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MASSIMO MASI: UILCA, LAVORARE PER LE BANCHE O MEGLIO PER I RISPARMIATORI

Presto la banca cambierà aspetto, anzi sta già cambiando a ritmo accelerato e in maniera profonda. Un esempio: non vi sarà più il cassiere allo sportello, e non si sa se saranno ancora visibili le banconote. Un bene o un male? Semplicemente un’ineluttabilità. Ma come vedono questa trasformazione gli addetti ai lavori, ossia il mondo che vive dentro le mura delle banche? Massimo Masi, bolognese, ha guidato nell’ultimo biennio un esercito di 43 mila iscritti alla Uilca, il sindacato dei lavoratori del credito, delle agenzie, della riscossione, delle assicurazioni, dei promotori e dei mediatori finanziari, aderente alla Uil.
Segretario uscente dell’organizzazione, in occasione del congresso in programma a metà febbraio Masi ha stilato una puntuale diagnosi della situazione del credito in Italia in un momento particolare: dopo la crisi economica e finanziaria dello scorso biennio e in attesa dell’arrivo di una ripresa. L’azione di controllo svolta dalla Uilca negli anni passati ha contribuito notevolmente ad evitare che in Italia si diffondesse la pratica della finanza spregiudicata e della vendita di bond a rischio, ed è stata utile pertanto sia ai risparmiatori sia alle stesse banche.
Domanda. Qual è il bilancio dell’attività della Uilca nel momento in cui affronta il congresso nazionale?
Risposta. Il bilancio è positivo. A differenza di altre, la nostra categoria è riuscita a concludere accordi e a rinnovare molti contratti, tutti soddisfacenti. Lo dobbiamo anche a un’iniziativa adottata dal sindacato nel 1997 consistente nell’avvio di un fondo per l’occupazione. Nel 1999 il settore del credito andò incontro ad una profonda ristrutturazione che ha comportato da allora l’uscita di 30 mila dipendenti; in questi anni pertanto l’occupazione si è mantenuta stabile, solo nel 2009 la riduzione è stata dello 0,11 per cento, nel complesso si è verificato un notevole ricambio, sono diminuiti i più anziani e sono entrati i giovani. Fare uscire 30 mila persone senza mettere nessuno sulla strada, a spese della stessa categoria e delle aziende e non dello Stato, è stato un grande risultato del sindacato; l’accordo poi è stato esteso alle esattorie e alle assicurazioni. Spero che il sistema possa essere applicato ad altre categorie di lavoratori. Nel 2009 abbiamo realizzato un’altra iniziativa: poiché la crisi ha colpito anche banche straniere, finanziarie e società collegate a grandi gruppi, dal momento che molti dipendenti giovani non avevano i requisiti per partecipare al fondo, ne abbiamo proposto un altro, definito «emergenziale»; una volta istituito con un decreto ministeriale, potrà assicurare ai lavoratori eventualmente licenziati dalle proprie aziende un sostegno economico per due anni, nonché la possibilità di reinserirsi nel lavoro.
D. Quanti sono gli interessati?
R. Non si può prevedere; abbiamo valutato un numero di circa 1.500 l’anno, dipende all’evolversi della crisi. Inoltre abbiamo deciso di aumentare i finanziamenti per la formazione e svolgiamo corsi, soprattutto per gli ultracinquantenni; corsi essenziale dal momento che ogni due anni aumenterà di un anno l’età pensionabile. La consultazione e le trattative sono all’ordine del giorno. In un Gruppo come Intesa Sanpaolo, ad esempio, in un anno abbiamo concluso ben 190 accordi. Credo che in altri settori ciò non avvenga.
D. Per quanto riguarda le imprese di assicurazione?
R. La situazione occupazionale è migliore, nel 2009 il numero complessivo dei dipendenti è aumentato di 1.400 unità e si assiste a una continua crescita. Rispetto alle banche, però, nelle assicurazioni esiste il problema del precariato, che speriamo di risolvere con il rinnovo del contratto scaduto il 31 dicembre scorso. Per quanto riguarda le Agenzie fiscali, negli ultimi 3-4 anni il personale è stato praticamente dimezzato scendendo da 13 mila a non più di 7 mila dipendenti; ma con il ricorso al Fondo non si è verificato alcun trauma occupazionale. Ora il Governo deve decidere se creare un’unica agenzia per ridurre i costi, o mantenerne quattro, Entrate, Dogane, Territorio e Demanio. Vanno risolti vari problemi a causa della diversità dei contratti e del sistema previdenziale; inoltre la Regione Sicilia tiene molto ad avere un proprio servizio esattoriale, e questo rallenta la soluzione.
D. Come sono i rapporti con le controparti?
R. Le relazioni sono normali, quello che un po’ ci preoccupa è il ruolo dell’ABI. Mentre l’ANIA riesce ancora a catalizzare e a rappresentare le imprese assicuratrici, l’Associazione Bancaria Italiana vede ridursi la propria centralità rispetto alle banche. Fino a qualche tempo fa, infatti, tutti gli accordi passavano attraverso di essa; oggi, con la creazione di grandi gruppi bancari come Intesa Sanpaolo, Unicredit, Monte Paschi di Siena, Banco Popolare, questi cercano di risolvere autonomamente i loro problemi. Alcune soluzioni concordate costituiscono, soprattutto nel Sud, uno scavalcamento del contratto, non sono frutto di accordi nazionali. Gli inquadramenti vigenti risalgono a 20 anni fa, di fatto non esistono più. I grandi banchieri hanno meno bisogno dell’ABI per trattare con il Governo. È cambiato tutto il sistema, perché fino a dieci anni fa esistevano 1.200 banche, di dimensioni minori, oggi sono 490.
D. Come vede la situazione dall’interno del settore?
R. A causa della crisi economica, nel 2009 gli azionisti delle banche non hanno ricevuto dividendi; quest’anno però dovranno distribuirsi, ma i bilanci sono ancora pesanti, si parla di sofferenze tra i 12 e i 20 miliardi di euro, sperando di contenerli a 15 mila. Il contenzioso è destinato ad aumentare, i costi a comprimersi. Mi sono detto favorevole a questo ma a condizione che siano ridotti anche stipendi e bonus non solo di massimi amministratori ma anche di alti dirigenti; e i compensi per consulenze miliardarie. Tutti costoro nell’approvare i piani industriali non hanno previsto la crisi, hanno aperto molte filiali che non sono arrivate a guadagnare, sono sopraggiunte le difficoltà e oggi devono rimettono in discussione i loro piani. Allora riscoprono la validità delle piccole e medie imprese, la fascia più presente nel mercato italiano, dalle quali si erano allontanati per operare con le grandi imprese. Oggi sono costretti a tornano al modello di banca regionale, del territorio. È vero che i grandi gruppi bancari sono meno scalabili e usufruiscono di maggiori sinergie. Comunque hanno sbagliato i progetti e nessuno l’ha ammesso o si è dimesso.
D. Quali richieste da presentare alla controparte proporrà al Congresso di questo mese?
R. La formazione, sulla quale occorre investire perché è essenziale in quanto il ruolo del bancario si sta trasformando, vi saranno sempre meno cassieri, sempre più consulenti, sempre più addetti alla vendita; la banca sarà sempre più legata ad internet, la clientela cambierà nei rapporti con essa. Già stanno apparendo sportelli senza cassiere, dotati di dispositivi che rilasciano strisciate e fotocopie. Vi sarà una notevole metamorfosi nel lavoro in banca, con tanti consulenti, tanti addetti alle vendite, mentre gli impiegati cureranno il cosiddetto back office. Se, per ridurre i costi, saremo disponibili verso forme di lavoro alternative, chiederemo che non vi siano più trasferite lavorazioni all’estero, anche perché chi l’ha fatto le sta riportando in Italia a causa di errori e di difficoltà di lingue e di comunicazioni.
D. Per i clienti che cosa proporrà?
R. Un programma informativo consistente in incontri con i lavoratori e i pensionati per spiegare come funziona il mondo della finanza, perché la vendita dei prodotti è un’attività delicatissima, affidata a personale che deve sapere cosa vendere in base alle possibilità finanziarie dell’acquirente. Devono cessare le pressioni dei manager per vendere determinati prodotti ad alto rischio, devono esservi la massima chiarezza, trasparenza e professionalità.
D. La ripresa è ostacolata dalle difficoltà poste dalle banche nella concessione dei crediti?
R. È ostacolata soprattutto dal fatto che grandi e medi industriali hanno preferito trasferire capitali all’estero o li hanno tenuti in Italia ma senza investirli; per supplire a questa lacuna ora chiedono credito alle banche. Sono d’accordo che queste debbano allargare un po’ il credito, ma anche l’industria deve compiere la propria parte. Se oggi si registra un basso livello, ad esempio, nella ricerca scientifica, la colpa non è delle banche né dello Stato, ma di chi non investe capitali nella propria azienda, preferendoli spostarli all’estero. Un altro ostacolo alla ripresa è costituito dall’accordo Basilea 2, che non è tarato sull’economia italiana ma su un’economia scolastica nella quale si dichiarano tutti i redditi, si pagano tutte le imposte ecc. Se le banche dovessero concedere il credito in base a Basilea 2 non finanzierebbero nessuno.
D. Per quale motivo?
R. Applicando quell’accordo, le aziende dovrebbero portare il bilancio in banca, questa dovrebbe sottoporne i dati al computer dal quale salterebbe fuori l’importo affidabile; poiché è noto il più delle volte il fatturato ufficiale è del 30-40 per cento inferiore a quello reale, con Basilea 2 non si finanzierebbe nessuno. Inoltre negli ultimi anni verso le piccole e medie imprese le banche hanno avuto un calo di fiducia; ora tutte, maggiori e minori, ricorrono ai Confidi, ossia ai consorzi di categoria delle stesse piccole e medie imprese, per farsi garantire i crediti. Insomma assistiamo a imprenditori che non hanno investito nelle proprie aziende, a banche che hanno timore di concedere crediti, a un Governo che ha affidato ai prefetti il controllo del credito. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva promesso alle banche di detassare i crediti verso i clienti che sono oggetto di contenzioso, ossia le somme sulle quali esse pagano le imposte senza averle incassate; ma il ministro non l’ha fatto. È logico che siano prudenti, in quanto tuttoè  concatenato.
D. Qual è la situazione creditizia delle famiglie?
R. Il loro indebitamento sta crescendo; è un fenomeno preoccupante perché, per arrivare a fine mese, un numero crescente di esse deve indebitarsi; per di più molti si indebitano anche per ragioni futili, visto che le mode inducono a spendere, ad andare in ferie sia in estate che d’inverno. C’è da augurarsi che non riparta l’inflazione, perché con le odierne difficoltà occupazionali e il precariato potrebbero sorgere conflitti sociali. Se non riprende la scalata dei prezzi, i dati dovrebbero essere soddisfacenti per il primo trimestre di quest’anno, seguito da un semestre difficile e da una ripresa alla fine del 2010. Ma nelle banche, come la crisi arriva sempre un anno dopo, anche la ripresa arriva un anno dopo.
D. Che pensa il sindacato della proprietà dei giornali da parte dei grandi gruppi bancari?
R. È così che le banche hanno supplito all’assenza dello Stato. Ma il condizionamento dell’opinione pubblica da esse attuato non è diverso da quello compiuto dai grandi gruppi industriali, in special modo da quella che si chiama industria finanziaria. Oggi le banche sono diventate così potenti da condizionare la vita di tutti; tre di esse controllano il 60 per cento dell’economia italiana; come si fa a prescinderne?
D. Però fusioni, accorpamenti, concentrazioni non sempre riescono bene. C’è tensione tra il personale, costretto a subire procedimenti, metodi e culture diverse?
R. Se dovessero fondersi due sindacati, sorgerebbero analoghi problemi. Io non critico le fusioni innanzitutto perché le banche, divenendo così grandi, non sono scalabili da gruppi stranieri. Le grandi concentrazioni hanno dato risultati positivi, anche se per il personale non è stato sempre così e neppure per la clientela. Comunque esistono tante piccole banche territoriali che avranno sempre una ragione di vita, anche se incontreranno qualche difficoltà.
D. Quelle del centro-sud servono per le esigenze locali o, centellinando il credito, a raccogliere risparmio da investire nel Nord?
R. I dati sono contraddittori. In un convegno che abbiamo organizzato in Calabria, un docente dell’Università di Cosenza ha sostenuto che non è così: le banche del Sud raccolgono ingenti capitali cui non corrispondono adeguati investimenti; pertanto concedono più credito alle famiglie che alle imprese industriali, e questo sposta i confini geografici degli impieghi. Io non credo alla progettata Banca del Sud, è un’idea ancora confusa.
D. A che cosa crede?
R. Occorrono piuttosto banche collegate con il territorio che compiano investimenti e occupino personale bene a conoscenza delle rispettive zone. Le compagnie di assicurazione chiudono per l’alto tasso di truffe e i costi enormi, qualcuna ha già rinunciato a combattere la battaglia morale, questo è il problema del Paese. Nel Sud tante imprese meritano, ma si scontrano con il problema di sicurezza. Bisogna risolverlo in qualche modo, per sostenere lo sviluppo le strutture finanziarie devono essere presenti e compiere investimenti, non ha importanza il marchio. La vicinanza al territorio, la conoscenza, l’informazione, il contatto umano costituiscono le strade principali da percorrere. Quando lavoravo in banca, mi recavo a visitare le fabbriche e i capannoni, e riferivo al mio capo se dentro c’erano i macchinari o si faceva qualcos’altro. Oggi non si fa più così, non c’è il contatto umano, si preferisce compilare una scheda tecnica e si è a posto. C’è poca volontà di rischiare, si vuole guadagnare rapidamente, le banche hanno coniato un termine che in economia non esiste: «a brevissimo termine». Esistono i termini «a breve, a medio, a lungo termine»; dire «a brevissimo» significa solo che si vogliono solo fare soldi, e il più presto possibile.

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