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PINA AMARELLI: LA SIGNORA DELLA LIQUIRIZIA

Pina Amarelli liquirizia

Chi ha detto che la rivoluzione industriale è partita dall’Inghilterra? Un’azienda calabrese produce liquirizie sin dal 1731: è l’Amarelli di Rossano, quella delle scatolette di metallo da collezionare, una famiglia che discende da templari e crociati dell’anno 1000 e che ha trovato la propria ragione di vita secolare in una pianta, la Glycyrrhiza Glabra, dal greco «radice dolce» - secondo l’Enciclopedia britannica la migliore del mondo - il cui intrigante equilibrio tra il dolce e l’amaro affascinò Napoleone che l’usava per curarsi lo stomaco; Jean Jacques Rousseau che la consigliava nel suo «Emilio» come modo di educare i bambini a una cosa naturale e a non viziarli con cibi raffinati; il Casanova che ne faceva buon uso come afrodisiaco. Nel centro storico della vecchia Rossano vi è lo stesso Palazzo Amarelli che è raffigurato sulla copertina dell’elenco telefonico 1992 della provincia di Cosenza. Al «Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli», inaugurato il 21 luglio 2001, le Poste italiane hanno dedicato un francobollo appartenente alla serie tematica «Il patrimonio artistico e culturale italiano».

Lady Liquirizia è Pina, nata Mengano ma Amarelli: di nome, da quando ha sposato Franco, che la definisce «acqua cheta che dilaga»; di fatto, da quando ha saputo divenire indispensabile nel mondo della liquirizia familiare e grande esempio per le donne: è lei la prima in Calabria ad aver ricevuto una telefonata da Luca Cordero di Montezemolo che le comunicava la sua nomina a Cavaliere del Lavoro decisa dal presidente della Repubblica. Ha presieduto «Les hénokiens», l’associazione internazionale che riunisce le aziende familiari bicentenarie - trentotto in tutto - distribuite nel mondo, non un blasone da appendere sul portone dell’azienda ma un movimento culturale che s’impegna a mantenere vivo un patrimonio, perché le generazioni più giovani s’incontrino e scambino esperienze fondamentali per mantenere in vita le aziende.

Domanda. È davvero la liquirizia migliore del mondo?

Risposta. La differenza tra la liquirizia calabrese e le altre, che nascono specialmente in Oriente, è la stessa che passa tra un vino qualsiasi e lo champagne. La sua radice era conosciuta e usata grezza già nell’antichità dai greci, dai romani, quindi dalla medicina cinese, ma era un prodotto fresco e, in quanto tale, dai tempi di conservazione e dalle possibilità di trasporto limitati, per questo destinata solo al consumo locale. La ricetta della commercializzazione fu trovata comunque se Napoleone, Casanova e Rousseau, che non abitavano proprio dietro l’angolo, già consumavano liquirizia in grandi dosi. Ciò fu facilitato dal fatto che i latifondisti calabresi, ricche famiglie che avevano buoni rapporti con il regno dei Borboni e parentele anche all’estero, tendevano a venderne le grandi radici che crescevano spontanee nelle proprie terre per bonificarle e trarne guadagno immediato, creando anche relazioni commerciali con altri Stati.

D. Qual era all’epoca la situazione economica e sociale della Calabria?

R. La Calabria, che viene considerata una regione di serie B, era già industrializzata nella seconda metà del Settecento: vi erano molte fabbriche non solo di liquirizia, circa ottanta, ma anche di altri prodotti quali zucchero di canna o canna mela, seta e armi, come documentato da reperti di archeologia industriale. Oggi non v’è più nulla di tutto questo, ma il passato calabrese, se visto in maniera intelligente, può costituire ancora una molla per le generazioni attuali.

D. Per quale motivo non vi è più nulla di tutto questo?

R. Perché con l’unità di Italia e con l’abolizione dei benefici fiscali la situazione calabrese precipitò e la produzione della liquirizia entrò in crisi. Tra la prima e la seconda guerra mondiale tutte le aziende chiusero, tranne la nostra: con lucida follia la famiglia Amarelli non si arrese nemmeno alle nazionalizzazioni e resistette con rilevanti investimenti privati in un mondo che era diventato molto competitivo. Negli anni Sessanta, in pieno boom industriale, si dovette procedere alla riorganizzazione dell’azienda anche dal punto di vista produttivo, e nei primi anni Settanta arrivarono i quadri computerizzati, l’acciaio, le regolamentazioni secondo tecniche moderne: da allora non si fa più bollire la liquirizia, ma si estrae attraverso dei passaggi forzati di acqua calda seguendo il principio del caffè.

D. Quali procedimenti vengono usati oggi, in particolare, per produrre la liquirizia?

R. La lavorazione avviene in due fasi principali, per noi rimaste artigianali, che configurano il nostro come un prodotto unico. La prima è quella della concentrazione finale, che avviene ancora a cielo aperto per non modificare il colore e per non dover aggiungere coloranti e che, per questo, richiede una grande perizia da parte del mastro liquirizaio; la seconda è l’asciugatura, che noi facciamo senza agenti chimici ma solo con getti di vapore che richiedono molto più tempo e apposite stufe. Questo procedimento ci consente di ottenere quella stessa qualità che negli anni Ottanta ci è valsa la medaglia d’oro conferitaci dall’associazione dei chimici italiani per aver saputo collegare artigianalità e tecnologia avanzata.

D. Come siete riusciti a sopravvivere quando tante altre aziende sono scomparse dal mercato?

R. In un momento in cui lo Stato erogava contributi perché si chiudessero le aziende e non perché sopravvivessero, bisognava inventare qualcosa di nuovo anche nella commercializzazione. Creammo la confezione piccola per varie ragioni: la prima consistente nella valorizzazione di un prodotto di qualità che in tal modo avrebbe potuto essere venduto, anche in quantità minori, con ciò garantendo un maggior introito; la seconda derivante dalla necessità igienica: offrire il prodotto in una scatola di metallo sigillata significava attribuire importanza all’ambiente in tempi non sospetti, ed evitare i passaggi di mano delle liquirizie, precedentemente collocate in grandi dosi sui banconi delle pasticcerie e delle drogherie. Tale scelta, infine, costituì il nostro passe-partout per andare all’estero con un prodotto artigianale che, pur essendo fabbricato in quantità industriale, derivava da radici selezionate di un’unica, sicura, familiare provenienza, non aveva altri composti - nient’altro che liquirizia - ed era commercializzato con l’immagine della Calabria e della stessa pianta di liquirizia.

D. Quale fu il risultato di queste innovazioni?

R. Proprio quella scatoletta, che riproduce antiche immagini tratte dagli archivi della casa, costituì per noi un argomento vincente nel momento in cui, avendo deciso di non compiere campagne pubblicitarie, di mantenere il prodotto nella fascia del lusso con un prezzo che era garanzia di qualità ma che non permetteva di invadere i bar di tutti i giorni, e di entrare nel mondo della caramella mescolando la liquirizia con altri componenti, ci siamo trovati dinanzi al boom delle erboristerie e dell’alimentazione naturale. Abbiamo così diviso il nostro target in più settori e, oltre a quello dolciario, siamo penetrati anche negli altri mercati, compreso il settore farmaceutico per il quale produciamo due scatole esclusive. Continuiamo a migliorare la produzione con nuovi accorgimenti per l’estrazione del succo dalla radice; siamo sempre molto attenti alle certificazioni e, in quanto a igiene e a codificazione, puntiamo sulla qualità a 360 gradi, dalla materia prima al processo di lavorazione.

D. A quanto ammontano le vostre esportazioni?

R. Circa il 25 per cento del nostro prodotto viene esportato in tutta Europa, con successo soprattutto in Francia, Spagna, Germania, Olanda e Inghilterra, e stiamo consolidando il mercato dei Paesi scandinavi. Le relazioni con gli Stati Uniti e il Canada si sono indebolite a causa dell’euro, che ha fatto aumentare i prezzi del prodotto in quei Paesi. Abbiamo incrementato il commercio con i Caraibi, con le Antille francesi e con altre località di lusso, ma anche in Sudamerica con il Brasile, l’Argentina, il Venezuela dove si registrano alti e bassi dovuti alle sue vicende economiche, mentre lavoriamo molto bene con la Nuova Zelanda e l’Australia. Non vi sono scambi, invece, con i mercati orientali, dove esiste una liquirizia di opposta qualità, in quanto molto amara per la natura del terreno, e che per questo viene considerata un medicinale e venduta comunque a prezzi molto inferiori ai nostri.

D. Cosa vuol dire «innovare» per un’azienda che si fonda su un monoprodotto?

R. Significa mantenere il semplice bastoncino di legno grezzo ma introdurre novità con l’allargamento della gamma di prodotti che restano, però, sempre a base di liquirizia: accanto a quella pura, abbiamo ideato liquirizia con aggiunta di gomma arabica, liquirizia ricoperta di zucchero, sassolini dello Jonio di colori diversi, cioccolato aromatizzato alla liquirizia, pasta, biscotti e panettone alla liquirizia, acqua di Colonia e shampoo alla liquirizia con Santa Maria Novella a Firenze, grappa alla liquirizia con i Guicciardini Strozzi in Toscana, liquore alla liquirizia, sambuca alla liquirizia e il nuovo sale alla liquirizia. In generale produciamo confetture alla liquirizia. Quando si opera con un monoprodotto, occorre inventare una novità al giorno.

D. Come è arrivata alla liquirizia una pugliese che viveva a Napoli come era lei?

R. Fuorché mangiare quando uscivo da scuola la pasticchetta Saila come tutti i bimbi degli anni Cinquanta, non sapevo nulla del mondo della liquirizia. All’università, mentre frequentavo Giurisprudenza, ho conosciuto il mio attuale marito; nel 1966 ci siamo fidanzati e tre anni dopo sposati. Prima di allora non mi aveva mai portato in Calabria. Dopo il nostro viaggio di nozze in Europa andammo nella sua casa d’origine: le stanze erano chiuse, nell’edificio faceva freddo e l’esperienza fu dura. Ma nella casa c’erano tanti libri, soffitte piene di carte e, trascorrendo periodi invernali in una zona di mare in cui non c’era altro da fare, cominciai a leggerle scoprendo tra esse non solo la storia della famiglia che conoscevo già, ma anche quella dell’azienda, che mi appassionò: cominciai a catalogarle insieme al fratello di mio marito che, con il padre, seguiva l’azienda, e che non aspettava altro che farne un museo.

D. Come le è nata l’idea di costituire un museo?

R. Nelle mie ricerche nei solai e negli archivi di casa mi trovai così immersa nell’azienda e così pronta ad attuare l’idea di mio cognato, che anche io sentii il forte bisogno di far conoscere in maniera diretta e organica questa grande storia calabrese di famiglia, di azienda e, soprattutto, di economia del territorio, affinché fosse di esempio per le nuove generazioni. Proprio mio cognato mi chiese di aiutarlo in questo compito, perché egli non aveva tempo; purtroppo nel 1986 venne a mancare e fummo costretti a rinviare l’apertura del museo: doveva nascere nel 1990, l’abbiamo inaugurato solo nel 2001. È un piccolo museo inserito in un palazzo antico, che ci dà molta soddisfazione con i suoi 35 mila visitatori all’anno che si recano, solo per esso, a Rossano dove non c’è nulla per i turisti. È aperto al pubblico gratuitamente e ha un punto vendita a fianco con un fatturato che ha avuto picchi annuali di quasi un milione di euro, quasi il 25 per cento del fatturato complessivo dell’intera azienda.

D. Che cosa è avvenuto in famiglia e nell’azienda in questi ultimi anni?

R. Alla scomparsa di mio cognato nell’azienda non erano rimasti giovani: il padre, che la conduceva da anni, era ultraottantenne e mia zia affiancava il lavoro del cognato. Era anche lei una signora anziana e, per forza di cose, mi sono ritrovata ad aiutarla. Ma non lasciai Napoli: volevo che i miei figli studiassero là.

D. Chi è ora alla guida dell’azienda?

R. Amministratore è nostro nipote Fortunato, un nome di famiglia che è già un auspicio. Con lui abbiamo risolto i problemi di successione. Negli anni Trenta il padre di mio suocero morì e lasciò la proprietà agricola - la più importante - a una sorella non sposata che, quando morì, la destinò non ai nipoti - mio suocero e i suoi due fratelli, ma ai loro figli nascituri maschi, giocandosi il futuro dell’azienda. Negli anni 90, alla morte di mio suocero abbiamo dovuto interpellare il Ministero delle Finanze: settant’anni senza successioni erano tanti. Tra gli eredi vi erano mio marito e il papà di Fortunato, per cui cominciammo subito a pensare alla nuova amministrazione: non abbiamo forzato nessuno dei figli, ma li abbiamo educati alla tradizione, all’amore verso la famiglia e l’azienda. Mio figlio, che non lavora per noi, si reca in Calabria anche solo per fare una partita di pallone con i nostri operai. Abbiamo già individuato la prossima generazione e, per il momento, vi sono cinque persone di famiglia su 35 dipendenti che lavorano a tempo pieno. Teniamo molto in conto la gestione del personale, che è qualificato. Siamo abituati ad avere rapporti corretti con tutti; abbiamo generazioni di collaboratori, i figli dei figli dei figli e i loro parenti.

Tags: made in italy food Febbraio 2007 Calabria

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