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GIANCARLO LEHNER: SU IL SIPARIO SUI COMUNISTI ITALIANI IN URSS

Editorialista dell’Avanti!, del Tempo e di Libero, Giancarlo Lehner si è specializzato negli ultimi 25 anni nel giornalismo applicato alla ricerca storica e viceversa, riportando un eccezionale successo grazie non solo alla passione ma anche al coraggio con i quali indaga sui fatti più complicati e sulle vicende più oscure. Alla caduta del regime comunista è stato il primo giornalista italiano a penetrare negli inaccessibili archivi della magistratura e della polizia segreta sovietica, a leggere documenti destinati a restare per sempre nascosti, a rivelare vicende tragiche, raccapriccianti per l’umanità ma considerate burocraticamente normali nell’epoca e nel luogo in cui si sono svolte: ossia nel millantato paradiso sovietico. Per la storia italiana dell’ultimo secolo in particolare, Lehner ha ricostruito, in base a documenti originali, la tragica illusione e la disperata conclusione dei sogni di tanti esuli italiani che, per sfuggire alla dittatura fascista, ripararono appunto nell’Unione sovietica: evitarono magari il confino in una calda e assolata isola nostrana per finire fucilati in una fossa comune nella fredda e squallidissima periferia di Mosca. In questa intervista Lehner, che nel 2008 è stato eletto alla Camera dei deputati nelle liste del Popolo della Libertà, sintetizza il contenuto dei libri che ha dedicato all’argomento corredandoli di una ricchissima, inoppugnabile e allucinante documentazione, degna di essere ampiamente divulgata dai mezzi di informazione, soprattutto dalle tv.

Domanda. Come si è svolto il suo impegno di giornalista, scrittore e storico in questi ultimi anni?
Risposta. Mi sono dedicato a due filoni di attività. Il primo, nel settore politico-giudiziario, relativo a quanto è avvenuto in Italia a partire dal «caso Tortora»; il secondo, relativo al settore storiografico vero e proprio, che costituisce un mio antico interesse. I miei primi libri sono addirittura del 1973-1974. Mi sono specializzato nella ricerca storiografica sul comunismo, sui Partiti comunisti italiano e sovietico, sui comunisti italiani riparati durante il fascismo nell’Unione Sovietica dove, anziché il paradiso, hanno trovato denunce, arresti, processi, condanne e fucilazioni. Sono stato favorito dal fatto che, quando furono aperti gli archivi dell’ex Urss, a Mosca, insieme a un mio collaboratore, ho avuto modo di acquisire una serie abbastanza imponente di documenti, sui quali ho lavorato e continuo a lavorare. Anche l’ultimo libro apparso nelle librerie nei giorni scorsi, intitolato «La famiglia Gramsci in Russia» e contenente per di più i diari inediti di Margherita e Olga Gramsci, si fonda sulle ricerche e sulla documentazione trovata in Russia.

D. Quali circostanze l’hanno portata a mettere le mani negli archivi russi?
R. L’interesse per la storia e anche un po’ di fortuna. Sono stato corrispondente dell’Avanti! da Mosca, mi sono recato spesso in Russia e ho avuto rapporti di amicizia personale con alcuni professori addetti agli archivi, i quali mi hanno fatto da guida dal momento che non era facile muoversi in corridoi infiniti pieni di carte. Ho continuato a lavorare su quel filone e attualmente ho cominciato a lavorare su un altro, attiguo al primo, ossia sui comunisti italiani nell’Urss che hanno avuto un ruolo di rilievo nel Kominter. Subito dopo scriverò una biografia di Palmiro Togliatti, limitata al periodo sovietico, dando quindi alla mia opera uno sviluppo estremamente lineare.

D. È stato il primo ad occuparsi dei comunisti italiani nell’Unione Sovietica?
R. Paradossalmente il primo fu proprio Benito Mussolini che, avendo conosciuto alcuni di quei giovani che avevano poi partecipato alla scissione del Psi di Livorno del 1921 e alla costituzione del Pci, memore del proprio passato socialista e anarcoide, in un corsivetto anonimo sul Popolo d’Italia ne indicò i nomi e pose l’interrogativo: «Ma che fine hanno fatto questi comunisti?». Dal punto di vista storiografico il «Duce» fu quindi il primo in assoluto a richiamare l’attenzione sui nostri connazionali recatisi a dare il loro contributo al regime sovietico. Successivamente l’argomento fu ripreso da altri; nel 1944 un comunista scampato alle persecuzioni in Urss, in una lettera a Togliatti rinnovò la domanda: «Che fine hanno fatto questi tuoi compagni?». Il Pci non volle mai affrontare il tema. Interrogato direttamente in una trasmissione tv, Togliatti rispose: «Quando abbiamo saputo certe cose, siamo intervenuti», ma questo era assolutamente contrario al vero perché, proprio dai documenti di archivio che ho personalmente consultato, risulta che Togliatti intervenne davvero, non per aiutare i propri compagni ma per convalidarne gli arresti, svolgendo una parte attiva in quell’atroce meccanismo. È questo l’aspetto storicamente più importante da me scoperto.

D. Successivamente chi ne ha parlato?
R. Negli anni 60 cominciarono ad apparire libri di vari autori; poiché spesso i giornalisti anticipano gli storici, un primo servizio apparve, mi sembra nel 1961, sulla Settimana Incom, e via via articoli e saggi. Io ebbi la fortuna di avere nel 1991 i primi documenti, ancora pochi, una quindicina di dossier, e scrissi il mio primo libro sull’argomento dal titolo «Dialoghi del terrore». Dopodiché mi dedicai ad accertare dettagliatamente la sorte dei comunisti italiani in Russia e, dopo quello del 1991, ho pubblicato altri due volumi, rispettivamente nel 2000 con il titolo «La tragedia dei comunisti italiani: le vittime del Pci in Unione Sovietica», e nel 2006 con il titolo «Carnefici e vittime. I crimini del Pci in Unione Sovietica». Sono 16 anni che vi lavoro.

D. Ha trovato riscontri su quanto contenuto nell’archivio russo?
R. Ho cercato e trovato anche documenti esterni all’archivio, ad esempio diari e lettere. È stato un impegno rilevante e ne sono fiero, ma debbo ammettere che sono stato anche fortunato in quanto sono stati aperti gli archivi. Infatti, quando contengono segreti gli archivi sono generalmente chiusi; quelli da me consultati in teoria avrebbero dovuto essere sigillati per sempre. Quanto all’oggetto delle mie ricerche, ossia le vicende dei singoli individui, io sono fautore della storiografia che si occupa degli esseri umani. Di una storia che si interessa non soltanto di re, di principi, di statisti, politici e governanti; ma anche di persone che non rivestono ruoli particolarmente importanti, che sono poi i veri protagonisti di essa, ossia i popoli e le persone che rimangono sempre fuori dai libri, ma che in effetti sono coloro che vanno a morire in guerra e quindi a fare la storia. Nel descriverla, il ruolo del giornalista non è meno valido di quello dello storico, anzi spesso lo è di più, perché il giornalista rivolge la propria attenzione alle vicende reali e soprattutto agli esseri umani, cercando di approfondire la conoscenza loro e dei fatti in cui furono coinvolti. Scoprendo, studiando e scrivendo, lo storico ma ancor più il giornalista rivive tragedie, traumi, shock, speranze, dolori. Confesso che, quando ho raccontato quelle grandi pagine di amore tra Emilio Guarnaschelli e Nella Masutti, qualche lacrima mi è uscita bagnando la tastiera del computer, che via via dovevo asciugare. Questo per dire che, davanti a storie così struggenti, anche chi scrive di storia si riscopre un essere umano.

D. Ha conosciuto qualche sopravvissuto o i familiari delle vittime?
R. Ho avuto la fortuna e l’onore di essere amico di Nella Masutti e dei figli di alcune vittime; dalla loro viva voce ho avuto la conferma delle tragedie che li hanno colpiti. Circa Butovo, il luogo ove venivano fucilati i condannati a morte e gettati nella fossa comune, sono molto deluso dal comportamento di alcuni attuali politici italiani. Nel 2006 insieme ad altri amici scrissi infatti all’allora presidente della Camera dei deputati chiedendo che in questa enorme fossa comune alla periferia di Mosca, dove sono presenti steli inglesi, francesi, tedesche, polacche, austriache e di tanti Paesi a ricordo delle loro vittime - in ciò il comunismo sovietico è stato veramente egualitario trattando tutti nello stesso modo -, manca una stele in ricordo degli italiani. Nessuno in Italia, durante la prima e la seconda Repubblica, ha avuto il coraggio di compiere un gesto nobile, giusto e doveroso, per non urtare la sensibilità di qualche partito. Ma ancora adesso la stele manca, e questa è una vergogna per un Paese che avuto oltre 1.100 vittime se ci limitiamo agli immigrati, ai quali vanno aggiunte 4 mila vittime appartenenti alla comunità pugliese in Crimea, un’altra strage. In quel periodo storico non servivano le prove, si veniva incarcerati, deportati e ammazzati per niente, non si compiva alcuno sforzo per accertare la fondatezza, o meglio l’infondatezza delle accuse. Anche questo è un dato incontrovertibile emerso solo grazie alla consultazione degli archivi.

D. Da parte russa le è stato opposto qualche ostacolo alla ricerca?
R. Non in queste ricerche, ma quando indagavo a Mosca sui finanziamenti sovietici al Pci. Uscendo dall’archivio di Via Ilinka fui aggredito da sconosciuti ma il mio accompagnatore russo mi avvertì: «Guardi che quelli non sono russi», facendomi capire che erano miei connazionali. Sull’Unità qualche giorno prima era stato pubblicato un trafiletto in cui ero definito come un provocatore intento a raccogliere, a Mosca, prove ovviamente «false» per diffamare il Pci. Quando usci il mio primo libro nel 1991, sullo stesso giornale si alluse a una mia presunta malattia mentale dal momento che avevo prospettato la responsabilità di Togliatti nel massacro dei nostri giovani in Russia. Sette anni dopo sull’Unità apparve un articolo che mi dava ragione. Sperai invano che mi chiedessero scusa.

D. Come sono stati raccontati dalla sinistra in Italia quei fatti?
R. I miei libri hanno spinto la casa editrice Feltrinelli a inviare a Mosca tre studiosi. Ma i comunisti pretendono di raccontare loro la storia, comunque questo mi fa piacere perché hanno dovuto ammettere tutto; infatti è uscito un libro della Feltrinelli che racconta quello che avevo già scritto io. Che nell’Urss le vittime sono state milioni e che ogni famiglia russa ne ha avuta almeno una, era noto in Russia prima ancora che si scrivessero libri; ognuno aveva visto sparire un cugino, un figlio, un fratello, un padre ecc. Spesso soprattutto i giovani mi chiedono: «Ma perché tanto sangue?».

D. Che cosa risponde?
R. La risposta è molto difficile ma c’è, e forse andrebbe accompagnata da altre; ed è questa: è falso dire che il comunismo fallisce a un certo punto della sua esistenza; fallisce immediatamente, perché comincia subito a regredire. Alcuni storici russi mi hanno rivelato l’esistenza di documenti dai quali risulta che poco dopo l’instaurazione del regime comunista, alti dirigenti dello stesso già ammettevano di aver sbagliato, di dover tornare indietro e ricominciare. Sono alla ricerca di queste carte. Inoltre ritengo che, oltre a quelle conosciute, esistano molte altre vittime italiane. Ogni anno se ne scoprono due, tre, perfino 6; non dico che c’è il materiale per scrivere un altro libro, ma sicuramente per completare gli altri.

D. Come mai non sono stati fatti sparire questi documenti al momento della caduta del comunismo?
R. Data la quantità dei documenti e la vastità degli archivi, per farlo avrebbero dovuto bruciare Mosca. L’unica cosa che hanno fatto è il trasferimento all’estero della cassa del Partito comunista sovietico. Questa operazione è stata oggetto di un’altra mia indagine che ho dovuto purtroppo interrompere perché andavo incontro a un grave rischio fisico personale: un rischio reale, non ipotetico, perché molti di quei denari sono arrivati in Italia. Una pista forse era collegata alle indagini dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, entrambi assassinati.

D. In che senso?
R. Un’alta personalità del Governo italiano mi consigliò di cercare nel nostro Ministero degli Esteri un telefax in cui si fissava al giudice Falcone un appuntamento a Mosca per il giugno 1992 con il procuratore generale della Federazione Russa Valentin Stepankov, per indagare sulla destinazione italiana del tesoro scomparso del Pcus; ma alla fine di maggio Falcone fu ucciso e Borsellino subito dopo. Stepankov dichiarò alle agenzie russe: «Io so perché hanno ammazzato Falcone». E in realtà riteneva di sapere perché anche Borsellino avesse subito lo stesso destino. Allora quella stessa personalità che mi aveva fornito quell’indicazione mi consigliò di abbandonare la ricerca.

D. Cos’altro ha scoperto negli archivi?
R. Un altro elemento: dagli anni 30 in poi il Partito comunista sovietico smette di fare politica; unica sua attività è organizzare una struttura finalizzata alla vigilanza rivoluzionaria, al controllo e alla denuncia sistematica degli iscritti. Si uccide per vendette o motivi abnormi. Un caso: una signora tornata in Russia dall’Italia ove si era recata per prendere i figli, alla domanda come era questo Paese rispose che vi si trovavano tante e buone verdure a poco prezzo, cosa rara in Russia; fu processata per apologia di fascismo e condannata a 5 anni di gulag; e fu pure fortunata perché non perse la vita.

D. C’è ancora tale tipo di comunisti?
R. A livello istituzionale sono scomparsi, ma ancora esistono, soprattutto tra gli insegnanti delle scuole medie, inferiori e superiori. Lo scorso dicembre ho svolto una conferenza su Gramsci in una scuola privata. Il professorino di storia si alza e invece di parlare del mio libro e di quanto avevo scoperto su Gramsci, esclama: «Il comunismo nasce per liberare l’uomo». Gli rispondo: «Se uno mi uccide, che m’importa che voglia liberarmi? E ho aggiunto che al confronto Hitler era stato più onesto, avendo sempre detto e scritto quello che avrebbe fatto; nessuno poteva e doveva aspettarsi altro dal Furher. Al contrario, il comunismo ha illuso, acceso speranze per un mondo nuovo, giusto, umano, ma invece ha prodotto un incubo, un inferno.

D. Su che cosa si basavano le condanne a morte?
R. Quei giudici erano abilissimi nel giocare con il tempo e con lo spazio e a trasformare in reati atteggiamenti che, collocati nel periodo in cui erano avvenuti, erano assolutamente normali. Libri simili ai miei sono stati pubblicati in Francia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca. Penso che fatti come quelli avvenuti nell’Urss non possano ripetersi.

Tags: libri Russia Giancarlo Lehner

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