per tante ragioni che spiego nel libro. Il «riformista che non c’è» del tempo e poi successivamente quelli che sono venuti dopo, pensarono giusto prendere un’altra strada, quella amministrativa e gestionale, quindi la strada dell’aziendalismo e poi quella della compatibilità e ancora quella della razionalizzazione, nel tentativo, oggi chiaramente fallito, di limitare i costi di una tutela mutualistica senza riformarla.
D. Ma lei si riferisce ad anni nei quali la salute era al centro di tante battaglie per l’emancipazione, per le donne, la salute nei luoghi di lavoro, la salute mentale. Come è potuto avvenire questo grave fraintendimento strategico?
R. Allora la strada che al «riformista che non c’è» dell’epoca sembrò la più saggia, ripeto, fu quella amministrativa, quindi puntò tutte le proprie carte sulla gestione, semplicemente perché la spesa in quegli anni cominciò a crescere. In quegli anni gli operatori dei servizi, i servizi in quanto tali, i soggetti sociali coinvolti nel processo di tutela - donne, operai e la salute in fabbrica, malati mentali, handicappati, anziani, cittadini ecc. - già stavano praticando e sperimentando forme nuove di tutela. La decisione di rincorrere l’amministrativismo fu letale per queste esperienze e queste culture, e nel tempo i cassetti dei servizi pieni di progetti piano piano furono svuotati. Oggi, se vogliamo salvare la sanità pubblica, dobbiamo riempire di nuovo quei cassetti e riprendere il discorso interrotto, sapendo che ormai quella riforma di tanti anni fa è praticamente inservibile. Quindi da rifare.
D. La sua analisi, giusta o sbagliata che sia, ha l’effetto di spiazzare quel «senso comune» che, come lei dice, oggi ruota interamente intorno al discorso della spesa?
R. Da trent’anni sappiamo che la spesa sanitaria è una manifestazione del consumo di assistenza sanitaria e del modo come si utilizza la medicina. Cioè la spesa è funzione del tipo di tutela che si attua. Se mi si permette la battuta «Dimmi quale tutela e ti dirò quale spesa», i servizi a partire dagli anni 70 sapevano bene che il consumo o l’uso di medicina è il vero determinante della spesa sanitaria.
D. Può spiegare meglio in cosa consistono i determinanti della spesa? Oggi tutti parlano di sostenibilità, in Parlamento si sono istituite addirittura due Commissioni gemelle, una alla Camera e una al Senato, proprio per indagare sulla sostenibilità.
R. Sono Commissioni del tutto inutili. Non c’è bisogno di spendere soldi pubblici per sapere quello che già si sa, cioè che la questione della sostenibilità è una bufala inventata da certi economisti che tirano la volata ai fondi integrativi e alle mutue. Se lo ripuliamo da corruzione, abusi, diseconomie e da anti-economie, hai voglia se il sistema è sostenibile. Il consumo e l’uso, quindi il modo di usare la tutela, è costituito da tre grandi fattori di spesa: la domanda espressa, la struttura dell’offerta disponibile, le modalità produttive. Trent’anni fa avremmo dovuto riformare tanto la domanda che l’offerta, e infine i modi organizzati di produrre la salute. Non l’abbiamo fatto se non marginalmente, perché «il riformista che non c’è» del tempo pensò che fosse meglio contenere sempre più la spesa senza cambiare i modelli che la determinavano. Oggi è innegabile che, nonostante mille riordini e riorganizzazioni fatte dalle Regioni, ci ritroviamo con un mondo completamente cambiato, con una vecchia domanda, una vecchia offerta e una vecchia modalità produttiva. È questo ad essere costosissimo e insostenibile. È da tutto questo che derivano le principali «criticità» che entrano in conflitto con i limiti finanziari imposti.
D. A quali criticità si riferisce?
R. Sono tante, ed è oggettivamente poco pratico elencarle tutte. Sono raggruppabili in tre tipi: le criticità legate a quello che ha fatto la politica, a quello che non ha fatto e a quello che, in quanto contingente, non ha ancora risolto.
D. Può fare qualche esempio?
R. La riforma del Titolo V della Costituzione oggi è una criticità, l’azienda pure, la governance, il modello di finanziamento ecc. Tutte sono legate a quello che è stato fatto. Esempi di quello che non è stato fatto sono: la riforma del programma di studio per i medici e gli altri operatori, la riforma del lavoro, un ripensamento delle prassi cliniche, una riforma della partecipazione sociale, la valorizzazione della sussidiarietà come produzione sociale della salute in una comunità ecc.
D. E le criticità legate all’inconcludenza della politica?
R. Sono tante: responsabilità medica, medicina difensiva, libera professione, governo clinico, ospedali, integrazione tra territorio e ospedale ecc.
D. Un libro come il suo, coraggioso e in qualche modo civilmente oltraggioso verso la politica, non farà dispiacere la sua critica?
R. Io penso ai malati, ai diritti e a questo straordinario patrimonio etico, scientifico ed economico che è la sanità pubblica. Patrimonio che, se sprecato, sarebbe un delitto contro l’umanità. Penso che sia diritto di tutti noi chiedere alla politica di diventare quella che Platone definiva «la scienza regia». Cioè chiedere, in luogo del «riformista che non c’è», il riformista o il riformatore. Quante volte nella mia esperienza professionale, a volte accanto alla politica, ho sentito dire anche dai più progressisti, «Questa è la politica», per giustificare lottizzazioni, inciuci, favoritismi, schifezze. No, quella non è la politica. È un’altra cosa, compresa tra campo boario, mediocrità delle persone, arrivismo e immoralità. La sanità, la medicina, sono grandi idealità ed hanno bisogno di un riformismo con una grande idealità.
D. Può in sintesi indicare gli argomenti del suo libro che nel loro insieme costituirebbero una riforma della tutela?
R. Ho scelto di affrontare quattro grandi snodi cruciali che, guarda caso, sono le quattro grandi pecche del «riformista che non c’è»: la ricontestualizzazione dell’articolo 32 della Costituzione per poter fare più salute includendo quindi la questione del cittadino come autore di salute; il ripensamento della medicina per curare meglio e costare di meno; la reinvenzione del lavoro professionale; la reimpostazione e il riconcepimento delle politiche sanitarie, quelle comprese tra la questione della governabilità e della sostenibilità ecc. Il «riformista che non c’è» in genere si occupa a modo suo di politiche sanitarie, ma sul resto non arriva a concepirlo.
D. Qual è il rapporto tra questi snodi cruciali come li ha chiamati lei e la riforma del consumo e dell’uso di cui si parlava prima?
R. Non si capisce? Lo spiego subito: ripensare l’articolo 32 significa usare più salute e consumare meno sanità; ripensare la struttura concettuale della medicina significa usarla meglio, consumarla in modo pertinente a questa nuova società; riformare il lavoro è indispensabile perché il cambiamento del consumo e dell’uso della medicina non si fa senza cambiare il lavoro. Infine ripensare le politiche sanitarie in campo sino ad ora, perché esse si sono limitate a contenere il consumo e a condizionare l’uso a modello di tutela invariante. E questo oggi è semplicemente insufficiente.