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Francesco Cecconi: autofagia, dal nobel giapponese Ohsumi fino a Roma, quando mangiare se stessi salva vite

Francesco Cecconi, professore ordinario di Biologia dello Sviluppo presso l’Università di Roma Tor Vergata

Non solo Bob Dylan. Il Premio Nobel, quello vero, senza discussioni, quello per la vera medicina e fisiologia, è andato a Yoshinori Ohsumi «per le sue scoperte sui meccanismi dell’autofagia». Dopo anni di studi sul lievito di birra, Ohsumi ha aperto la strada alla comprensione dell’autofagia in numerosi processi fisiologici, come l’adattamento alla fame o la risposta alle infezioni. Nato a Fukuoka nel 1945, dottorato di ricerca nell’Università di Tokyo nel 1974, tre anni alla Rockefeller University di New York, il biologo cellulare ha formato nell’ateneo nipponico di provenienza il suo gruppo di ricerca nel 1988. Dal 2009 è professore al Tokyo Institute of Technology. Gli svedesi del Karolinska Institutet di Stoccolma lo hanno scelto fra 273 scienziati candidati a un premio di oltre 830 mila euro.
In Italia ne segue le orme Francesco Cecconi, professore ordinario di Biologia dello sviluppo presso l’Università di Roma Tor Vergata, direttore di un’unità di ricerca presso il Danish Cancer Society Research Center di Copenhagen e membro della European Molecular Biology Organization (Embo). Da ricercatore presso l’istituto tedesco Max-Planck di Göttingen, nel campo della morte cellulare nello sviluppo ha descritto la funzione in vivo del gene Apaf1, un regolatore chiave dell’apoptosi. Nel 1999 è stato insignito del titolo di «Telethon Scientist», e da allora dirige il Laboratorio di Embriologia molecolare di Tor Vergata. Ha studiato la molecola pro-autofagica Ambra1. È considerato uno dei massimi esperti nel campo dell’autofagia. È a lui che chiediamo delucidazioni su questo autocannibalismo cellulare che consente di fronteggiare malattie degenerative mortali, e così ci rendiamo conto di come il Premio Nobel a Ohsumi sia qualcosa di più strabiliante rispetto alla quérelle dei letterati.
Domanda. Cosa si intende con la locuzione «Biologia dello sviluppo»?
Risposta. È una disciplina della biologia che si occupa della generazione di un organismo da quando avviene l’incontro tra i due gameti, cioè la cellula uovo e lo spermatozoo, fino a quando non si ha la maturazione dell’individuo adulto. Nella specie umana l’embrione e il feto si sviluppano durante la gravidanza, ma lo sviluppo continua anche dopo il parto fino all’età adulta. È una disciplina molto interessante che si occupa di una parte ancora misteriosa della scienza, di cui ancora moltissimi aspetti non conosciamo a fondo, e ha delle implicazioni importantissime per le numerose malformazioni congenite che possiamo studiare per porvi rimedio, ma anche per avere un concetto di evoluzione dell’uomo. Nella parte intrauterina del nostro sviluppo siamo molto simili a specie diverse nell’ambito dei mammiferi, per esempio primi stadi di sviluppo dell’uomo e del topo sono estremamente simili, e questo è uno dei motivi per cui nella biologia dello sviluppo la sperimentazione animale rimane un pilastro fondamentale.
D. Il meccanismo di riciclo ed eliminazione dei rifiuti cellulari ha un ruolo essenziale nel benessere delle cellule: ci può illustrare i processi di autofagia ed apoptosi?
R. Apoptosi in dal greco vuol dire «caduta delle foglie», ed è il meccanismo per il quale una struttura vivente perde delle parti per la sua stessa sopravvivenza. All’interno del nostro organismo alcune cellule muoiono non perché soffrano di qualche particolare condizione patologica, ma per levarsi di mezzo quando ciò costituisce un beneficio per l’organismo. Un esempio: nel sistema nervoso, durante lo sviluppo, il sistema produce miliardi di cellule in eccesso, alcune delle quali devono essere rimosse per generare quel cervello plastico e funzionale che serve dal momento della nascita in poi. Quindi poco prima del parto avviene una grande apoptosi, una morte selettiva di cellule in sovrannumero per garantire che si raggiunga il giusto totale. Un altro esempio sono le dita della mano: nel feto questa ha delle tende cellulari come negli arti palmati degli uccelli, nel modellamento dell’arto tali palme «cadono», cioè le cellule muoiono, scomparendo al momento della nascita. Quindi anche nella fase definitiva della scultura dell’organo, l’apoptosi è un processo fondamentale. Lo si è studiato anche in condizioni patologiche: uno dei significati della chemioterapia è quello di indurre ad apoptosi le cellule tumorali sfruttando meccanismi genetici che le cellule hanno a disposizione. Con i farmaci chemioterapici si inganna la cellula, facendole credere che deve usare questi strumenti come se fosse tornata nella fase dello sviluppo, lei ci «casca» e si suicida, morendo per apoptosi.
D. L’autofagia invece?
R. L’autofagia è il processo contrario, una risorsa per la cellula consistente in un sistema di riciclaggio dei suoi componenti che si usa in condizione di stress. Quando la cellula è stressata, deve ripulirsi e lo fa in varie circostanze: lo fa quando ha un fabbisogno energetico e deve produrre più materiale, quindi prova a riciclare se stessa, oppure quando è molto stressata e deve in qualche modo rimuovere delle parti di sé che sono state danneggiate, affinché queste vengano rinnovate. Con l’autofagia, che vuol dire «mangiare se stessi», la cellula crea delle vescicole e delle strutture interne che rimuovono e digeriscono proteine tossiche e aggregati. Nel sistema nervoso molte malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson o l’Alzheimer, sono dovute ad accumulo di proteine tossiche. Si tratta di degenerazioni in cui i neuroni accumulano tossine: altra malattia è l’Huntington, nella quale la molecola «huntingtina» forma delle grandi catene che occupano la cellula distruggendola dall’interno. Si è visto che l’autofagia, oltre a riciclare i componenti cellulari, può aggredire questi aggregati e ripulire la cellula, quindi è un meccanismo di pulizia.
D. Il meccanismo dell’autofagia, che è pur sempre un «mangiare se stessi», è sempre positivo?
R. Se pensiamo al sistema nervoso, essa sicuramente è benefica, se invece pensiamo alle cellule tumorali in realtà è un fenomeno che in qualche modo aiuta la cellula tumorale a sopravvivere; quindi da un lato la aggrediamo con la chemioterapia, ma questa cerca di sopravvivere con l’autofagia. Esistono molti trials clinici che tentano di associare al rimedio chemioterapico anche dei farmaci che riducano la risorsa cellulare autofagica, impedendo alla cellula tumorale di usare l’autofagia per sopravvivere. Questi sono meccanismi fisiologici di base che noi stiamo cercando di sfruttare in terapia per diverse malattie.
D. L’autofagia è un processo noto da oltre cinquant’anni ma la sua fondamentale importanza è stata riconosciuta solo dopo la ricerca del professor Yoshinori Ohsumi, Premio Nobel per la Medicina 2016. Quali sono le conseguenze pratiche, o le porte che si potrebbero aprire, a fronte di questa scoperta?
R. La ricerca di Ohsumi costitutisce la base di tutto ciò che noi conosciamo sull’autofagia: non esiste un Nobel più meritato di questo. Lavorando sul lievito di birra lui è stato il primo a individuare i geni responsabili del processo, ed ha formato due discepoli - Noboru Mizushima e Tamotsu Yoshimori - che hanno continuato a individuare nuovi geni e i corrispondenti geni nei mammiferi, nell’uomo precedentemente individuati da Ohsumi nel lievito di birra, e questo ha fatto sì che questi geni, oggi più di 35, potessero essere mutati, studiati, individuati. Tutto ciò che sappiamo sull’autofagia lo dobbiamo a Ohsumi e al suo gruppo. La conseguenza del Premio Nobel è dare nuovo risalto a questo processo cellulare e spero che inviti più persone, più medici, più scienziati, ad affrontare la ricerca. L’autofagia è l’ultimo - e forse lo resterà a lungo - processo biologico di base ad essere scoperto, è un caso unico.
D. Non se n’è mai parlato però.
R. A questo spero servi il Nobel. Finché non arriva una simile nobilitazione la ricerca sull’autofagia rimane un’attività di nicchia, mentre adesso tutti ne parlano, specialmente nella comunità scientifica. L’Accademia di Stoccolma conferisce molto spesso i Nobel a biologi di base, persone che studiano i meccanismi della vita in condizioni normali: è poi compito della medicina sfruttare queste nozioni per manipolarle, guidare l’organismo a una certa risposta, condizionarlo con un certo farmaco. Tutto dipende dalla scoperta del meccanismo: è finito il tempo in cui si scopre che un medicinale fa bene e lo si usa senza sapere qual è il meccanismo biologico alla base, prima bisogna conoscere, poi applicare. Ci impegniamo a richiedere aiuti alle «charity», ma la ricerca di base deve essere finanziata dallo Stato: su di essa bisogna investire.   
D. Cosa occorre per riportare il premio Nobel per la Medicina a uno scienziato italiano e per essere competitivi?
R. Noi rincorriamo sempre gli altri, ma abbiamo delle intelligenze fenomenali. Lo European Research Council ha assegnato dei fondi per la ricerca ai giovani più promettenti e tra i primi posti ci sono giovani italiani, ma quasi il 90 per cento di questi svolgono attività all’estero. Dare il Nobel a un italiano non è impossibile, tanti italiani bravi lavorano, in Italia il professore Andrea Ballabio grazie a Telethon ha sviluppato un suo istituto molto ben finanziato; ma se parliamo di portare il Nobel in Italia, cioè darlo a chi lavora e si è formato in Italia, è difficile perché mancano le strutture e le risorse, non c’è attenzione.
D. La chemioterapia per l’apoptosi aiuta al disfacimento di queste cellule; c’è qualcosa che aiuti a promuovere la pratica dell’autofagia?
R. Ci sono farmaci che inducono autofagia, ma da scienziato devo dire che ciò non è salutare a causa degli effetti collaterali collegati. Il più noto induttore di autofagia, il Rapamicina, che ha questo nome perché deriva da una pianta che si trova sull’isola di Pasqua, Rapa Nui, è un forte immunosoppressivo che induce autofagia. Chiaramente questo non può essere usato in modo preventivo per inibire la crescita tumorale, ma per fortuna si è visto che ci sono due condizioni in grado di indurre autofagia: una è la dieta ipoproteica e ipocalorica, nel qual caso in condizioni di basso afflusso di calorie, proteine e amminoacidi, l’autofagia fa il suo mestiere e viene spinta a mangiare le cellule per riprodurre e riciclare energia quando non c’è energia sufficiente. In questo modo, ad esempio, con una dieta mediterranea equilibrata, stimoliamo una risposta generica di autofagia che può essere anche protettiva rispetto ai tumori. Un’altra attività umana che stimola l’autofagia, scientificamente dimostrata, è costituita dall’esercizio fisico che stimola questo processo che è protettivo per l’organismo rispetto alle neurodegenerazioni e all’insorgenza dei tumori. Abbiamo detto che le cellule tumorali, una volta che il tumore si è insediato, usano l’autofagia, e quindi e bene dal punto di vista terapeutico che si consideri questo dualismo: da un lato dieta-esercizio fisico stimolano un processo protettivo delle nostre cellule sane, ma quando le nostre cellule sono malate modulazioni dell’autofagia in senso opposto sarebbero necessarie. Su questo dualismo si basano tutte le interpretazioni attuali del fenomeno dell’autofagia dal punto di vista molecolare.
D. Questo discorso è valido per tutti i tipi di tumore?
R. Non è molto chiaro; sicuramente in tutti i tumori del sistema nervoso - tumori gliali o neuroblastomi - è incerto il ruolo dell’autofagia. In letteratura sono presenti diversi casi in cui, invece, l’autofagia contribuisce alla morte cellulare, e in quel caso andrebbe spinta anziché inibita, ma stiamo parlando di condizioni ancora non chiare né conosciute.
D. Un sistema diverso definito «approccio sistemico della Biologia dello sviluppo» abbraccia nuove possibilità di cura per malattie degenerative come i tumori, il morbo di Parkinson e l’Alzheimer. In cosa consiste?
R. Immaginare, come fa la Biologia dello sviluppo, che in un determinato momento nella vita di una cellula sia presente una certa costellazione di geni attivati, di proteine attive, di regolazioni proteiche che varia in un momento rispetto a quello successivo, ci aiuta a capire che in qualsiasi patologia va inquadrato dal punto di vista cellulare il maggior numero di elementi contemporaneamente presenti all’interno del sistema affetto da malattia. In questo senso si sta sviluppando la medicina personalizzata, che si basa su tecniche derivate dalla Biologia dei sistemi, cioè la produzione di una grande quantità di dati che caratterizzano il quadro patologico di un individuo rispetto a un altro, la condizione delle cellule di un paziente rispetto a quelle di un altro che apparentemente ha la stessa malattia ma con piccole diversità, variabilità che induce allo studio di una malattia molto individuale: questo in parte è il futuro della medicina.
D. Questa dieta personalizzata di quanto può allungare la vita?
R. Non ci sono prove se non in quelle comunità di persone che sono state sottoposte, per usi e tradizioni, a un’alimentazione molto particolareggiata. Chiaramente la composizione delle loro diete è stata interpretata in varie direzioni; ci sono in Giappone molte comunità di persone che vivono molto a lungo, anche in Sardegna abbiamo popolazioni di centenari. Il buon senso ci fa pensare che l’alimentazione sia connessa alle nostre capacità di sopravvivenza e di reazione alla malattia, e che ci siano elementi che non hanno controindicazioni ed altri che possono avere conseguenze più negative.
D. Come insaccati e l’olio di palma?
R. Gli insaccati contengono modificanti chimici di cui sicuramente non conosciamo a fondo i processi metabolici; esiste una discussione aperta sull’olio di palma che non ha prove scientifiche al momento a suo discapito, c’è una percezione generale che non sia un alimento positivo per la salute, ma nessun dato lo dimostra.
D. Il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata» orienta la propria missione formativa e di ricerca su tematiche all’avanguardia: quali sono le aree di ricerca?
R. Ce ne sono tante, ed è questo il valore aggiunto di questo posto. Siamo multidisciplinari: c’è chi studia l’evoluzione, chi le piante, la dieta dal punto di vista dei vegetali, le alghe per la produzione energetica, la conservazione dell’ambiente, poi ci sono ricercatori nelle aree biomedica e della biologia cellulare e molecolare, ci sono immunologi e virologi, e c’è una parte di biostatistica e di bioinformatica molto sviluppata. Copriamo tutte le aree e ci stiamo muovendo da anni per interagire fra di noi, ma non è facile con poche risorse. Stiamo facendo una politica di reclutamento di giovani professori, non esiste nepotismo.
D. Forse la più grande conquista della medicina sono stati i vaccini, e mai come in questo periodo si assiste a un drastico calo delle vaccinazioni, anche tra gli adulti: quali sono i motivi di questa paura irrazionale? Quali potrebbero essere le conseguenze nel lungo periodo?
R. Sui vaccini io ho un’idea molto precisa: tutto nasce da una vera e propria «bufala», cioè un articolo scientifico che collegava le vaccinazioni all’autismo, che è stato ritrattato, smentito, bocciato dalla comunità scientifica e in parte anche dallo stesso autore. Nonostante questo è rimasto ed è stato diffuso su internet, e questo ha creato l’allontanamento dalle campagne di vaccinazione, ci esponiamo ad antichi pericoli che avevamo debellato. Tutto questo è da irresponsabili, è uno dei frutti più malati della globalizzazione.
D. I vaccini non prendono tutti i ceppi dell’influenza. Qual è il loro beneficio?
R. Essi si studiano nella stagione precedente, quando cominciano le epidemie influenzali nel mondo a causa della variazione climatica, e si prevede qual è, sulla base di dati statistici, l’incidenza di determinati ceppi di influenza nelle nostre popolazioni, e si fa una campagna di vaccinazione influenzale che non copre tutti i ceppi, bensì quelli con i quali sicuramente verremo a contatto. Tutte le vaccinazioni sono fatte su base statistica.
D. Lei è vaccinato?
R. Io sì. Lo sono anche i miei figli ed i miei genitori.    

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