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WOLFRAM THOMAS: ARTROSI, UN COSTO UMANO, SOCIALE ED ECONOMICO

Nato a Zwickau in Sassonia, una grande città industriale della Germania un tempo ricca di miniere che per motivi di tutela ambientale sono state dismesse, e trasferitosi nel 1959 nella parte ovest del Paese dove ha conseguito la laurea in medicina specializzandosi in ortopedia, il prof. Wolfram Thomas ha proseguito la carriera universitaria nell’Università di Lubecca, quindi fu chiamato a dirigere il maggiore ospedale di Amburgo, dotato di 150 posti letto. A Roma dal 1990, dirige l’Arthro Surgery Group della clinica Quisisana. Partecipa a numerosi gruppi di scienziati impegnati nello studio della materia, ha ottenuto riconoscimenti internazionali, è autore di oltre 100 pubblicazioni e di oltre 200 presentazioni scientifiche. Per Specchio Economico racconta momenti interessanti della propria carriera e fa il punto su una patologia, l’artrosi dell’anca o coxartrosi, che colpisce la cartilagine articolare e che si va diffondendo sempre più nel mondo e costituisce ormai un problema sociale ed economico di crescenti dimensioni per le conseguenze sulla qualità della vita dei singoli colpiti, per i costi finanziari per le aziende dovuti alle assenze dal lavoro, per le spese a carico del servizio sanitario nazionale, per i tempi necessari alla riabilitazione e al reinserimento dei lavoratori nel processo produttivo.

Domanda. Perché aumenta questa patologia?
Risposta. Per vari motivi. Il primo è proprio l’aumento della durata della vita. La popolazione oggi vive molto più a lungo, l’uomo quasi 80 anni e la donna in media anche di più; giunge il momento in cui il materiale naturale, la cartilagine, si consuma. Questa porta all’artrosi degenerativa. La seconda causa è l’attività: le persone vivono in modo più attivo, sono vittime spesso di incidenti o di traumi nelle articolazioni dovuti a sforzi eccessivi, rotture di legamenti, processi acuti o cronici, patologie che possono dar luogo all’artrosi. La terza causa, molto interessante dal punto di vista scientifico, è l’inquinamento dell’ambiente che distrugge le cellule della cartilagine; ne sono stati prelevati brandelli da pazienti operati e, esaminati in laboratorio, hanno rivelato la considerevole presenza di elementi tossici, ad esempio il piombo e il cadmio, che tendono ad uccidere la singola cellula e questo processo è alla base dell’artrosi; una scoperta molto interessante, poco conosciuta fuori del campo scientifico. Ma non sono le sole cause dell’aumento dei casi; esistono anche motivi biologici.

D. In che consistono e quale rilevanza economico-sociale va assumendo questa patologia?
R. Sappiamo che anche altre disfunzioni del metabolismo possono distruggere le cellule, come il diabete; e comunque problemi legati all’alimentazione; ci si alimenta eccessivamente e male, e anche questo danneggia le cellule. Quanto alla rilevanza economica e sociale del fenomeno, nella sua fase di sviluppo questa malattia incide molto dal punto di vista sociale ed economico perché le persone affette si assentano dal lavoro, e questo riduce la produttività dei singoli lavoratori e delle aziende nel complesso. Si tratta di pazienti che hanno bisogno di riposo e di cure, che devono sottoporsi a terapie costose, assumere farmaci, praticare fisioterapie e cure termali che hanno un costo. Ma è soprattutto l’assenza dal lavoro che comporta costi elevati per l’economia nel complesso. A tutto ciò va aggiunto il costo dell’intervento chirurgico per curare queste malattie. È proprio la durata della malattia ad incidere maggiormente dal punto di vista sia economico sia sociale perché, nonostante le cure, l’artrosi è destinata sempre a peggiorare. Negli Stati Uniti si è dimostrato quanto sia meno pericoloso e meno costoso farsi operare prima, ma in Europa è ancora diffusa la convinzione di dover aspettare il più possibile. Dal punto di vista scientifico non è un principio sostenibile, perché è meglio migliorare subito la qualità della vita per il paziente e restituirgli la piena funzionalità, con un risparmio per di più dal punto di vista sociale ed economico, e soprattutto perché le protesi moderne durano di più.

D. Quali sofferenze e disagi si eliminano con l’intervento chirurgico?
R. Per decidere un intervento oggi non si considera più l’età del paziente o la gravità della patologia, ma la qualità della vita, perché chi soffre di artrosi per esempio della gamba, del ginocchio, del piede e soprattutto dell’anca, non esce più di casa, non svolge più tutte le attività che svolgeva prima, non partecipa alla vita, è assalito dalla depressione, si intristisce. E tutto ciò costituisce un circolo vizioso di notevole gravità. La principale caratteristica da considerare è il peggioramento. Lo spiego sempre ai pazienti anche se il giorno della prima visita stanno ancora abbastanza bene; ma il giorno dopo già un po’ meno e così via. E c’è un altro aspetto: se si interviene subito, si evita di farlo quando, con il procedere dell’età, possono essere insorti altri mali come cardiopatie, patologie dell’apparato respiratorio ecc. Comunque, se all’inizio la sintomatologia è blanda, cerchiamo di rimediare somministrando prodotti antalgici, antinfiammatori e protettivi, aumentando la nutrizione della cartilagine, praticando cure fisioterapiche, ma solo in fase iniziale, quando il paziente non soffre molto. Ma poi giungerà la fase in cui bisognerà intervenire. Io già dal primo incontro preparo il paziente ad affrontare la realtà, affinché possa prepararsi psicologicamente al peggioramento.

D. Quanto tempo richiede l’intervento?
R. Le tecniche sono molto migliorate con la cosiddetta mininvasività. Prima si operava in modo molto invasivo con tagli lunghi, esposizione del tessuto all’ambiente della sala operatoria, rischio di infezioni; l’intervento era di lunga durata, occorrevano trasfusioni di sangue. Questi problemi sono superati, la tecnica è molto migliorata, tempi e rischi si sono ridotti, in quasi tutti i casi è eliminata la necessità di trasfusioni, abbiamo un dispositivo che filtra il sangue perduto dal paziente e glielo restituisce, evitando quasi al 100 per cento il ricorso alla banca. È un grande vantaggio perché il paziente teme sempre un’infinitesima percentuale di infezione e di trasmissione di malattie. Anche l’anestesia è migliorata, è diretta a ridurre la sofferenza del paziente durante e dopo l’intervento; viene limitata agli arti inferiori, con un mini dosaggio di farmaci non tossici. Dopo l’intervento si somministrano farmaci che garantiscono un immediato benessere e la possibilità di cominciare subito la riabilitazione.

D. Quale tipo di protesi Lei usa?
R. Il settore ha registrato un grande sviluppo; la caratteristica dell’impianto è molto importante, ora abbiamo a disposizione diversi tipi di protesi. Parlando di quelle per l’anca, le scegliamo secondo la gravità della malattia. Ve ne sono alcune mininvasive usate per sostituire la superficie dell’articolazione senza asportare gli elementi consumati, da usare in casi molto particolari, secondo la gravità. Abbiamo impianti di dimensioni minime per resezioni minime di tessuto degenerato, quindi i classici impianti usati per casi molto gravi, quando si deve asportare una rilevante porzione di osso. Sono tutti impianti di grande successo grazie ai quali il chirurgo ha maggiori possibilità di intervento. Un tempo c’era una sola protesi, di forma molto semplice e fissata con cemento; oggi sono usati quasi sempre impianti non cementati.

D. Che significa cementati?
R. Che l’impianto, di forma molto semplice, viene inserito nel canale del femore, ove viene colato un prodotto che, all’inizio fluido, successivamente si indurisce come avviene per il cemento usato in edilizia. Questo prodotto artificiale ha una durata limitata per cui con il tempo e con l’assunzione di liquidi si disintegra ed ecco perché a volte è necessario un intervento di revisione, in alcuni casi anche abbastanza difficile perché questo procedimento di mobilizzazione deteriora la struttura ossea. Per questo motivo quasi tutti oggi impiegano impianti non cementati, caratterizzati da una superficie porosa chiamata «di filtrazione», di titanio; crescendo, l’osso si inserisce in questa struttura e dopo tre mesi l’impianto è definitivamente stabile.

D. Il ricorso alle cellule staminali e dei fattori di crescita è praticato in questo campo?
R. È una strada concreta ma poco diffusa nel mondo scientifico; è stato dimostrato che queste tecniche accelerano la soluzione, ma la legislazione è molto lenta e complicata in questo campo, anche se per l’arricchimento di cellule staminali e dei fattori di crescita viene usato il sangue o il midollo del paziente stesso. Nel merito sono molto ottimista; scientificamente si sono dimostrati vantaggi come l’accelerazione della fissazione biologica dell’impianto accorciando i tempi di riabilitazione. Per praticare questa tecnica occorre solo una procedura supplementare della durata di 5-10 minuti, ma la comunità degli scienziati non è ancora pronta a un’applicazione di routine. I pazienti invece chiedono innovazioni perché ne sono informati tramite internet e la stampa.

D. Può quantificarsi la perdita economica dovuta a questa patologia?
R. Se si pensa che in Italia vengono impiantate più o meno 80 mila protesi dell’anca ogni anno, se per ogni paziente si riduce la fase riabilitativa e si anticipa anche di una sola settimana la ripresa produttiva, ci si rende conto che i vantaggi in termini sociali ed economici sono impressionanti. Se il giorno dopo l’intervento può già camminare e dopo 10 giorni può farlo quasi senza sostegni esterni rispetto a quanti sono costretti per lungo tempo a restare a letto senza muoversi, si comprende come sia lo stesso paziente a cercare questa accelerazione. Grazie ai progressi della tecnica chirurgica e degli impianti si è ridotta la permanenza in ospedale; i nostri pazienti operati all’anca e alle ginocchia vi restano non più di tre o quattro giorni, e quando vengono dimessi spesso sono già autosufficienti.

D. Quanto tempo dura un impianto?
R. Le protesi moderne sono modulari, cioè formate da due elementi. Uno è la protesi vera e propria che, fissata biologicamente e non cementata, durerà una vita se si controllerà regolarmente la qualità del secondo elemento. Quest’ultimo è costituito dai componenti che consentono l’articolazione: una testina che sostituisce la testa del femore e che si inserisce in una capsula semisferica, pure di metallo, fissata senza cemento, ricoperta da uno strato di polietilene che prende il posto e la funzione della cartilagine. Questi elementi certamente sono destinati a consumarsi in relazione all’attività del paziente, del suo peso, dell’età ecc. Una persona anziana si muove di meno e consuma più lentamente questi materiali che si deteriorano, ma essi sono talmente migliorati da durare mediamente 20 anni anche in pazienti attivi. In collaborazione con gli scienziati di ortopedia l’industria cerca sempre di migliorarli. Oggi esistono anche articolazioni in metallo, formate da testine e inserti dei quali la metallurgia è giunta a migliorare ulteriormente la qualità riducendo la formazione di frammenti microscopici che potrebbero creare problemi. Altre sono formate da combinazioni di elementi in ceramica, a causa della durata prolungata di questo materiale. Ognuna di queste combinazioni presenta vantaggi e svantaggi; la ceramica non è completamente stabile, si può fratturare in caso di incidenti; personalmente preferisco testine con la base in metallo, sulla quale con un processo di galvanizzazione è stata applicata ceramica; questo comporta stabilità senza rischi di frattura.

D. Quando si interviene di nuovo?
R. Qualora sia necessario sostituire materiali consumati dopo tanti anni, si praticano interventi relativamente semplici; si riapre la ferita, si asportano gli elementi modulari dall’impianto stabile, si inseriscono una nuova testina nel femore e un nuovo inserto nell’acetabolo, e l’impianto riparte da zero. Per decidere questa eventualità sono necessari controlli regolari dopo 7-8 anni per accertare il consumo e l’eventuale presenza di frammenti microscopici. Questi sono eliminati dalle cellule macrofaghe, che però attaccano anche l’osso; in questi casi si deve intervenire subito. Questo processo, chiamato osteolisi, non è sempre combinato con il dolore per cui il paziente può non accorgersene e dover sostituire la protesi intera.

D. Cosa si prevede per il futuro?
R. Il paziente dovrà curarsi bene e limitare il peso corporeo, si inventeranno nuove soluzioni, la chirurgia sarà meno invasiva con meno tagli e perdite di sangue, riduzione della fase di ospedalizzazione, immediato ritorno all’attività, accelerato inglobamento dell’impianto, maggiore durata dei nuovi materiali. La ceramica e il polietilene sono impieghi recenti, hanno superato 20-25 anni di uso e ancora non sono cambiati.

D. Il computer e la chirurgia robotica aiutano in questi interventi?
R. Il computer può aiutare nella fase preparatoria, per capire la gravità della distruzione in atto ma la riuscita dipende dall’abilità del chirurgo; quanto alla chirurgia robotica sperimentata negli Stati Uniti, è fallita perché i robot sono difficilmente controllabili e compiono errori di invasività; questo tipo di chirurgia dell’anca è fallita, in Germania non si fa più, in Italia è stata avviata una timida sperimentazione ma io sarei molto cauto.

D. Ma i giovani non sono bravissimi nell’uso del computer?
R. Occorre prima di tutto il cervello umano, per cui anche chi usa il computer deve avere una grande esperienza in chirurgia. Perché se si compie un errore nella sua programmazione, il robot non si ferma, continua a tagliare, è incontrollabile. Gli strumenti elettronici sono utili per misurare con sicurezza la posizione della protesi nel ginocchio, forniscono risultati positivi, aiutano il chirurgo che non ha grande esperienza con gli strumenti tradizionali, lo fanno lavorare molto più tranquillamente; ma i costi aumentano molto e i tempi degli interventi chirurgici si allungano, per cui i problemi economici che oggi assillano la sanità non li consentono.

D. Perché ha scelto ortopedia?
R. Provengo da una famiglia di medici e quindi un fattore genetico mi ha portato a questa professione. Al momento di decidere la specializzazione, due fattori mi spinsero verso l’ortopedia: il contatto umano con il mio professore con il quale avevo svolto la tesi e mi ero laureato e il fatto che, per decidere una specializzazione in medicina dove coesistono campi diagnostici e chirurgici, ci si deve chiedere quali attitudini si possiedono. Mi ricordai che dall’infanzia avevo sempre praticato il bricolage, montato piccoli oggetti, creato trenini ecc. Pensai che quella manualità avrebbe potuto giovarmi nella chirurgia. Quando sono diventato direttore della scuola di specializzazione, ho osservato sempre con grande attenzione la manualità degli allievi per evitare loro fallimenti professionali e problemi per loro e per i pazienti. Inoltre mi affascina l’attività dell’ortopedico che lavora anche nel mondo scientifico per studiare miglioramenti; l’ortopedia ha compiuto grandi progressi, cinquant’anni fa in sala operatoria si realizzavano solo gessi, oggi la sala gessi esiste quasi soltanto per legge; la chirurgia è giunta ad altissimi livelli, la scienza mette a punto sempre nuovi materiali e tecniche.

Tags: Roma Febbraio 2008 medici

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