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giaMPAOLO DI PAOLA: uno strumento militare PIu' valido E FINANZIARIAMENTE SOSTENIBILE

L’Ammiraglio Giampaolo Di Paola, ministro della Difesa nel Governo Monti

Nato a Torre Annunziata ed entrato nell’Accademia Navale nel 1963, l’attuale ministro della Difesa del Governo Monti - rimasto in carica, dopo le dimissioni dello scorso dicembre, solo per il disbrigo degli affari correnti -, fu nominato Guardiamarina nel 1966, quindi in rapida successione promosso Sottotenente di Vascello, Tenente di Vascello, Capitano di Corvetta, Capitano di Fregata, Capitano di Vascello, Contrammiraglio, Ammiraglio di Divisione finché il primo gennaio 1999 è giunto al grado di Ammiraglio di Squadra. Dopo la specializzazione nella Scuola Sommergibili, dal 1968 al 1974 ha prestato servizio con vari incarichi a bordo dei sommergibili convenzionali Gazzana e Piomata, ha comandato il Cappellini e il Sauro, la Fregata Grecale; dopo la promozione a Capitano di Vascello ha prestato servizio come Comandante a bordo dell’incrociatore portaerei Garibaldi. Ha frequentato il Nato Defence College a Roma, ha prestato servizio in Usa a Saclant nella Virginia, come Ufficiale di guerra antisommergibile e addetto al programma di guerra subacquea. Ha svolto vari incarichi nello Stato Maggiore della Marina, è stato Capo di Gabinetto del ministro della Difesa, Segretario generale della Difesa-Direttore nazionale degli Armamenti. Dal 10 marzo 2004 al 12 febbraio 2008 è stato Capo di Stato Maggiore della Difesa e dal giugno 2008 al 17 novembre 2011 presidente del Comitato militare della Nato. Domanda. Nell’ambito del suo mandato di ministro della Difesa nel passato Governo Monti, quali iniziative più significative ha realizzato, e quali altre avrebbe avviato se lo stesso Esecutivo fosse rimasto in carica? Risposta. Il traguardo che, sin dall’inizio del mio incarico, ho sempre definito più importante e che, grazie al Parlamento, sono riuscito a raggiungere è stata la riforma dello strumento militare. In Italia si era creata una dicotomia tra le risorse finanziarie che il Parlamento nel tempo ha messo a disposizione della funzione Difesa e la dimensione dello stesso strumento. Una dicotomia insanabile, per cui bisognava ritrovare una coerenza tra le risorse, le strutture e la dimensione di queste. Per cui il disegno di legge delega, che adesso è diventato legge perché è stato approvato dalle Camere, è l’atto cui ho dedicato la parte maggiore delle mie energie e che, grazie all’intelligenza e alla sensibilità del Parlamento, è potuto diventare legge con un’amplissima maggioranza al Senato, formata da tutti i Gruppi politici ad eccezione di uno solo; parimente, ha avuto una grande maggioranza anche alla Camera. Un apprezzamento politico così ampio è motivo di soddisfazione e di plauso non per me ma per il Parlamento, che ha compreso l’importanza della riforma, come spero che l’abbiano compresa anche gli italiani D. Che può dire oggi sul contestato acquisto degli aerei da caccia F35, e su chi sosteneva che si potevano finanziare interventi più utili? R. Il problema non è «F35 sì o F35 no», come ho ripetuto in Parlamento sia nelle audizioni, sia durante la discussione del disegno di legge delega sulla riforma dello strumento militare, sia nelle risposte alle specifiche interrogazioni postemi. Il problema è se, nell’ambito delle risorse finanziarie messe a disposizione, si ritiene che debbano figurare anche Forze armate di qualità. A creare questa qualità concorre la componente aerotattica dell’Aeronautica, che va rinnovata perché possiede aerei che si avviano verso la fine della vita operativa. Il rinnovamento di alcune linee non avviene in un giorno o in un anno, ma nel lungo periodo; quel programma era stato impostato 10 anni fa dai Governi che mi avevano preceduto, ed era stato continuamente confermato in Parlamento. Io ho ritenuto giusta e corretta quella scelta, nella quale l’Italia ha investito molto, anche sul piano industriale. D. In cosa è consistita, in particolare, la sua azione? R. Ho ricondotto quella scelta in un quadro di sostenibilità finanziaria rispetto alle risorse disponibili, riducendo il quantitativo dei velivoli che l’Italia intende acquistare, assicurando la coerenza tra risorse e capacità; e ciò vale non solo per gli F35, ma per qualunque programma di investimento che la Difesa compie. Il quesito da porci è se devono farsi investimenti per la Difesa o no; ma se le Forze armate devono costituire uno strumento utile per il Paese, occorrono investimenti. Attraverso la riforma ho ridimensionato lo strumento militare, cosa che, anzi, a volte mi è stata rimproverata perché, essendo un ex militare e un ex Capo di Stato Maggiore, sono stato accusato di ridurre lo strumento militare per rispettare la coerenza tra le risorse e le capacità. D. Qual’è la sua idea sulla funzione e sulla dimensione che debbono avere le Forze Armate? R. L’essenziale è avere Forze Armate di qualità. La loro dimensione è quella resa possibile con le risorse disponibili, e in questo quadro ha senso l’investimento negli aerei F35 come in altre capacità militari. Perchè, se le Forze Armate devono costituire un valore e quindi essere utili, devono anche avere delle capacità. Esse esistono in tutti i Paesi europei, anzi in ogni Paese del mondo. E che siano di qualità ci viene chiesto anche dall’Unione Europea e dalle altre alleanze, in primis la Nato, di cui facciamo parte. D. In che modo gli investimenti nelle Forze armate possono essere utili anche per il futuro e per la crescita del Paese? R. Questa domanda mette in luce un aspetto fondamentale che dovrebbe essere noto, ma che è bene sottolineare. Il rinnovamento delle Forze armate e lo sviluppo delle capacità militari richiede investimenti, in innovazione e in tecnologia in vari settori della sicurezza, che fanno crescere l’industria nazionale anche in ambiti non strettamente militari. La ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica generate dagli investimenti militari hanno una notevole ricaduta in tutti i settori, sviluppano l’industria e accrescono il prodotto interno. Tra l’altro l’industria della Difesa ha uno dei più vantaggiosi ritorni; se si investe 10, si ricava 20, 30, a volte anche 40. È uno dei settori di punta in cui si registra un alto valore aggiunto e quindi un elevato ritorno economico e di crescita per il Paese. D. In una occasione lei ha detto che «nell’aria c’è un furore e un pregiudizio ideologico contro le Forze armate». Da parte di chi? R. Alcune componenti della nostra società mostrano chiaramente un pregiudizio ideologico nei confronti della struttura militare e invitano a fare a meno delle Forze Armate. Per fortuna non sono componenti maggioritarie della società, tanto che il Parlamento, che rappresenta la società italiana, ha ritenuto di dover approvare il disegno di legge che punta a dare allo strumento militare capacità e qualità, sia pure in una dimensione ridotta. D. Nell’Agenda Monti figurano anche le dismissioni di immobili militari. In che cosa consistono? Sarà facile venderli? Ed è opportuna la vendita di questi ingenti patrimoni? R. L’Italia ha il grande problema del debito pubblico, quindi ha bisogno di misure che portino al suo abbattimento. Misure non di breve periodo, e sulla cui adozione abbiamo assunto impegni formali con l’Unione Europea quando, in tema di fiscal compact, ci siamo impegnati a ridurre il debito eccedente. Condivido quanto ha ricordato il presidente del Consiglio Mario Monti, cioè che non c’è crescita sana e non si creano sviluppo e lavoro se non esiste un’economia sana. E che non può definirsi sana un’economia caratterizzata da un forte indebitamento. Ovviamente il debito pubblico non si abbatte soltanto attraverso la dismissione degli immobili; occorre soprattutto invertire la tendenza che ha portato in questi anni a una riduzione del prodotto interno e quindi ad una crescita del peso del debito pubblico. D. Che ruolo possono avere, pertanto, le dismissioni di tali beni? R. Per far sì che il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno si inverta, oltre ai due fattori consistenti della riduzione della spesa e dell’incremento della crescita, contribuisce un altro elemento che è rappresentato appunto dalle dismissioni. Pertanto occorre dismettere una parte del patrimonio nazionale che non serve o non è più utilizzabile, utilizzando questo stock di risorse finanziarie per concorrere ad abbattere il debito pubblico. È una misura complementare, ma in una situazione in cui va adeguatamente ridimensionato il debito pubblico, le dismissioni finalizzate a tale scopo aiutano. D. Con quali criteri si intende dismettere tali beni? R. Le dismissioni del patrimonio militare devono avere una logica. Prima di tutto, si dismette quanto non serve più alle esigenze della Difesa, per cui è bene valorizzarlo mettendolo nel mercato. In secondo luogo perché, alienando infrastrutture che non servono, si riducono le esigenze quindi la spesa che quel patrimonio richiede. La Difesa non dovrà più affrontare costi per la gestione e la manutenzione di beni che non servono più, conseguendo in tal modo un doppio risultato: contribuire all’abbattimento del debito pubblico e ridurre la spesa militare. Quindi sono assolutamente favorevole a questo programma, che tuttavia non è di facile realizzazione. In una fase in cui l’economia non tira e la domanda è debole, mettere sul mercato un patrimonio consistente, che richiede compratori disposti a investire centinaia di milioni di euro, è un’operazione non facile. D. Se si riuscirà a vendere tale patrimonio militare ad entità straniere, cosa resterà allo Stato italiano del suo contenuto storico e artistico spesso stupendo? R. Non si parla certamente di vendere il Colosseo, ma quelle strutture che non sono più utilizzabili. Non so chi le acquisterà, ma quelle esistenti nell’ambito di contesti urbani dovranno rientrare nei piani urbanistici dei relativi Comuni e delle Amministrazioni locali. Comunque dovrà essere esercitato un controllo sull’uso di questi beni. Non è rilevante da chi sia posseduto il bene, ma la condizione che il suo impiego rientri in un quadro di valorizzazione del contesto urbanistico ed ambientale. Ma questo rientrerà nella competenza dei Comuni. D. Come rimpiazzate i mezzi militari giunti al termine della vita operativa? Si possono vendere a Paesi stranieri? R. In alcuni casi esistono Paesi interessati all’acquisto di mezzi non più rispondenti alle nostre esigenze; in questo caso si possono cedere, e questo è avvenuto in particolar modo nel settore navale nell’ambito del quale destiniamo alla dismissione nostre unità quando ciò rientra negli accordi di cooperazione con Paesi amici. Giudico questa una forma anche intelligente di dismissioni, perché si elimina un bene ormai non più utile ricavandone nello stesso tempo un utile finanziario. In altri casi questa possibilità non c’è, e i mezzi vengono destinati a fine vita operativa, e dopo un certo tempo vengono distrutti con processi di rottamazione eseguiti da industrie specializzate. D. È fiducioso nella Corte Suprema indiana per quanto riguarda il processo ai due marò italiani, i fucilieri della Marina Militare Italiana coinvolti nell’azione anti-pirateria nell’Oceano Indiano? R. Sono molto fiducioso che la Corte Suprema indiana applicherà il diritto internazionale e riconoscerà che appartiene all’Italia la giurisdizione sul caso dei due fucilieri della nostra Marina. E sono anche convinto che questo avverrà in tempi brevi. Dopo le festività di fine anno i due fucilieri sono rientrati in India, in attesa del giudizio della Corte Suprema che saprà riconoscere il diritto a giudicarli della Magistratura italiana. D. C’è qualcosa di significativo che a lei fa piacere dire? R. Non dobbiamo dimenticare che l’Italia, al di là dei propri travagli e delle difficoltà economiche e politiche, è un grande Paese, una grande democrazia europea e atlantica. E che noi facciamo parte di queste due grandi famiglie e, come tali, dobbiamo svolgere il nostro ruolo nel campo della politica estera e della sicurezza. Dobbiamo concorrere a costruire un’organizzazione europea più integrata anche nel settore della difesa, e questa prospettiva è funzionale anche a un rafforzamento del rapporto con la Nato. Gli Stati Uniti stanno ripetutamente chiedendo a noi europei di non lasciare solo a loro il peso della sicurezza di questa alleanza, e di acquisire pertanto maggiore responsabilità anche nel settore della sicurezza e della difesa. Credo che una risposta a questa comprensibile e legittima richiesta degli Stati Uniti possa passare attraverso una maggiore integrazione europea. 

Tags: Febbraio 2013

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