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MAX FREEMAN: UN FILM SULLA VITA DI APOSTOL KARAMITEV, UN MASTROIANNI BULGARO

Max Freeman Momchil figlio di Apostol Karamitev

Figlio della coppia di attori bulgari molto conosciuta in patria Apostol Karamitev e Margarita Duparinova, Momchil in arte Max Freeman, attore e regista bulgaro-americano, si è laureato in Arte drammatica a Sofia, specializzato a Roma nell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico e ha studiato Regia cinematografica e Sceneggiatura nella New York University. Trasferitosi poi a Los Angeles con la moglie, la stilista di costume romana Gabriella Di Saverio, Max Freeman ha operato in produzioni cinematografiche e tv internazionali come attore e aiuto regista. Ha lavorato nel cinema con Martin Scorsese, Clint Eastwood, George Clooney, Michael Kenney e molti altri. Dopo il successo a Los Angeles e San Diego, in occasione del IV festival del cinema bulgaro tenutosi a maggio alla Casa del Cinema a Roma, è stato presentato il film-documentario sulla vita del padre e intitolato pertanto «Apostol Karamitev» (2009). Diretto da Freeman, il documentario rievoca la brillante carriera di un attore che, proveniente da una scuola italiana, riportò un successo strepitoso diventando, per l’avvenenza e soprattutto per la bravura, un idolo dei suoi concittadini, una specie di Marcello Mastroianni bulgaro. In questa intervista Freeman rievoca le appassionanti vicende dei genitori, cui assistette sin dall’infanzia.
Domanda. Come le è venuta l’idea di realizzare un film su suo padre?
Risposta. Dal desiderio e dalla necessità di dire la verità su questa persona di cui si era parlato tanto ma che nessuno aveva descritto nella sua vera essenza, nei suoi sentimenti e nella vita privata. 37 anni dopo la perdita di mio padre, avvenuta quando avevo 13 anni, le esperienze della vita mi hanno indotto a riscoprirne i lati che non conoscevo. Ho scoperto che lui era molto ambizioso. Cercava testi e caratteri che rispecchiavano i problemi nella società. Leggeva riviste e giornali in quattro lingue: francese, italiano, tedesco e russo. Lavorando duramente egli interpretava ogni anno film per il cinema e la tv e partecipava a lavori teatrali. Indagando, ricercando testimonianze di suoi amici, critici e colleghi, ho scoperto altri aspetti della sua personalità. Proveniva da una famiglia povera e quando cominciò a frequentare la scuola la sua vita cambiò profondamente perché, pur dovendo i suoi genitori lottare ogni giorno per la sopravvivenza, egli trovò un ambiente culturalmente elevato. Si trattava infatti della prima scuola italiana aperta nella città di Burgas, intestata ad Alfredo Oriani. Le maniere e la disciplina seguita dalle insegnanti l’aiutarono a formare la propria personalità. In quel periodo si preparava il grande matrimonio della principessa Giovanna di Savoia con il re Boris III di Bulgaria, avvenuto il 25 ottobre 1930. Per attrarre gli studenti la scuola italiana praticava tasse inferiori a quelle di tutte le altre, anche delle scuole bulgare, e fu la prima ad accettare un bimbo che non aveva compiuto 6 anni, cioè Apostol Karamitev. Nella «Regia sQcuola italiana», così chiamata perché sotto il patronato della regina, egli conobbe le favole del folclore italiano e partecipò ai piccoli spettacoli musicali con i bimbi. Rivelò le proprie attitudini alla recitazione nelle operette «Cappuccetto rosso» e «La piccola olandese» offrendo spontaneamente una rosa rossa alla sua piccola partner, inginocchiandosi dinanzi a lei e cantando con grande trasporto. Si seppe che era il più piccolo di età e figlio di un lavoratore del porto.
D. Che fece divenendo più grande?
R. Ebbe la fortuna di avere insegnanti entusiasti, desiderosi di far conoscere la cultura italiana. Poi venne il primo amore per una compagna di scuola che si ammalò di tbc e che non poté sposare. Dopo il ginnasio, prestò il servizio militare ma, poco dopo il congedo, fu richiamato alle armi e partecipò, in artiglieria, alla seconda guerra mondiale. Non parlava mai di quella triste esperienza ma, anni dopo, nel 1969, mi condusse a vedere il film «La battaglia della Neretva» con Franco Nero e Yul Brynner, per farmi conoscere gli orrori delle guerre. Per una settimana non dormii, ossessionato dal timore di contrarre il tifo che aveva fatto una strage di soldati, e non giocai più con pistole, fucili e coltelli ma cominciai ad interessarmi al cinema, alle commedie e alle automobili, di cui riconoscevo tutte le marche e i tipi. Un’altra volta mi portò a vedere il film americano «Grand prix», il primo sulla Formula Uno, del regista John Frankenheimer, con Yves Montand; aveva capito che avevo un debole per il cinema e cercava di darmi insegnamenti. La più grande università che ho avuto nella vita è stata quella frequentata al cinema, con mio padre.
D. E terminata la guerra?
R. Andò a studiare Giurisprudenza a Sofia perché, facendo l’avvocato, avrebbe potuto guadagnare e fare carriera, ma non riuscì a vincere l’aspirazione a fare l’attore; dopo il primo anno di università, saputo che il Teatro Nazionale di Sofia stava per aprire una nuova scuola di recitazione, vi si iscrisse e superò l’esame. Ne era così emozionato che, quando si vide nell’elenco degli ammessi, non credette ai propri occhi e chiese a un passante la conferma che vi fosse scritto anche il suo nome, Apostol Karamitev. Quindi frequentò la Scuola di arte drammatica. Alcuni suoi colleghi pensavano che lui non fosse molto socievole e lo spiegavano con il fatto che aveva studiato in una scuola italiana. Nel 1948 vinse una borsa di studio per andare a Mosca a studiare regia, e chiese un prestito al fratello per comprare una pelliccia perché in quella città in gennaio la temperatura scendeva a 30 gradi sottozero. Non partì a causa di una delazione di un suo concittadino di Burgas il quale aveva denunciato che, avendo studiato in una scuola italiana, Apostol non era ben educato per andare a Mosca. Ormai era ben conosciuto, per cui non fu inviato in un campo di lavoro, ma addussero il pretesto che, essendo un bravissimo attore, era preferibile che restasse in patria.
D. Che carattere aveva?
R. Indagando sulla sua vita ho scoperto che teneva molto al comportamento morale nella società. Grazie al lavoro e ai suoi film era diventato un idolo romantico nel suo Paese. Una moltitudine di persone erano affascinate da lui. Egli non usò mai questo successo per farsi strada. Otteneva ruoli in teatro perché era molto popolare, non aderì mai a qualche partito politico, aveva simpatie per la sinistra europea, per le lotte sociali che questa combatteva, ma non ebbe mai una «tessera». Quando morì, da tutte le province centinaia di persone si recarono a Sofia per i funerali, bloccando il centro della città. Fino a quel momento non si sapeva che aveva influenzato così profondamente una massa di gente.
D. A che era dovuto il successo?
R. Al fatto che con il suo comportamento e la sua arte combatteva per la libertà contro la manipolazione. Usava le parole delle scritte folcloristiche che nella lingua bulgara sono molto significanti. Lavorava come docente nell’Accademia d’arte drammatica e influenzava gli studenti. Lavorava molto spesso nella televisione, che attraeva il maggior numero di spettatori. Era modesto e non era viziato dalla popolarità, non era fanatico. Era molto intelligente e aveva un buon carattere.
D. Come reagiva alla popolarità?
R. In strada le persone lo riconoscevano, gli facevano complimenti, lo salutavano, si fermavano a parlare con lui, ma egli era molto scettico sul proprio successo. Diceva: «Se ho avuto successo, lo devo ai miei errori, alle mie sconfitte; ho imparato molto di più da una battaglia perduta che da una vinta». E quando riceveva un premio, ironicamente osservava: «Adesso con questo premio sono diventato più bello o più bravo?». Noi stavamo bene, non ci mancava nulla ma non abbiamo posseduto mai un’automobile perché mio padre non sopportava le insensatezze che accadono lungo la strada. A me dispiaceva, perché tutti sapevano che ero il figlio dell’attore più famoso della Bulgaria e mi chiedevano che auto avevo.
D. Quali erano i suoi rapporti con il regime comunista allora vigente?
R. Non cercava il loro aiuto perché era sempre occupato. Creava sempre nuovi progetti e non aveva tempo per essere presente nelle riunioni. Era un patriota e lo rispettavano per questo. Una volta nella mia scuola chiesero a noi studenti chi avesse in famiglia esponenti politici. Io alzai la mano perché credevo che mio padre, se era famoso, doveva per forza essere iscritto al partito comunista; per me tutti quelli bravi erano comunisti. Lo raccontai a mio padre che confermò: «Hai detto la verità, qualche comunista nella tua famiglia c’è, ma non sono io. Era tuo nonno, lavoratore di porto, iscritto perché credeva che i sindacati proteggessero i lavoratori; ma dopo un mese e mezzo lasciò il partito, perché vide che non funzionavano e che accettavano mazzette dai mafiosi del porto».
D. Quali i suoi rapporti con il cinema occidentale?
R. Alla fine degli anni 60, in un festival del cinema sovietico a Mosca incontrò Marcello Mastroianni; mio padre era l’unico che parlasse italiano, diventarono amici. Nella biblioteca di casa aveva una piccola foto che lo ritraeva con Mastroianni; ridevano, sembravano fratelli. Mi chiedevo come fosse possibile che due persone, appartenenti a mondi tanto diversi, si somigliassero e potessero trovarsi così d’accordo in un Paese straniero che non era né la Bulgaria né l’Italia ma l’Urss durante il comunismo. Stimava molto Mastroianni, gli piaceva la sua naturalezza, erano quasi coetanei e dello stesso segno zodiacale. All’inizio degli anni 70 io rimasi impressionato dal film «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Elio Petri, perché quelle vicende accadevano anche in Bulgaria. Mio padre mi disse che l’interprete, Gian Maria Volonté, era un bravissimo attore, e che tutto ciò che il film narrava accadeva in qualunque parte del mondo.
D. Che ricorda della sua professione?
R. Egli trascorse una vita molto dura. Nei primi anni faceva ruoli di personaggi negativi. In teatro ricevé un premio prestigioso, il «Georgi Dimitrov»; ottenne il primo successo interpretando il ruolo di un investigatore cattivo. Successivamente, con la sua bravura e la sua bellezza creò la figura di un eroe romantico e quasi tutti erano innamorati di lui, soprattutto le donne. Il secondo periodo è stato più drammatico per lui. In teatro tutti lo vedevano come l’amante romantico in «Romeo e Giulietta», e nel cinema l’interprete del film «Leggenda d’amore» del 1957. Essendo un bell’uomo, era chiamato a svolgere ruoli romantici e pertanto gli era molto difficile uscire da questo schema, diventare un personaggio reale alle prese con i problemi quotidiani e sociali. Fu il primo a portare in teatro con grande successo «Il prezzo» di Arthur Miller nella parte del poliziotto Victor Franz. Poi ebbe successo nel dramma «La ragazza del quartiere» di William Gibson, e in lavori di Shakespeare, Ben Johnson, John Priestley, Oscar Wilde e William Saroyan.
D. Recitò anche in commedie italiane?
R. Ebbe un grande successo con Carlo Goldoni, con il Boccaccio e con Luigi Pirandello. Il top nella sua carriera in teatro fu l’«Enrico IV» di quest’ultimo. Dopo tanti anni di lavoro e di sacrifici per la carriera, quando interpretò questo lavoro gli contestarono che Pirandello non era attuale per le nostre esigenze teatrali. Non so come sia riuscito a convincerli che non c’era nulla contro il nostro sistema e la nostra società. Non sapevano cosa fosse il dualismo nel dramma personale, ed egli fu il primo a introdurlo in Bulgaria. Lo spettacolo suscitò una grande impressione perché poneva il problema non solo di dire la verità, ma anche della manipolazione delle persone, quello che succedeva in quel momento nella vita sociale bulgara. Per assistere allo spettacolo c’era chi prendeva il treno di notte e viaggiava 8 ore. Nei 37 anni trascorsi dalla scomparsa di Apostol Karamitev nessuno più in Bulgaria è riuscito a rappresentare l’Enrico IV.
D. Cosa ha imparato da Apostol?
R. A cercare autori che mi interessano, ad essere onesto con me e con gli altri, requisiti indispensabili per lavorare in teatro o nel cinema. Ho imparato molto da lui e conseguentemente da quella scuola italiana determinante nella sua formazione. Per questo desideravo realizzare un film sulla sua persona illustrando anche questo fondamentale fattore che lo portò a diventare un idolo della gente. Interpretando Pirandello e Goldoni, che nessuno conosceva, egli ha fatto un grande regalo al popolo bulgaro. Esistevano buoni testi teatrali, ma nessuno parlava di dualismo, di un dramma personale, come aveva fatto Pirandello. Ho impiegato sei anni per realizzare il film perché era difficile avere il permesso e ottenere tutti i documenti, anche brani dei film da lui interpretati, per i quali ho dovuto perfino pagare i diritti alle agenzie. Non è stato facile e sfortunatamente molte persone presenti nel documentario sono scomparse. Inoltre mi sono trovato un materiale così ricco che non potevo inserirlo in 60 minuti, dal momento che un lavoro per essere trasmesso in tv non deve superare 57-58 minuti. Ho capito la sua morale, la sua bravura, la sua autoironia, il suo grande amore per l’Italia. Mia moglie Gabriella Di Saverio, romana da sette generazioni, mi ha molto aiutato anche procurandomi un libro scritto nel 1971 da Sergio Micheli sul cinema bulgaro, che contiene notizie su mio padre. Gabriella, che non conosce la lingua bulgara, ha visto tutti i suoi film; è stato un lavoro molto interessante perché abbiamo scoperto che uno spettatore italiano può vederli anche senza conoscere la lingua. Si tratta di film di qualità notevolmente superiore a quella delle pellicole oggi realizzate in Bulgaria; sono divertenti, possiedono un ritmo tipicamente italiano che mio padre vi ha trasfuso grazie alla sua creatività.
D. Quali sono i più noti?
R. Uno dei film interpretati da mio padre, forse l’unico conosciuto in Italia negli anni 60, vinse il premio San Marco nel festival di Venezia nel 1966, «Il cavaliere senza armatura» (Ritzar bez bronya) di Borislav Sharaliev. Raccontava i problemi dei giovani con la famiglia. In «La camera bianca» (Byalata staya), del regista Metodi Andonov, interpretava il ruolo dello scrittore Petar Aleksandrov, e fu il suo più grande successo cinematografico, premiato come miglior film nel festival del cinema internazionale di New Delhi nel 1969. Prima di questo aveva interpretato una serie di commedie: «Specialista tutto fare - Jack of all trades», «Preferito 13» (Lyubimetz 13), e «È accaduto sulla strada» (Tova se sluchi na ulitzata) del 1959, per il quale fu premiato come il miglior attore al Festival internazionale del cinema di Karlovi Vary in Ungheria; e la già citata produzione internazionale «Leggenda d’amore» (Legenda o lásce), sceneggiatura di Nazim Hikmet diretta da Vaclav Krska. Abbiamo avuto la possibilità di presentarlo l’anno scorso al Festival del sud-est europeo e al Festival di Los Angeles: la sala era piena di persone che volevano vederlo; lo stesso è avvenuto a San Diego. Poi abbiamo ricevuto l’invito a proiettarlo a Roma, che per me era il massimo, perché finalmente in Italia è stato possibile far conoscere un film di mio padre.
D. Da che dipendeva, in quegli anni, l’interesse in Italia per il cinema bulgaro?
R. Non dimentichiamo l’epoca della guerra fredda. L’interesse dipendeva dal vento politico. Prima di cominciare a lavorare sul film conoscevo l’esistenza di un libro, «Il cinema bulgaro», di Sergio Micheli. Era immerso nella polvere della mia soffitta. Conteneva la critica dei metodi, delle lavorazioni, dei linguaggi di quel cinema. Precedentemente sui film bulgari avevo letto qualcosa di un altro autore, che Micheli citava e contraddiceva. Il libro di Micheli è stato uno dei motivi per il quale ho deciso di realizzare il film, ma il principale è stato il giudizio di tante persone più grandi di me, compresi gli allievi di mio padre, che pretendevano di conoscerlo meglio di noi figli. Sapevo che non era solo quel tipo che descrivevano, che aveva avuto una vita diversa da quella esteriore, e pertanto volevo far vedere la sua educazione principale e la sua posizione sociale. Oltre tutto la nostra non era una famiglia tranquilla: spesso ascoltavo dialoghi troppo vivaci tra i miei genitori. A volte andavo al cinema per non sentirli. Anche mia madre, Margarita Duparinova, era un’attrice prestigiosa ed era già famosa quando mio padre era sconosciuto. Era molto nota nell’ambito del teatro, ed è rimasta sempre e solo un’attrice teatrale. Mio padre invece è stato favorito dal cinema e dalla tv. A 37 anni dalla sua scomparsa il Comune di Sofia ha apposto un’epigrafe sull’edificio in cui abitavamo: prima il nome di mia madre, poi quello di mio padre, perché lei aveva cominciato prima di lui. In conclusione, questa è la storia di un film realizzato per arricchire le notizie su Apostol Karamitev, e per il desiderio di mostrare l’attaccamento all’Italia di uno dei più noti attori della Bulgaria, profondamente innamorato della cultura italiana. Per le proiezioni del film in Italia basta rivolgersi al profilo Twitter oppure consultare www.apostolkaramitev.com.

Tags: cinema teatro spettacolo Settembre 2011

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