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PIETRO VAVASSORI: LE MOLTE OPPORTUNITÀ (NON SFRUTTATE) OFFERTE DALLA LOGISTICA

Pietro Vavassori Confetra trasporti e logistica

Associazione che offre il panorama più vario dell’imprenditoria nazionale e forse tra i meno conosciuti per l’attività e per le dimensioni, Confetra - Confederazione generale italiana dei trasporti e della logistica - raggruppa chi trasporta merci, agenti doganali, imprese di magazzinaggio, traslocatori e spedizionieri, grandi multinazionali del trasporto e della logistica. Accoglie in pratica tutte le categorie di imprese che operano nel trasporto, nella spedizione, nella logistica, nel deposito delle merci e nei settori connessi e ausiliari, anche quelle di servizi ecologici portuali e di tutela dell’ambiente marino, le autoscuole e gli studi di consulenza automobilistica. Costituita il 13 aprile 1946, Confetra ha celebrato i 60 anni con un convegno sul tema «Lo sviluppo asiatico e il business logistico», nel corso del quale sono stati dibattuti i problemi e le prospettive del settore che illustra in questa intervista l’ing. Pietro Vavassori, dal giugno 2004 presidente della confederazione.

Domanda. Logistica e trasporti sono una realtà imprenditoriale poco conosciuta. Qual è il loro ruolo?

Risposta. La logistica comprende attività molto diverse, ognuna delle quali è espressione di grande professionalità. Agli operatori che svolgono attività marittima, aerea, doganale, di magazzinaggio, di autotrasporto, si affiancano oggi i cosiddetti operatori multimodali che svolgono tutte queste funzioni, coordinandole e proponendosi al produttore come interlocutore unico per seguire tutte le filiere della logistica. Un servizio che al momento solo le multinazionali e pochissime aziende italiane sono in grado di offrire, anche se è auspicabile che si proceda in questa direzione. L’obiettivo, soprattutto per l’efficienza del sistema produttivo, deve essere un progressivo affidamento della funzione logistica ad aziende esterne specializzate, secondo esperienze collaudate da oltre un decennio in Inghilterra, Stati Uniti, Giappone. La spesa logistica italiana complessiva, che nel 2000 era stimata in 170 miliardi di euro, è oggi vicina ai 200 miliardi e le dimensioni del mercato mondiale si misurano in migliaia di miliardi di euro. Il nostro obiettivo deve essere la partecipazione a questo grande affare. In questa competizione la conformazione degli oceani e dei continenti e l’esplosione dell’economia asiatica offrono al Mediterraneo e in particolare all’Italia un’opportunità irripetibile di produzione di ricchezza, investimenti, occupazione, incremento stabile del prodotto interno. Accanto a Cina e India si affiancano altre realtà emergenti, dal Giappone alla Corea, che pongono alla nostra attenzione l’intero mercato dell’Estremo Oriente. Oggi una parte del traffico di merce destinata o in partenza dall’Italia transita per i grandi porti del Nord Europa che riescono ad essere più competitivi. Occorre riprendere il traffico delle merci prodotte in Italia e destinate nel mondo, che attualmente transitano per Amburgo, Rotterdam, Anversa. Ma l’impegno maggiore riguarda i flussi di merci asiatiche, in particolare di quelle dirette ai Paesi dell’Est europeo. Cinesi, indiani, coreani, inondano il mondo con i loro prodotti, ma il mercato dell’Est è vergine sotto il profilo logistico. Geograficamente siamo nella miglior posizione per fornire servizi sia di trasporto sia anche di lavorazione della merce.

D. In quale maniera?

R. Le merci in arrivo in Italia in porti come Gioia Tauro, Taranto, Cagliari, vengono trasferite su navi più piccole che le consegnano alle destinazioni dopo una suddivisione del contenuto sulla base delle esigenze dei consumatori. Al supermercato di Budapest arriverà solo il quantitativo richiesto di stivali, sandali, cappotti, scaricati dai diversi containers. Si tratta di flussi destinati a crescere e durare a lungo, che generano mano d’opera stabile e avviano le attività più diversificate. Ci sono il bar e l’edicola dei giornali, l’incremento del trasporto locale e gli introiti fiscali derivati dai diritti doganali e da maggiori introiti sul maggior reddito. I porti italiani sono logisticamente meglio piazzati di quelli spagnoli e francesi. La Grecia, che pure ha una posizione geograficamente vantaggiosa, è più indietro sotto il profilo infrastrutturale e culturale. Secondo le nostre stime si può generare una crescita del prodotto interno dell’uno per cento, cifra che non deve stupire se si considera che la logistica in Germania dà lavoro a due milioni e mezzo di persone ed è la terza del Paese. L’Italia è ancora la Cenerentola, ma esistono le potenzialità per offrire un contributo notevole. Credo che questo sia il solo settore dell’industria italiana in grado di dare un simile apporto al prodotto interno. Per quante Ferrari possiamo produrre non arriveremo mai a un circuito di tale portata.

D. Quali sono le condizioni per l’avvio di questo processo?

R. Dotare di infrastrutture i porti, costruire piastre logistiche e magazzini attrezzati per carico, scarico, operazioni doganali, lavorazioni «pick and pack» delle merci. Tutto nel rispetto dell’ambiente. Di questo ha bisogno l’Alto Adriatico da Ravenna a Trieste, area strategica per attrarre i flussi diretti ai Paesi dell’Est, ma anche l’Alto Tirreno. Nonostante la maggior distanza dai porti asiatici e il costo rappresentato di 5 giorni in più di navigazione, i porti del Nord Europa sono più competitivi perché garantiscono tempi di consegna più certi. In Italia tutti i Governi hanno complicato la vita agli operatori e aumentati i costi anziché offrire i servizi necessari affinché determinate catene merceologiche possano essere gestite dall’Italia. Per avere la certezza che un prodotto arrivi a destinazione in tempo per una fiera, occorre spedirlo da Parigi, Zurigo, Francoforte. La maggior competitività non è data dal minor costo del servizio ma dalla maggiore affidabilità. Il gap italiano è frutto di una miopia che si manifesta anche in altri aspetti: scarsa efficienza delle dogane, leggi vicine al secolo di vita malgrado i cambiamenti radicali del mondo degli scambi; vincoli inesistenti in Olanda, Germania e Francia; generano costi non evidenti e rendono meno competitive le aziende.

D. Esiste un problema di dimensioni delle imprese italiane rispetto a quelle straniere?

R. Le multinazionali hanno uffici in ogni città, ciò che non avviene per le imprese italiane che lavorano attraverso un corrispondente. Ma questo non significa che il servizio reso sia meno efficiente: l’occhio vigile dell’imprenditore e l’offerta di un servizio fatto su misura per il cliente ci renderebbe più competitivi se non fossimo poi penalizzati da quanto abbiamo detto. Prima di liberalizzare occorre semplificare. Alla Commissione bicamerale per le semplificazioni, dalla quale siamo stati ascoltati recentemente, abbiamo chiesto di abolire tutti i balzelli che ci penalizzano, perché il maggior costo che viene scaricato sui prezzi ci fa essere meno competitivi. Senza contare che sul costo della logistica in Italia gravano anche le caratteristiche geografiche. Pe la «regina del Mediterraneo» la corona delle Alpi è pesante; se aggiungiamo burocrazia e regole antiquate il risultato finale è pesante.

D. L’Italia ha 150 porti e le Autorità portuali hanno autonomia finanziaria. Possono risolversi i problemi in un quadro così frammentato?

R. Il problema è aggravato dal fatto che grandi porti come Gioia Tauro e Taranto sono collocati nel Sud e questo rende il trasporto via terra lungo e costoso, senza contare l’ostacolo delle Alpi. Alcuni porti sono in città dotate di centri storici bellissimi che non si possono stravolgere, spesso in competizione tra loro, come ai tempi delle repubbliche marinare. Ma l’apertura dei mercati non ci consente più rivalità e è indispensabile creare delle reti. Il progetto di rilancio dell’Alto Adriatico si inserisce in questo quadro; e occorre razionalizzare il sistema portuale tirrenico, da Savona a Livorno, porti oggi in competizione. Il Governo ha pensato di risolvere il problema degli stanziamenti che non venivano utilizzati concedendo autonomia finanziaria alle autorità portuali. Ma il rischio è che il settore pubblico interferisca con il privato. Occorre una cabina di regia. Il porto di Tianjin in Cina movimenta un volume di merci che la somma di tutti i porti italiani non riuscirebbe. Per i cinesi Tianjin è Pechino, che pure dista 300 chilometri, ed è incomprensibile che Genova non significhi Milano o che Livorno sia diversa da Genova o da La Spezia. Ma c’è il problema delle infrastrutture: Tianjin è collegata alla capitale da tre autostrade, una ad 8 e due a 6 corsie. Solo una cabina di regia può far sì che, pur nella ricerca della propria identità, i porti dell’alto Tirreno e dell’Alto Adriatico agiscano in modo sincrono rispetto ai mercati.

D. Come rilanciare l’Adriatico che ha bassi fondali ora che nelle rotte intercontinentali si punta su portacontainer sempre più grandi?

R. Il problema non deve divenire alibi per non fare nulla. I mega-carriers non sono dietro l’angolo e per le navi che trasportano 4-6 mila tius sono più che sufficienti fondali di 12-14 metri che Trieste e Ravenna hanno già. Nel Tirreno la situazione è analoga, l’unico porto da rivedere è Livorno. L’ostacolo è il trattamento del materiale di scavo, sinora considerato inquinato. I cinesi hanno creato un canalone in mezzo all’oceano, portando i fondali a 18-20 metri e con il materiale estratto hanno costruito banchine, creato piazzali per i magazzini e per la logistica di imbarco e sbarco. Per noi la situazione è più complessa e non sono sufficienti soluzioni temporanee. Per una infrastrutturazione organica occorrono decisioni politiche che garantiscano la possibilità di effettuare i lavori senza essere bloccati dalla scadenza di una concessione. Una norma temporanea della Finanziaria 2007, che auspichiamo diventi definitiva, consente di operare gli scavi con la dovuta cautela e di analizzarne il contenuto senza definirlo a priori un rifiuto speciale. Chiediamo di affrontare in maniera definitiva in sede politica il problema e di addivenire a una soluzione analoga a quella adottata dagli altri Paesi europei. Nessuno pretende che si usi materiale contaminato, ma non si può partire dal pregiudizio secondo il quale sabbia e roccia estratte dal mare sono rifiuti speciali, perché non è così.

D. Cos’altro occorre per creare le infrastrutture per la logistica?

R. La logistica ha bisogno di banchine, raccordi ferroviari con il porto, aree dove poter gestire le merci. Ma occorre evitare interventi a pioggia; le risorse sono limitate, se diamo qualcosa a tutti non riusciremo mai ad essere competitivi, a portare a termine quanto necessario. Insieme a un’analisi sul sistema portuale occorrono investimenti funzionali al tipo di traffico che il singolo porto dovrà gestire. In Germania il sistema portuale di Amburgo si stende per chilometri, includendo Brema; anche in Olanda, Francia e Spagna le risorse sono state concentrate in pochi grandi porti. Noi ne abbiamo 150.

D. Quale è il vostro ruolo nel rapporto con le istituzioni?

R. Riteniamo di essere l’interlocutore istituzionale in quanto rappresentiamo tutte le attività nell’ambito della logistica, dalle piccole aziende alle multinazionali. Siamo l’unica confederazione che rappresenta tutti i settori della logistica e il presidente del Consiglio ci ha riconosciuto questo ruolo partecipando alla nostra assemblea annuale. Per evitare antichi errori vorremmo essere più ascoltati perché riteniamo di poter contribuire con la nostra esperienza a superare gli scogli che esistono.

D. Per sviluppare la logistica italiana si è prospettata la creazione di un soggetto pubblico da parte delle Poste Italiane e delle Ferrovie dello Stato. Può essere sufficiente?

R. In un Paese liberista e moderno lo Stato deve compiere bene il proprio compito di regolatore dei rapporti sociali e di garanzia delle condizioni perché le attitudini dei singoli possano svilupparsi, non turbare il mercato. Dubitiamo che lo Stato sia in grado di farsi carico del problema creando un soggetto in laboratorio. DHL, uno dei campioni della logistica nel mondo, è nata da un’alleanza tra Poste e Ferrovie tedesche, ma è una public company ad azionariato privato. Analoga la situazione del colosso americano UPS e di altri grandi operatori controllati da fondi di private equity. In Italia la proposta prevede di unire due soggetti i cui bilanci non sono brillanti; quale vantaggio deriverebbe dall’impiego di risorse pubbliche per scopi non pubblici? La logistica non ha finalità sociali. Riteniamo si tratti di una proposta che va contro l’interesse delle imprese e del Paese. Per aiutare le imprese occorrono liberalizzazioni, sburocratizzazioni e strumenti necessari per crescere anche sotto il profilo dimensionale.

D. Il timore maggiore è quello di dover rinunciare all’attività?

R. È un rischio che intendiamo combattere, decisi ad andare avanti senza aiuti come è sempre stato. Continueremo a lottare, nella speranza che i politici capiscano che l’iniziativa privata va incentivata. Per primi abbiamo parlato di partenariato pubblico-privato, soluzione ben vista dal mondo creditizio. L’amministratore delegato di Intesa Infrastrutture Mario Ciaccia ha comunicato la disponibilità a finanziare un progetto con finalità comuni. Si tratta di accordare un insieme di aziende, di elaborare un progetto di vero partenariato, di trovare soluzione ai complessi problemi di direzione.

D. Con quali soggetti pubblici?

R. Penso innanzitutto alle autorità portuali, dalle quali non si può prescindere, ma anche alle stesse Ferrovie dello Stato perché una parte di merce dovrà viaggiare sui treni. Chiediamo di rendere efficiente il loro servizio e di darci lo strumento per essere competitivi nei confronti dei tedeschi o degli olandesi. Affrontino il problema dell’efficienza e del servizio, anziché occuparsi di una professione che non conoscono. La mia azienda sta per avviare un nuovo centro di 60 mila metri quadrati, che sarà anche la nuova sede a Milano, con un raccordo ferroviario di intermodalità. Vorremmo che Trenitalia fosse nostro partner per la soluzione dei problemi, non nostro concorrente.

D. La competenza logistica si forma nella pratica o attraverso corsi?

R. L’imprenditore privato non è stato mai aiutato e fino a poco tempo fa ha fatto formazione in proprio: ogni azienda formava gli operatori per le varie specializzazioni. Abbiamo chiesto strumenti di formazione pubblici e istituito, con Confcommercio, il fondo «Forte» grazie a una legge che consente alle imprese di impiegare parte delle somme destinate ai contributi previdenziali. Gradiremmo che lo Stato ci aiutasse a creare non dico il Liceo della logistica che in Francia esiste, ma scuole tecniche in cui insegnare logistica, gli aspetti di questa professionalità, fino alla laurea in Ingegneria in logistica; tra le materie di studio dovrebbero esservi le lingue. In India si usa l’inglese ma diventa indispensabile anche il cinese, che nessuno conosce.

D. Pensa di essere confermato nella carica alla scadenza?

R. Sono amministratore delegato di Italsempione, un gruppo con 50 anni vita e tra i più consolidati in Italia. Il fatturato di 350 milioni di euro ci colloca al nono posto; siamo presenti in tutte le regioni e abbiamo società in Svizzera, Spagna, Stati Uniti, Giappone. Svolgiamo spedizioni aeree, marittime e terrestri, siamo clienti di Trenitalia soprattutto attraverso la nostra filiale svizzera. Alla vita associativa mi sono avvicinato qualche anno fa e sono stato eletto presidente nel giugno 2004. Un ruolo impegnativo che mi ha appassionato perché ho compreso che c’era molto da fare e il mio contributo poteva essere utile. Ma sono per l’alternanza e non penso a un rinnovo, anche perché è molto impegnativo affrontare le esigenze della confederazione e della propria azienda. Esistono valenti imprenditori in grado di rappresentare la categoria e realizzare i progetti in corso.

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