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Stefano Di Girolamo: anche il politico deve rispettare il giuramento di ippocrate

Il professor Stefano Di Girolamo, professore ordinario di otorinolaringoiatria presso il dipartimento di Chirurgia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Stefano Di Girolamo è specialista in audiologia, otorinolaringoiatria e chirurgia cervico facciale; professore ordinario presso il dipartimento di Chirurgia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e responsabile dell’Unità operativa complessa di otorinolaringoiatria del policlinico universitario Tor Vergata. Nell’ambito dei nostri approfondimenti sulla salute, del cittadino e del sistema, facciamo, in questa intervista, una panoramica su un settore, quello dell’otorinolaringoiatria, che in realtà è poco conosciuto, e che, come nella migliore tradizione italiana, risente del poco spazio dato alla ricerca e dell’intermediazione mediatica che tende a porre l’accento sulla mala sanità (il caso dell’errore medico, la morte in un ospedale per assenza di un letto, situazioni specifiche di «delinquenza» e collusione che non possono estendersi alla categoria), ma non affronta le tematiche della buona sanità, delle esigenze del medico, dell’inadeguatezza statale a fornire risorse non politiche ma di efficienza alla salute del paziente.  
Domanda. Come ha iniziato la sua attività?
Risposta. La mia passione è ereditata da mio nonno, poi da mio padre, quindi sono il terzo otorino in successione. Mia sorella è magistrato e mio fratello dentista, quindi ero l’ultima chance per continuare la «dinastia». L’aspetto più bello di questo mestiere, e più in generale del medico, è la trasmissione della conoscenza del corpo umano arricchendola attraverso la ricerca: il sapere è lo scorrere di un fiume in cui ognuno di noi, nel mondo universitario, può fare un piccolo passo applicandosi giornalmente apportando una goccia più o meno piccola. Nel campo medico universitario la passione per la ricerca si unisce all’assistenza del malato in funzione della didattica per gli studenti prima e poi giovani medici. Quest’ultimo aspetto mi ha affascinato e contraddistinto tutto il mio percorso. Mio padre e mio nonno mi hanno fatto conoscere un mondo che ho apprezzato, ma è un modello che non esiste più a causa delle profonde mutazioni socio-economiche.
D. Com’è andata modificandosi l’importanza sociale del medico?
R. Chi insegna l’arte della medicina ai propri allievi è un padre adottivo, com’è scritto nel giuramento di Ippocrate. Con la tecnologia la medicina non ha più segreti, non ci sono più i rituali di un tempo, attraverso Internet ognuno di noi è in grado di vedere le capacità di un medico, conoscere ciò che fa, le sue pubblicazioni, le sue specializzazioni, cosa che fino a qualche anno fa era impensabile. Prima c’erano il passaparola e il ruolo istituzionale del primario, del viceprimario, del direttore di cattedra.
D. Che non sempre ottengono quei ruoli per meritocrazia.
R. Assolutamente no, in Italia siamo abituati in qualsiasi settore, però nel mondo scientifico esistono delle banche dati internazionali facilmente consultabili che documentano l’attività di ogni medico.
D. Può spiegarci cos’è l’otorinolaringoiatria?
R. È chirurgia cervico-facciale, una delle branche chirurgiche più antiche, ed è molto complessa perché unisce varie discipline: lo studio del naso, dell’orecchio, della voce, della deglutizione, della respirazione, di tutte le patologie delle vie aeree, dai tumori alla laringe alle forme più lievi quali l’acufene o la vertigine, quindi abbraccia tipologie di patologie molto diverse. Essa nasce come vera e propria esigenza: infatti, al di là della chirurgia generale, c’era questo compartimento testa-collo che era di difficile applicazione per i chirurghi, trattandosi di cavità che hanno una funzione comune, quella di far passare l’aria e di far mangiare nello stesso tempo, che quindi hanno strutture embriologiche, anatomiche e funzionali analoghe. Spesso il problema dell’orecchio deriva dal naso che non respira, oppure un problema alla gola può derivare da un’infezione ai seni paranasali: l’otorinolaringoiatria nasce per avere una visione d’insieme di questo distretto. Con l’evoluzione della superspecializzazione, anche questa disciplina è stata suddivisa pur rimanendo nella grande famiglia della otorinolaringoiatria: c’è chi si occupa di un certo tipo di chirurgia e chi della ricerca dell’orecchio interno, sono campi molto dinamici e aperti per i quali la tecnologia ha un ruolo molto favorevole nella crescita, essendo quattro organi di senso su cinque ad esservi rappresentati: udito, gusto, olfatto e indirettamente il tatto, che costituiscono la porta d’ingresso dell’ambiente dentro di noi.
D. Cos’è cambiato con la tecnologia?
R. Sono due gli aspetti fondamentali: un aspetto è sociale, l’altro è di sviluppo e supporto al malato. Il primo, grazie a  un flusso enorme di informazioni, filmati e documenti, ci consente di sapere come nel mondo viene affrontata quella patologia: non è quasi più necessario partire per andare a vedere un luminare come svolge quell’intervento. Il secondo è legato allo strumentario chirurgico e diagnostico. Si è potuta sviluppare la chirurgia endoscopica o quella robotica e nell’ambito riabilitativo esiste «l’orecchio bionico», cioè la possibilità di ridare l’udito a persone sorde sostituendo l’orecchio interno con un apparecchio cocleare che stimola direttamente il nervo. Questo consente di inviare le informazioni sonore saltando l’orecchio interno dove è presente la patologia. Abbiamo ora la possibilità di prendere bambini nati sordi e dar loro una vita normale sia come competenze uditive e linguistiche, che nello sviluppo cognitivo.
D. Che differenza c’è tra l’operare una persona adulta o anziana e un bambino?
R. Nella sanità dobbiamo fare i conti con un nuovo aspetto: l’economia sanitaria. Un impianto cocleare ha un costo; se l’aspettativa di vita di quella persona è di 50 anni, quel costo viene assorbito in 50 anni. Se una persona ha 80 anni ha un’aspettativa di vita ridotta come l’investimento sanitario coinvolto; inoltre, il fatto che la plasticità di un bambino è notevolmente maggiore e il suo cervello si può adattare a un apparecchio rende più semplice tale operazione.
D. Se un bambino nasce sordo può recuperare l’udito?
R. Assolutamente sì, soprattutto se lo operiamo entro i tre anni proprio perché il cervello in quell’età si sta sviluppando e deve essere stimolato nel modo giusto: lo stimolo sonoro lo fa, per l’appunto, sviluppare. Non solo potrà sentire i suoni ma li potrà elaborare e ripeterli: potrà parlare.
D. In cosa consiste questo tipo di intervento?
R. Si mette un elettrodo nell’orecchio interno che non funziona più, ed esso porta il segnale del suono trasformato in impulso elettrico lungo il nervo, che poi va al cervello; questo segnale sarà specifico per frequenza e intensità.
D. Questo impianto dura tutta la vita o va cambiato?
R. La parte interna, l’elettrodo, dura per sempre, tranne per guasti che possono incorrere; la parte esterna negli anni può essere modificata.
D. È invisibile?
R. No: la parte interna è invisibile, mentre nella parte esterna c’è un apparecchio che si attacca con un magnete alla parte interna e che si vede, anche se non molto; ma ci sono vari modelli.
D. Cosa fanno i genitori?
R. Per una coppia di genitori sordomuti, aventi una cultura che ha i propri valori e la propria filosofia, l’idea che il figlio non possa sentire non rappresenta una cosa grave. È ovvio che questo discorso può essere considerato anomalo da chi lo vede dal di fuori: per queste persone la sordità è normale, per la società non lo è. Quindi il fatto che una coppia di sordomuti abbia il figlio che senta perfettamente può portare alle prime discussioni adolescenziali del giovane, l’idea che possa considerare i genitori meno «abili».
D. Perché se si è muti si è anche sordi, e viceversa?
R. Perché la possibilità di sviluppare un linguaggio è secondaria all’ascolto delle parole: se non si sentono le parole non si può imparare. È questo il motivo per cui le persone parzialmente sorde emettono dei suoni gutturali, non avendo l’orecchio funzionante percepiscono solo le vibrazioni del suono a livello propriocettivo.
D. Per quale motivo prima si toglievano le adenoidi e le tonsille? Che ruolo hanno nel nostro organismo?
R. Il problema era di due tipi: il primo è che non c’erano degli antibiotici efficaci e quindi le infezioni potevano essere veramente pericolose, e per questo si toglievano le tonsille appena si ammalavano. Per quanto riguarda le adenoidi, esse possono facilitare le infezioni delle orecchie perché l’orecchio respira attraverso il naso. Un bambino a cui sono tolte adenoidi e tonsille tendenzialmente può avere un beneficio sull’accrescimento, e su questo ci sono varie teorie, ma adesso è cambiato anche l’approccio mentale da parte dei pediatri che gestiscono maggiormente i bambini con questi problemi, perché ci sono tanti farmaci a disposizione che possono aiutare il bambino a superare quella fase di crescita legata al fatto che il tessuto linfatico, essendo immunocompetente e cioè produttore di anticorpi, in un periodo della vita tra i 4 e gli 8 anni ha un accrescimento volumetrico enorme rispetto alla testa e quindi la sproporzione tra tessuto linfatico e dimensioni craniche del bambino fa sì che si crei un ostruzione che può favorire le infezioni, e appunto in quest’ottica si levava il tessuto che dava ostruzione.
D. Adesso non si tolgono più perché è stato trovato l’antibiotico, o per quale  altra ragione?
R. Innanzitutto si sono conosciute meglio la fisiologia e la fisiopatologia delle vie aeree, si riesce quindi a identificare la patologia ostruttiva legata alle dimensioni di questo tessuto, e di conseguenza si può trattare prima che esso diventi patologico. Ma ancora oggi ci sono indicazioni chirurgiche quando l’antibiotico non dovesse funzionare, oppure se vi fossero delle apnee non risolvibili con la terapia medica. Si sa di più e si riesce a ritagliare un trattamento più specifico, per ciò le forme chirurgiche si sono ridotte, sebbene siano ancora necessarie.
D. È vero che il non sentire favorisce l’Alzheimer e la demenza?
R. Ci sono molti studi che hanno dimostrato come un’ipoacusia faciliti l’insorgenze di deficit cognitivi, ciò è legato al fatto che il nostro cervello utilizza l’udito come attività di base cerebrale, di conseguenza sentire suoni attiva e mantiene in allenamento le aree cerebrali e le capacità cognitive.
D. A che punto è arrivata oggi la chirurgia?
R. L’otorinolaringoiatria è una branca vasta che comprende tutto il trattamento dei tumori della testa e del collo, per la parte oncologica. Esiste anche una chirurgia funzionale che previene o cura patologie legate a un’anatomia alterata. Per esempio alle volte può essere utile operare il naso per far funzionare l’orecchio. È una chirurgia che si è molto raffinata negli anni grazie alla tecnologia. Essendo cavità molto strette la tecnologia nel bilancio di un intervento ci ha dato l’opportunità di ridurre i costi e aumentare i benefici come mininvasività, durata ospedalizzazione, morbidità intra e post operatoria.
D. La ricerca esiste in Italia?
R. La ricerca ormai non è più una ricerca di disciplina, ed essa, in un campo specialistico come il nostro, si avvale comunque della ricerca di base. Da una parte è vero che abbiamo delle difficoltà di quest’ultima e ci sono delle vere e proprie «sirene» dall’estero, proprio perché la ricerca è molto più apprezzata e stimolata; dall’altra in Italia, nell’ambito dell’otorinolaringoiatria, siamo stati dei punti di riferimento e lo siamo tutt’ora per alcune discipline della chirurgia. A tutt’oggi la capacità individuale dell’italiano è molto elevata, e tutto questo avviene, a mio parere, perché le difficoltà che abbiamo in Italia nel crescere ci ha reso capaci di gestire al meglio le nostre risorse e di raffinare la nostra capacità cercando delle soluzioni che poi applichiamo nel campo clinico. Ciò ci consente di avere dei risultati brillanti.
D. È contrario alla specializzazione?
R. Il problema della superspecializzazione è che ogni patologia può avere approcci differenti, e se io conosco solo un approccio tenderò ad utilizzare sempre quello; ogni paziente potrebbe avere benefici diversi da approcci diversi, ma se l’otorino conosce una sola strada, prenderà sempre e solo quella, forse tralasciando la strada migliore per il paziente. La superspecializzazione va benissimo, però deve essere sempre in équipe e formata da un scuola in cui ci sia qualcuno che abbia una visione più ampia per esperienza e per età e che aiuta tutti gli studenti e i giovani medici a crescere.
D. Che cosa manca oggi a questa disciplina? Lei cosa vorrebbe avere oggi a disposizione e cosa vede che manca quando opera?
R. Il vero problema dell’università e di un policlinico universitario è che oggi devono sottostare a regole strette di bilancio; questo è un contrasto. Torna il problema dell’investimento nella ricerca. Ma poi c’è anche l’aspetto formativo: se ho poche risorse, ho poche possibilità di investire sui giovani. Come docente universitario è questa la cosa che più mi preoccupa, la crescita dello specializzando come nuovo chirurgo del futuro; come ricercatore, mi preoccupa invece la mancanza di mezzi economici e il fatto di far entrare le industrie nell’università, ciò si è rivelato difficile perché è ovvio che un’industria che investe in un settore e finanzia le ricerche inevitabilmente tenderà a condizionare la ricerca, e l’università, che è un ente libero, questo lo accetta poco.
D. Come si comporta il Ministero della Salute?
R. Fa un gran lavoro con le risorse che ha. A parer mio la nostra sanità è la migliore del mondo come qualità di medici e prestazioni, ed è gratuita. Continuiamo a mandare i medici su tutti i giornali perché un paziente sta nel pronto soccorso 48 ore, ma la colpa non è del medico se hanno tolto i letti in reparto. Questo è più un discorso di una mancanza di organizzazione, nonché un discorso molto politico di facili promesse.
D. Ci sono differenze tra pubblico e privato?
R. Lavoro sia nel pubblico che nel privato e posso garantire che nelle strutture pubbliche ci sono le migliori apparecchiature e le migliori strumentazioni. Il problema è che a volte l’accesso a queste risorse è condizionato, per esempio, dal turno di notte del guardiano che non consente l’accesso di notte e che non dà delle turnazioni per meccanismi sindacali che lo impediscono. È proprio qui che io parlo di organizzazione: gli investimenti nella sanità ci sono, il problema è come vengono impiegati. Prima a un direttore di reparto l’aspetto economico non interessava, invece oggi, a parità di prestazione che offriamo al paziente, cerchiamo sempre di risparmiare, e questo è un obbligo anche morale perché, se si risparmia su ogni paziente, si hanno più risorse per operarne un altro, ma così facendo non si va incontro a quelle che sono invece le organizzazioni strutturali di un policlinico, che spesso ha a capo figure che non hanno questo interesse perché svolgono lì in un ruolo politico, per rispondere ad esigenze che non sono quelle dei medici.
D. Come si fa a risolvere questo problema?
R. È un discorso etico e di capacità. Si risolverebbe selezionando persone che hanno capacità migliori in quel settore. Non tutti siamo nati per fare tutto, c’è chi ha caratteristiche migliori sul tavolo operatorio, chi le ha a livello di ricerca, chi in fase diagnostica, chi nel gestire l’aspetto contabile, e la capacità di chi organizza deve tener conto di questo per ottimizzare i risultati. Non ci dimentichiamo che la sanità è un servizio e non potrà mai andare in attivo nel pubblico, è una prestazione che il paziente non paga, a differenza del sistema privatistico, e l’assistenza sanitaria deve essere completa per ogni patologia indipendentemente dalla spesa che in quel momento il paziente rappresenta per lo Stato.
D. Che ne pensa dei ticket?
R. I ticket sono il risultato di un abuso negli anni; si tornava dalle farmacia con le buste piene di medicine che venivano regolarmente buttate, perché era interesse delle case farmaceutiche, più medicine si avevano in casa più ci si sentiva tranquilli, e non si percepiva il senso etico e morale dello spreco, tanto pagava lo Stato e non c’era la percezione che lo spreco lo paghiamo tutti noi in termini di qualità e quantità dei servizi sanitari.
D. Se lei fosse Ministro della Sanità cosa cambierebbe?
R. Sicuramente darei più ascolto alla classe medica: troppo spesso si fanno dei finti risparmi perché non si conosce a fondo la patologia. Inoltre serve fare prevenzione in modo da risparmiare per il futuro, è questo il vero discorso di reale economia sanitaria.
D. Tra le varie discipline qual’è la più costosa?
R. La cardiochirurgia e i trapianti hanno i costi maggiori.
D. I trapianti nel suo settore non esistono?
R. No, l’unico trapianto che si è tentato è quello della laringe per evitare la chirurgia demolitiva, ma non è andato in porto perché la laringe ha troppe funzioni per poter essere sostituita. Credo che in futuro la chirurgia demolitiva oncologica è destinata nei decenni a scomparire, sarà molto più efficace una chirurgia biologica mirata.
D. La percentuale dei tumori è alta nel suo settore?
R. Nel tumore del cavo orale o delle vie aeree può raggiungere un incidenza di circa il 3 per cento.
D. Lei vede attinenza tra filosofia e medicina?
R. Moltissima, anche perché, come dicevano gli antichi, la filosofia è l’arte di vivere bene, e la salute è il primo bene che possediamo.
D. È favorevole alla «medicina difensiva»?
R. Se risparmiassimo sulla medicina difensiva avremmo un terzo di possibilità di curare in più le persone risparmiando il 30 per cento delle spese sanitarie. La medicina difensiva nasce perché il medico ha paura del paziente che a sua volta ha paura del medico, è un circolo vizioso in cui ci guadagnano gli avvocati, tutti fuorché il paziente e il medico.
D. Vuole lanciare un ultimo messaggio?
R. Di fronte a un medico delinquente ci sono 99 medici che danno la vita per la medicina. Fa notizia il caso che va male, e non i 99 che vanno bene. E noi ne risentiamo.     

Tags: Novembre 2016 Anna Maria Branca

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