GIANLUCA D’ELIA: CHIRURGIA ROBOTICA GOLD STANDARD
È uno dei giovani medici italiani eccellenti che hanno avuto il coraggio di andare a lavorare all’estero e poi di rientrare con il proprio bagaglio di professionalità acquisite. Di sangue calabrese, Gianluca D’Elia è nato e vissuto a Roma, ove ha studiato fino alla laurea in Medicina e Chirurgia. Entrato subito nel corso di specializzazione in chirurgia generale ed in urologia, ha preferito tuttavia partire per la Germania per raggiungere la Urologischen Klinik di Mainz vicino a Francoforte, uno dei centri più rinomati in campo internazionale, dove si è specializzato e ha svolto la propria attività professionale per 8 anni: «Pensavo a un’esperienza di un paio di anni ma ne ho trascorsi ben 8 con un grande maestro, il professor Rudolf Hohenfellner».
Nel 2002, per una scelta professionale precisa ma difficile, decide di rientrare in Italia anche se al policlinico universitario di Mainz l’organizzazione del lavoro era ineccepibile e da due anni era già divenuto capo di un reparto urologico di 20 posti letto: «Desideravo una carriera nel mio Paese, attratto dalle scelte governative di stimolare il rientro in Italia degli studiosi formatisi all’estero. In Italia ho ricominciato da zero, perché nel nostro Paese l’aggettivo “giovane”, in genere, è sinonimo di inesperienza. Per quanto mi riguarda dopo 8 anni di lavoro professionale con le tecniche chirurgiche più avanzate nel centro più rinomato d’Europa, quale era la clinica urologica di Mainz negli ultimi 30 anni del secolo scorso, avrei avuto poco da ulteriormente approfondire». Oggi il prof Gianluca D’Elia, 41 anni, già docente ad Heidelberg in Germania, è primario urologo nell’ospedale romano San Giovanni-Addolorata dopo essere stato primario ad Ancona.
Domanda. Cosa prova, chi ha già compiuto trapianti renali, nel sentirsi dire di ricominciare dalla gavetta?
Risposta. Essendo stata una mia scelta, ho accettato di buon grado di ricominciare, per mettere al servizio del mio Paese le capacità acquisite. Ho dovuto confrontarmi con una realtà che forse avevo dimenticato, relativa soprattutto alla differenza in ambito lavorativo. Ma le notevoli difficoltà incontrate appena rientrato in Italia nella neonata struttura di urologia del piccolo ospedale di Magliano Sabina sono state uno stimolo ulteriore. Un’esperienza del tutto nuova per me che arrivavo da un centro super attrezzato, organizzato con precisione tedesca; ma ho avuto la soddisfazione di formare il personale, compreso quello infermieristico, e di far diventare il repartino un punto di riferimento per le patologie urologiche nelle province di Rieti e di Terni. Ho imparato molto grazie alla necessità di entrare in sintonia con un sistema che, pur con le sue difficoltà organizzative e finanziarie, rimane assai più valido di quanto si pensi. Il nostro servizio sanitario nazionale, improntato come quello britannico a uno spirito solidaristico che assicura tutto a tutti, registra appesantimenti organizzativi per questo, ma la qualità dei servizi offerti è tra le più efficaci nel mondo. Nel campo di mia competenza, la chirurgia urologica robotica, l’Italia ha fatto passi da gigante.
D. Cos’è la chirurgia robotica?
R. È l’ultima frontiera delle tecniche mininvasive, che trova un’applicazione particolarmente efficace in urologia. Negli Stati Uniti la chirurgia robotica è il gold standard per il trattamento chirurgico del cancro alla prostata: l’80 per cento degli interventi alla prostata si compiono ormai con l’ausilio del robot Da Vinci, così denominato in onore del genio italiano. Operare con il robot non significa che la macchina procede in assenza dell’uomo; al contrario, si tratta di uno strumento di particolare complessità e occorre un apprendimento specialistico, che io ho eseguito in Germania, in Belgio e negli Stati Uniti. Il chirurgo opera seduto dinanzi alla consolle del robot simile alla plancia di un’astronave, dotato di monitor, di pedali e di quattro braccia che sorreggono sottili strumenti chirurgici, le cui punte, assai più sottili di una mano, hanno una capacità di articolazione di quasi 360 gradi. Grazie allo schermo tridimensionale ad alta definizione che ingrandisce l’immagine di 10 o 15 volte, è come trovarsi immersi dentro al campo operatorio; ciò consente una precisione e una delicatezza altrimenti impensabili. Il robot non sostituisce il chirurgo, piuttosto ne esalta l’abilità manuale e ne perfeziona i movimenti, trasmessi agli strumenti chirurgici in modo fluido, delicato, senza scatti.
D. Com’è nata la chirurgia robotica?
R. Come altre innovazioni scientifiche, il robot chirurgico deriva dall’industria bellica. È l’evoluzione di un apparato di telechirurgia ideato nella Silicon Valley in collaborazione con la Nasa per aiutare i feriti in battaglia evitando che il chirurgo sia a sua volta colpito. Si trasferisce il ferito in un camper dotato di robot chirurgico manovrato dal chirurgo che, stando al sicuro nella struttura ospedaliera, interviene per un primo soccorso, ad esempio arrestando un’emorragia. Messo in sicurezza, il ferito può essere trasferito nell’ospedale più vicino per i successivi interventi. Dal militare al civile il passo è stato breve grazie a gruppi industriali che hanno sviluppato le potenzialità del sistema. Prodotto dalla società californiana Intuitive Surgical, il robot Da Vinci è distribuito in Italia da AB Medica. Al costo molto alto di 1,5 milioni di euro occorre aggiungere quello per manutenzione e strumentazione chirurgica.
D. Vale la pena investire tanto ?
R. Nello studio di fattibilità compiuto nell’ospedale San Giovanni di Roma, che possiede un robot Da Vinci di ultima generazione finanziato in massima parte dalla Fondazione Roma, per la lungimiranza del suo presidente Emanuele Emmanuele, è stata evidenziata, per l’intervento di prostatectomia radicale, una sostanziale equivalenza dei costi con la tecnica chirurgica a cielo aperto. Inoltre, notevoli vantaggi, anche sociali, derivano dalla riduzione dei tempi di degenza, dalla riduzione delle complicanze e dall’uso limitatissimo di trasfusioni di sangue. Le dimissioni dopo due o tre giorni dall’intervento e la potenziale salvaguardia della funzione erettile migliorano sensibilmente la qualità della vita. Un dato forse poco scientifico ma significativo è costituito dalla quantità di lettere di ringraziamento che ricevo, anche a distanza di tempo, dai pazienti. In Italia esistono una trentina di piattaforme robotiche, per lo più usate in Chirurgia generale. In urologia i centri di eccellenza in ospedali pubblici sono nati qualche anno fa, e si trovano a Padova e a Milano.
D. Presto sarà normale essere operati a distanza?
R. Il primo esperimento di telechirurgia risale al 2001, quando il francese prof. Jacques Marescaux operò di colecistectomia, da New York, una paziente che si trovava a Strasburgo, comandando il robot per via satellitare. Per ora il robot Da Vinci, il chirurgo e il paziente si trovano nella stessa sala operatoria, ma tarando i tempi di reazione dell’apparecchio alla trasmissione degli impulsi, già oggi sarebbe possibile operare da Roma un paziente a Palermo.
D. E nella chirurgia urologica ?
R. L’urologia forse è la branca maggiormente sviluppatasi negli ultimi 20 anni. In 9 casi su 10 noi interveniamo su reni, prostata e vescica con tecniche mininvasive, e sono ormai quasi dimenticate le grandi incisioni che un tempo caratterizzavano il grande chirurgo. I calcoli urinari vengono rimossi quasi esclusivamente per via endoscopica, cioè attraverso gli orifizi naturali, mentre i tumori si rimuovono per via laparoscopica, praticando pochi piccoli fori sull’addome. La laparoscopia assistita dal robot è stata l’ulteriore passo in avanti della chirurgia urologica. Il monitor trasmette una visione ingrandita della zona anatomica, consentendo maggiore precisione di intervento, maggiore garanzia di conservazione dei tessuti sani e, in prospettiva, nuovo impulso alla qualità di vita, soprattutto nel caso di intervento alla prostata per tumore. I tessuti circostanti, in particolare i nervi erigenti, sono molto vicini alla capsula prostatica e con le tecniche tradizionali erano frequenti esiti di incontinenza urinaria e di disfunzione erettile che, ora, l’uso del Robot, grazie ad una migliore visione e precisione, porta a ridurre. Questo anche grazie all’articolazione e alla libertà nei movimenti degli strumenti robotici, che rendono meno difficili le manovre chirurgiche in una regione anatomica stretta, quella del piccolo bacino in cui si trova la prostata.
D. Con l’innalzamento dell’età media aumenta l’incidenza delle patologie urologiche ?
R. La scoperta del cancro della prostata allo stadio iniziale è più che triplicata negli ultimi anni grazie a metodi di diagnosi precoce. Contrariamente alle donne, abituate ormai ai controlli periodici, mammografia e pap test, gli italiani sono ancora restii per pudore, perché spesso considerano la visita urologica e la necessaria esplorazione rettale una diminutio della virilità e per la paura di sentirsi dire che qualcosa non va. È necessario acquisire una cultura della prevenzione che renda la diagnosi quanto più precoce possibile, perché quando si manifesta il sintomo può essere tardi. L’esame del PSA o Antigene prostatico specifico da solo non è sufficiente perché fornisce un parametro che va interpretato e integrato dalla visita urologica e, se necessario, da biopsia. Siamo lontani dalle abitudini di Paesi come gli Usa o la Germania, nei quali è prassi rivolgersi al medico anche in situazioni di completo benessere. Su questo fronte sono fortemente impegnato anche come direttore scientifico della Fondazione per la Ricerca in Urologia, una onlus che ha lo scopo proprio di divulgare le conoscenze sulle malattie urologiche. Occorre far conoscere al grande pubblico i progressi compiuti e il livello di sicurezza raggiunto da certi metodi per scacciare i timori che ancora circondano certe patologie, in particolare i tumori. Dall’urologo bisogna andare quando si sta bene, specie oggi che la speranza di vita è notevolmente aumentata.
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