Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

  • Home
  • Interviste
  • GIUSEPPE ROMA: GLI ITALIANI DI OGGI, COME RISULTANO AL CENSIS

GIUSEPPE ROMA: GLI ITALIANI DI OGGI, COME RISULTANO AL CENSIS

Quarantatré anni e non li dimostra. Questa l’età del Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, fondato nel 1964 da un gruppo di giovani ricercatori fuoriusciti dall’associazione Svimez costituita nel 1946 per studiare e promuovere programmi di sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. «Tutti coloro, tra cui Giuseppe De Rita, che si occupavano di interventi in campo sociale erano convinti che occorresse aiutare il Meridione ad evolversi per metterlo in grado di attuare autonomamente il proprio processo di sviluppo economico. Ma si trattava di una concezione totalmente confliggente con quella di una pesante industrializzazione del Mezzogiorno che dominava nella squadra di Pasquale Saraceno, il quale nel rapporto presentato nel 1964 proponeva imponenti incentivi da destinare esclusivamente ad impianti di grande dimensione. Il gruppo degli studi sociali ritenne allora che non ci fosse più spazio e, invece di trovarsi un’altra occupazione, fondò il Censis. Per questo dico sempre che l’istituto è nato da un licenziamento», racconta Giuseppe Roma. Nato a Brindisi nel 1949, laureatosi in Urbanistica, nel 1974 nella facoltà di Architettura dell’università «Sapienza» di Roma e specializzatosi in Pianificazione territoriale applicata alle aree metropolitane nella facoltà di Ingegneria, nel 1975 comincia a collaborare con il Censis di cui diviene direttore generale nel 1993. Roma ha anche ricoperto cariche per organismi associativi e istituzionali: segretario generale dell’Associazione per le città italiane Rur, segretario del club delle città intermedie, consigliere dell’Associazione per l’informazione e documentazione europea, membro dell'Istituto nazionale di urbanistica, esperto presso la Presidenza del Consiglio per i programmi di Roma capitale e grandi eventi, coordinatore del Comitato scientifico per il giubileo del 2000.

Domanda. Cosa è rimasto oggi della spinta iniziale che indusse i fondatori del Censis a contrapporre le proprie idee alla tesi che intendeva riprodurre al Sud lo schema industriale del Nord?
Risposta. In anni in cui nessuno si occupava di investimenti sociali, e l’idea stessa di «sociale» rinviava solo all’assistenzialismo, all’attività caritatevole delle Dame di San Vincenzo, il motore fu soprattutto la voglia di creare qualcosa di nuovo. Siamo una delle poche strutture del nostro Paese che non ha cambiato nome da almeno trent’anni, e neanche la sede né filosofia. Ancora oggi la nostra attività è imperniata su quelle due o tre regolette fissate dal gruppo fondatore. Prima fra tutte quella di costituire una vera e propria azienda. Non un gruppo di ricercatori, una cooperativa di professionisti, ma un’azienda con personale a libro paga, perché noi accumuliamo conoscenze e questo non è possibile senza legare le persone anche contrattualmente. Certo, in 40 anni non abbiamo avuto solo dipendenti, ma questi costituiscono il nucleo fondante e le ricerche le facciamo tutte noi, senza delegarle a nessuno.

D. Chi finanzia l’attività?
R. La seconda regola, che rappresenta un autentico «must» del Censis, consiste nell’operare senza sovvenzioni. Noi vogliamo solo clienti, perché le idee per essere vivaci devono essere apprezzate, anche pagandole. Inoltre avere tanti clienti vuol dire anche essere indipendenti. I clienti sono i nostri veri padroni, 70-80 l’anno, pubblici e privati, sempre più esigenti. Il fatto di dipendere dal mercato ci ha permesso di affrontare i momenti più critici, anche perché dal 1973 il Censis è una fondazione e non ha azionisti da remunerare. Nessuno si arricchisce con la ricerca, né chi la fa, né chi la dirige, pertanto occorre avere gente capace di entusiasmarsi, e a cui piace lavorare. È il terzo elemento fondamentale, la motivazione, la curiosità, che mi tiene qui ancora dopo tanti anni. Cerchiamo continuamente il nuovo, le cose che non si sanno, o almeno ci proviamo. Questo è lo spirito con cui abbiamo sempre operato e operiamo, malgrado i tempi siano molto cambiati. L’acquisizione del lavoro è sempre basata sulla nostra affidabilità, dal piccolo parere sull’evento contingente fino alla ricerca più ponderosa. Quello che possiamo mettere in campo è solo il nostro marchio, non ci aiuta nessuno.

D. La frase «L’ha detto il Censis» indica autorevolezza?
R. Che non sempre paga in questo Paese. Ma è la sfida che intendiamo mantenere e con la quale cerchiamo di formare le nuove generazioni. Molti di coloro che ho visto passare qui hanno raggiunto posizioni di rilievo, compreso il Salvatore Vassallo che nelle scorse settimane ha predisposto la proposta di legge elettorale per il Partito Democratico. I giovani che arrivano oggi hanno aspettative diverse da quelli degli anni 70, e il direttore del Censis è un manager di piccola azienda che deve inventarsi ogni giorno qualcosa. Ai nostri giovani ricercatori chiediamo la stessa flessibilità che deve mostrare la struttura, e incontriamo una certa difficoltà a trovarne. Oggi la stabilità deve essere compensata da una grande carica personale e, una volta consolidata la propria situazione, c’è una certa tendenza a diventare un po’ impiegati. Oggi questa flessibilità del mercato separa coloro che hanno tutte le garanzie da chi ne ha meno, ma l’errore sta nel pensare che si possa risolvere il problema con le leggi. L’occupazione è sempre più flessibile perché altrimenti le aziende non potrebbero resistere, non si può gravare l’imprenditore di oneri insostenibili. Il settore pubblico compie assunzioni ma spesso la sicurezza raggiunta toglie un po’ di smalto anche ai giovani più motivati, soprattutto se la loro preparazione è un po’ generica. Per questo noi cerchiamo sempre di mettere insieme questi due aspetti, lavoro e sicurezza.

D. Quanti dipendenti occorrono per svolgere tutte le ricerche in casa?
R. Abbiamo una cinquantina di dipendenti, in gran parte ricercatori. Tutta l’attività di rilevazione dei dati e di indagini, che per noi rappresenta un cospicuo segmento, è naturalmente affidata all’esterno, mentre le collaborazioni rappresentano circa il 30 per cento. Siamo i più autorizzati a servirci dei contratti di lavoro a progetto, visto che non svolgiamo lavori fissi. Penso tra l’altro che il mondo della ricerca, soprattutto in certi settori, debba rappresentare solo un momento di passaggio professionale, e ho trovato incomprensibile la rivolta dei ricercatori pubblici di fronte all’ipotesi di non essere più a tempo indeterminato.

D. Come sviluppare la ricerca?
R. La ricerca esige uno spirito molto giovane, quella voglia di capire che De Rita mantiene ancora oggi, ma non è detto che sia così per tutti e molti tra coloro che sono passati dal Censis dopo un certo numero di anni hanno avuto invece la voglia di gestire, sono divenuti managers. Il mondo della ricerca merita uno stimolo individuale forte che difficilmente un ricercatore pubblico di 60 anni può mantenere; e molti, pur essendo contro il precariato, lamentano il problema del personale divenuto ingestibile perché ognuno fa quello che vuole. Spendiamo pure più soldi per queste persone, ma occorre anche farli produrre.

D. Come si è adeguato l’istituto ai mutamenti degli ultimi 40 anni?
R. Siamo molto legati allo sviluppo del Paese. Il Censis è nato sostanzialmente su scuola, sanità, casa e previdenza, che erano i grandi settori delle politiche sociali degli anni 60. Poi, negli anni 70, abbiamo scoperto le piccole imprese e l’economia sommersa dei distretti industriali, cui ho dedicato l’unico libro che ho scritto. Gli anni 80 sono stati molto legati al territorio, e io, che sono architetto di origine, ho inventato l’espressione del Paese a pelle di leopardo. Fino ad allora l’Italia era rappresentata solo dal triangolo industriale Milano-Torino-Genova e all’estero c’era chi ci considerava ancora solo un Paese agricolo. Fu Bettino Craxi a parlare delle cento città e noi lanciammo l’immagine di questo Paese fatto di città medie, di provincia, con qualità di vita e ricchezza.

D. Ma oggi il problema è la sicurezza?
R. Nel centro di Roma lo scippo era praticato anche allora. Noi andavano in giro per il Paese, cosa che non faceva ancora nessuno, e questa dimensione territoriale è stata una scoperta. Negli anni 90 abbiamo cominciato a riflettere sulla crisi del modello esistente e sulla necessaria apertura al mondo. Abbiamo vissuto, come tutti, la terribile stagione di Tangentopoli, io sono diventato direttore nel 1993, in pieno turbine, e molti, convinti che fossimo un organismo pubblico, si chiedevano se fossimo della prima o della seconda Repubblica. Abbiamo dovuto stringere la cinghia e ricostruire il nostro modo di essere, mantenendo quella sorta di artigianalità di cui parlavo all’inizio, ma anche cercando di strutturarci meglio. Appena divenuto direttore pensai di acquisire contratti dalla World Bank ma, quando mi resi conto che avrei dovuto avere un lobbysta a Washington e che l’incremento di lavoro non sarebbe stato proporzionale all’impegno, rinunciai subito. Sul piano internazionale però abbiamo attivato scambi molto interessanti. Gli ultimi 15 anni sono quelli della sprovincializzazione dell’Italia. Siamo sempre stati realistici, cercando di vedere le cose senza vestirle di ideologie. L’ingegner Gino Martinoli Levi, uno dei fondatori del Censis, ci ricordava sempre di non usare il condizionale, di limitarci a dire le cose come stanno, non come avrebbero dovuto essere.

D. Non ritiene che le imprese italiane siano troppo piccole?
R. Non mi piace quando lo sento dire. L’Italia è così, e non è che le grandi aziende facciano granché. Abbiamo svolto una ricerca intitolata «Innovazione senza ricerca», esaminando le aziende sotto le venti unità lavorative e constatando che molte tra quelle con 10-15 dipendenti attuano innovazione creativa e tecnologica. Certo realizzano solo il 30 per cento del prodotto nazionale, ma non è poco. La logica è vedere quello che c’è e la realtà del Paese comprende tante aziende che sono state capaci di acquisire rilevanza internazionale. Come la Brembo, che era solo un piccolo subfornitore, ma oggi l’auto non è di qualità se non monta i freni Brembo.

D. Che si pensa all’estero dell’Italia?
R. Negli ultimi anni la nostra immagine si è rafforzata, ovunque nel mondo troviamo locali e prodotti italiani che testimoniano una soddisfacente globalizzazione, il nostro stile di vita cui abbiamo dedicato iniziative e filoni di ricerca. Siamo un Paese antropologicamente fatto di gente cui piace socializzare, che ha un grande gusto, e paesaggi e territori nel complesso mantenuti bene. Questa grande capacità va guidata, orientata, mostrata anche se invece molto spesso la politica mostra il peggio. Per migliorare l’Italia occorre che il potere, il Governo, si limitino ad accompagnare i processi sociali, senza sovrapporsi. Questa è la nostra filosofia, anche se qualcuno ci accusa di essere troppo accondiscendenti.

D. Il 41esimo rapporto annuale Censis parla di poltiglia sociale e di inerzia diffusa; è vero?
R. Vediamo tante minoranze che, pur essendo tali, hanno un ruolo molto positivo. Siamo un Paese di anziani, che però hanno ancora progetti di vita ed esprimono tanta solidarietà e aiuto, non solo a figli e nipoti. Le giovani generazioni invece sono molto meno progettuali, fondano tutto sull’economicismo e non vanno via da casa perché le case costano troppo. Ma tutti ce ne siamo andati pagando affitti esosi anche allora, e la quarta settimana cui non si arriva non è una novità. Lucio Battisti cantava «Al 21 del mese i soldi erano già finiti» più di 40 anni fa. Certo soffriamo condizioni di indeterminatezza e un terzo dell’Italia non è libera per la presenza della criminalità organizzata, ma abbiamo la terza banca del mondo, assicurazioni più forti, grandi aziende come Enel e Eni e una grande casa automobilistica, la Fiat, in ripresa.

D. Quale sarà l’Italia del futuro?
R. La proiezione del Fondo Monetario Internazionale indica che, malgrado la Cina e l’India, nel 2050 saremo sempre il decimo Paese del mondo, davanti alla Spagna. Questo implica nuove responsabilità e la consapevolezza che non possiamo continuare a procedere con le discussioni sulle pensioni e con i tam tam che, soprattutto sui giovani, hanno un effetto deleterio e diventano un boomerang. Il problema per il Paese è trovare una direzione di marcia. Non affrontiamo i problemi, li facciamo rimbalzare come fossero una spada sul capo, e la comunicazione spesso aggiunge il proprio carico, e, anziché dare il meglio di noi, ci rinchiudiamo, diventiamo solitari e più cattivi.

D. Che pensa della politica?
R. Con Tony Blair, ritengo che la politica debba dare certezze ed entrare il meno possibile nell’economia e nella produzione, che sono invece responsabilità di tutti. Invece stiamo tornando a quando l’occupazione significava posto pubblico. Il problema dei salari e degli stipendi può essere risolto solo da una concreta e duratura ripresa del giro di ricchezze, non dallo Stato. Per questo abbiamo incentrato il Rapporto sullo sviluppo delle minoranze che stanno dando slancio in economia, nella società, nelle scienze. Occorre far fluire nel resto del Paese i valori e la tensione di questi gruppi minoritari. La realtà sociale vive una disarmante esperienza del peggio ma una ripresa dello sviluppo di massa è possibile agganciando i vagoni inerti alla locomotiva delle offerte innovative di quelle minoranze attive che fanno ricerca e innovazione, che vivono nuove forme di coesione sociale, professionale, religiosa. Una sfida faticosa ma realistica, per crescere e inserirsi nel solco di modernità degli altri Paesi.

D. Saranno possibili integrazione e coesione sociale con gli immigrati?
R. Non mi sembra che ci siano grandi conflittualità e l’italiano in generale si pone in maniera solidale, come ha dimostrato la disponibilità a donare il 5 per mille per il volontariato. Dobbiamo contare su queste risorse lavorative, agganciarle. Se 30 mila rom si accampano sulle rive del Tevere, si pone un problema, ma è anche vero che, ad eccezione delle leggi per stabilire chi entra e chi no, abbiamo fatto molto poco e ci siamo fatti prendere di sorpresa dal segmento dei delinquenti. La gran parte degli immigrati lavora, ne sono arrivati tre milioni e i più fortunati, un 20 per cento, hanno la casa di proprietà, altrettanti hanno richiesto un mutuo, 250 mila sono piccoli imprenditori. Hanno capito come è fatta l’Italia: casa di proprietà e piccola impresa. Certo oggi è tutto più complicato e siamo anche vittime di qualcosa che non gestiamo noi. Come dice Zygmund Baumann, il più grande sociologo vivente, i problemi sono globali ma i fastidi sono locali, e non basta impedire l’ingresso in un Paese che ha 5 mila chilometri di coste; occorrono soluzioni più intelligenti.

D. Quali i risultati della ricerca sul disagio adolescenziale del Lazio?
R. La situazione del Lazio rappresenta una media fra il disagio sommerso del Nord, che appare meno, e una realtà del Mezzogiorno in cui il degrado sociale e anche fisico delle periferie, con la presenza della criminalità organizzata, rende il disagio ancora più forte. L’osservatorio sulla sicurezza in Campania ha registrato che in certe aree i criminali mandano i giovanissimi a compiere i reati, anche assassinii, perché non sono punibili, e nel Nord vediamo villette in cui accadono cose impensate. Il primo dato che emerge dalla ricerca, che ha interessato ragazzi di 14-17 anni, è che le responsabilità non possono essere che della famiglia e della scuola; personalmente le imputo soprattutto alla famiglia.

D. C’è differenza tra ricchi e poveri?
R. Abbiamo registrato una situazione di forte disagio nel 20 per cento degli adolescenti, concentrati prevalentemente nel segmento alto della società, quello una volta degli arricchiti e oggi formato dai laureati. Non c’è molta differenza tra ricco e povero ed emerge una sorta di rivincita del ceto medio, fatto di famiglie normali che non divorziano tutti i minuti. Il problema si pone nel momento in cui l’adolescente viene lasciato solo ad affrontare problemi più grandi di lui. Cominciamo dai regali, per i quali gli italiani spendono il 20 per cento di più rispetto a tutta l’Europa. Poi ci sono la tv, la musica, lo sport. Sia dove esistono problemi di sopravvivenza che dove c’è benessere, è come se gli adolescenti non fossero integrati, fossero chiusi nelle loro stanzette. Il disagio non viene dall’ammucchiata di bambini dei film del neorealismo; gli adolescenti disagiati hanno la loro stanza individuale in numero assai maggiore degli altri. Se non c’è un minimo di relazione familiare questi ragazzi non parlano e si torna così ai ragazzi di strada perché la loro vita si svolge fuori. Allora occorre fare attenzione a quell’80 per cento che non è disagiato, perché sta vicino all’altro 20 per cento.

D. Allora che cosa bisogna fare?
R. Come padre di due figli di 20 e 18 anni, so che si sta sul chi vive, anche a non voler essere apprensivi. La scuola non ha capito che occorre dare gli strumenti per crescere, perché quelli per conoscere ormai li trovano ovunque. Invece le si chiede di tutto, compresa l’educazione alla legalità e alla sicurezza stradale. Una cosa invece la scuola deve dare: chi vi entra bambino deve uscirne persona consapevole, cittadino. Invece si ha spesso l’impressione che gli insegnanti siano inerti. Credo che si compia un vero miracolo ogni mattina, quando migliaia di scuole aprono i battenti e centinaia di migliaia di docenti insegnano. Ma se vogliamo dare qualche ambizione in più e qualche difficoltà in meno a questi ragazzi, il meccanismo va ripensato.

D. Che indicano le vostre ricerche in tema di pianificazione territoriale?
R. Abbiamo un deficit enorme, sia culturale che pratico, di spazio pubblico, pur essendo tra i Paesi più fortunati del mondo. La storia ci ha lasciato un patrimonio immenso che però a volte mortifichiamo, spazi che non possono sopportare più di tanto la presenza delle auto. Dovremmo ricostruire questo rapporto con la città fatta di spazi pubblici ben attrezzati in cui la gente possa ritrovarsi in maniera godibile; invece, non avendo risolto il problema della mobilità, mortifichiamo ogni cosa. Nei centri storici si fa qualche cosa ma poco o nulla accade nelle periferie, che avremmo potuto realizzare in maniera più intelligente, non dico negli anni 50 o 60, ma oggi. Già nei primi anni 80 dicevamo che non si dovevano costruire quartieri per più di 3 mila abitanti senza portarvi la metropolitana. Occorrono grandi investimenti e vi sono anche difficoltà oggettive come l’archeologia, ma soprattutto manca una cultura della città e si sottovaluta questo aspetto, che è invece l’unico per cui tutti vengono in Italia. Le nostre città storiche hanno l’architettura, lo spazio, la godibilità, ma non possiamo pensare che tutto si scarichi sul passato.

D. L’opinione pubblica è matura?
R. Sembra un passo avanti, ma c’è ancora resistenza sull’alta velocità ferroviaria o sui parcheggi e molto meno nei confronti dell’opera di architettura. Nelle borgate le case non sono intonacate ma dentro sono curatissime. Il limite è dato dal perdurare di un certo individualismo e della logica speculativa. Con 100 o con 200 euro in più al metro quadrato si potrebbero togliere le automobili dalla strada, come in Svizzera dove non c’è chalet che non sia obbligato ad avere un garage. Questo Paese, che sfrutta tanto l’architettura e l’arte, dovrebbe avere un po’ più di sensibilità nei confronti dell’architettura e dell’arte.

a cura di SERENA PURARELLI  

Tags: Censis Febbraio 2008

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa