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Fabrizio Russo: una galleria che accende i riflettori sullo stato dell’arte in Italia

Fabrizio Russo, proprietario  della Galleria Russo a Roma

È in via del Babuino la prima sede della Galleria Russo, aperta nel 1898 dal bisnonno dell’attuale titolare Fabrizio Russo, che oggi gestisce l’attività di famiglia dopo quattro generazioni e molte sedi romane - tra di esse, fino al 1980, la galleria La Barcaccia di piazza di Spagna e Lo Scalino di via Capo le Case - oltreché italiane. Il riferimento artistico è la pittura italiana del XX secolo, non mancando però il grande Ottocento e un crescente interesse verso i giovani artisti contemporanei. La Galleria inoltre gestisce il fondo-archivio Duilio Cambellotti e quello di artisti quali Giovanni Stradone e Amerigo Bartoli, artisti della scuola romana, o vicini ad essa, degli anni Venti e Trenta.
Domanda. Da quanto si trova nella galleria di famiglia e cosa ha visto?
Risposta. La galleria è giunta alla quarta generazione. Personalmente ho cominciato a lavorare nel 1984, ancora giovanissimo. Ci siamo sempre occupati di Novecento storico, soprattutto italiano, e abbiamo avuto contratti di un certo spessore a cominciare da quello in esclusiva con Giorgio De Chirico dal 1946 al 1968, e continuo su questo sentiero di promozione del Novecento italiano. Dal 2000 mi occupo anche di arte contemporanea che però rimane ancorata saldamente agli stilemi del Novecento: non condivido molto fughe in avanti troppo precipitose.
D. Come mai?
R. Se sfogliamo i cataloghi dell’emeroteca nazionale degli anni Sessanta e Settanta si noterà che le proposte di allora, veramente di rottura, sono analoghe alle opere che oggi vengono spacciate per contemporanee. Questo vale anche per la Biennale dove vado ormai da almeno dieci edizioni: le proposte sono sempre le stesse ma con nomi diversi. Questo non significa che sia tutto «ciarpame», però ritengo oggi si stia seguendo una proposta un po’ esagerata che strizza l’occhio alla provocazione e all’emozionalità, ma che ha perso completamente di vista altri elementi molto importanti.
D. E questo perdere di vista come si può recuperare?
R. Ho vissuto periodi nelle quali nelle varie fiere nazionali e internazionali di riferimento più importanti vi erano ondate speculative su alcuni artisti, poi fatalmente finite, e tali artisti sono tramontati. Oggi non è cambiato nulla, solo che - e qui entriamo un pochino nello specchio del mercato - prima queste operazioni erano gestite solo dalle gallerie e da colleghi. Personalmente non mi sono mai prestato a queste cose perché, per me, l’acquisto in arte non è un investimento ma è un bonus salvadanaio, all’incipit dell’acquisizione non deve esserci la speculazione economica: è assolutamente fuorviante parlare di investimento per ciò che dovrebbe essere decantato per la cultura di un popolo. Poi, se nel corso degli anni l’acquisizione è stata oculata, non solo sarà un buon salvadanaio ma anche un buon investimento e una speculazione economica, ma in principio non deve essere così. Oggi ci sono altri protagonisti più o meno occulti fuori del mercato che con alcuni operatori inseriti gestiscono queste operazioni. Basta fare delle analisi sull’incremento dei prezzi nella valutazione di alcuni artisti per il numero delle opere che sono state proposte nel mercato: c’è qualcosa che non torna. Ricordo che tempo fa l’incremento economico delle opere di un’artista era riconosciuto a seguito di un importante mostra, oggi invece è solamente dettato dalle aggiudicazioni nelle aste che possono essere facilmente gestibili.
D. Qual è quindi la sua politica nella gestione della galleria?
R. Una politica di attenzione alle proposte del mercato, di affiancamento al cliente non solo nel momento in cui in galleria fa un’acquisizione ma anche nel tempo e di prudenza nella proposta. Non seguiamo le mode perché passano, qui seguiamo solamente e unicamente il fascino e il curriculum vitae dell’artista, l’imprinting che ha dato nel corso dei decenni; fatalmente devo rimettermi anche alle aggiudicazioni economiche a ribasso, sebbene in questo momento comincio a leggere di un’inversione di tendenza inevitabile, e quindi di una maggiore attenzione per il Novecento rispetto a questa «full immersion» nel contemporaneo che ritengo esagerata. Il fascino del Novecento italiano, che in realtà è colossale, all’estero non viene percepito semplicemente per una ragione normativa. Devo riconoscere che in una maniera nobile e positiva il ministro Dario Franceschini sta cercando di rivedere una norma sacrosanta, quale ritengo essere la legge Bottai del 1939 di tutela dei beni artistici: si rifaceva a delle opere che avevano più di 50 anni e comprendeva quindi la fine dell’Ottocento, pertanto al giorno d’oggi un’opera di Mario Schifano o di Tano Festa è soggetta a una potenziale notifica, quindi è tutto da rivedere. Si vocifera di una revisione a 75 anni, sarebbe stato meglio a 100, anche perché ricordiamoci che la legge Bottai era una legge che incideva sugli artisti che non erano sufficientemente rappresentati nei musei italiani, i quali invece ora sono pieni delle opere di tutti i grandi protagonisti del Novecento italiano e quindi esse, a maggior ragione, dovrebbero poter avere diffusione all’estero. Non solo non possono essere acquistati da grandi musei ma non possono neanche essere portati fuori alle fiere internazionali, se non con artifici che io non condivido. Detto ciò si capisce che se ci fosse una revisione saggia nei confronti delle opere eseguite dal 1905 fino a oggi, quindi non 75 ma 100 anni, anche i collezionisti stranieri entrerebbero in competizione. Ad esempio, un’opera di Balla del 1913 in Italia potrebbe realizzare una cifra intorno a un milione di euro mentre negli Stati Uniti, due anni fa, un’opera analoga ha fatto oltre 10 milioni di dollari: nel caso di revisione, tutto avrebbe uno slancio e le opere dei nostri musei avrebbero una rivalutazione spaventosa.
D. Lei è fiducioso che ciò, prima o poi, possa avvenire?
R. Non lo sono perché, anche con le buone intenzioni del ministro, viviamo in un Paese nel quale si fa un passo avanti e due indietro, però almeno il sasso nello stagno è stato lanciato e mi auguro che si abbia la saggezza di «andare a dama» in un settore veramente delicato ma importante e fondamentale per il futuro. Lo dico anche per il mercato che oggi è in grande flessione, anche per via di un sommerso disastroso: consideriamo che il 25-30 per cento delle operazioni in Italia è concluso da operatori privati che non offrono alcun tipo di garanzia. Oltre a ciò, una revisione della normativa sulle archiviazioni ormai dovrebbe essere inevitabile perché la legge Pieraccini del 1971 è molto vecchia. Bisognerebbe rendere obbligatorio aggiornare ogni 5 anni un repertorio di quello che si archivia nell’arco temporale di riferimento, in questa maniera si tutelerebbe l’archivio, che sarebbe garantito, e si entrerebbe in un calcolo statistico e non più in un giudizio soggettivo: ad esempio, se di un’artista che è morto negli anni Cinquanta è uscito un catalogo generale negli anni Novanta, è fisiologico che escano 10 inediti l’anno, ma se ne escono 100 c’è qualcosa che non va. Perché Fontana costa così tanto? Per diversi motivi: non ricade nel blocco della notifica avendo meno di 50 anni, c’è una fondazione che lavora in maniera corretta ed esiste un catalogo generale significativo; lo stesso dicasi di Morandi, che però adesso sta soffrendo del blocco internazionale. Quando esistono una fondazione e un archivio che lavorano in maniera seria, il mercato internazionale premia l’artista, ma si allontana quando invece non funzionano. Oggi il mercato italiano non ha il peso specifico di una volta, ma mi auguro che almeno sul Novecento si accendano i riflettori.
D. E per quanto riguarda l’arte contemporanea?
R. Gli artisti giovani contemporanei non riescono a raggiungere queste cifre; noi avremo 8 giovani in grado di fare dai 7 ai 20 mila euro con opere però di grandi dimensioni. Se avessi la possibilità di portare a Londra questi stessi artisti, farei certamente di più. Però ci sono episodi che mi lasciano perplesso laddove ci sono stati degli incrementi di valore inconcepibili: non è possibile che un’opera di un artista che 5 anni fa era pressoché sconosciuto adesso abbia moltiplicato il valore in modo esponenziale, sono mere speculazioni economiche. Si rastrellano tutte le opere dell’artista in questione, si fa un accordo con personaggi che operano nel settore e lo si porta su, ci si mette d’accordo con direttori di musei, case d’asta, operatori con forti accentramenti economici, gallerie di un certo spessore, e il gioco è fatto. Non si hanno problemi di notifica e quindi c’è libera circolazione.
D. Che ci dice sulla vostra attività all’estero?
R. Abbiamo una sede a Istanbul che sta andando abbastanza bene nonostante il momento storico che mi auguro passi. La Turchia ha molti punti di contatto con l’Italia degli anni Settanta: grande circolazione di denaro, aumento del debito pubblico, svalutazione della lira turca: questi sono tutti parametri che conosciamo bene, e lo sono persino i tragici attentati. Ci sono stereotipi che descrivono il cittadino mediorientale come arretrato, invece è ricco, colto, la top classe turca è in gran parte laica e distante dal Governo in carica. Contemporary Istanbul, fiera internazionale di spessore, conta 90 mila visitatori in 4 giorni di durata; a Bologna con ArteFiera arrivare a 50 mila è già un successo.
D. Traete beneficio dalle partecipazioni a fiere straniere?
R. Siamo stati a Londra e a Parigi. Assolutamente sì, sia d’immagine che di profitti.
D. Cosa presentate nella Galleria a Istanbul?
R. A Istanbul portiamo i contemporanei proprio in virtù del fatto che non abbiamo una rete che ci supporti internazionalmente e che faccia conoscere gli artisti italiani, parlo proprio come sistema Italia. Ho collaborato in maniera determinante a realizzare una bellissima mostra su De Chirico nel mese di febbraio al Museo Pera con 80 opere, che sta andando benissimo, ma dubito ci sarei riuscito se non ci fosse stata la scintilla di un privato e l’interessamento personale della fondazione De Chirico e del direttore del museo, che ha inoltre stanziato più di 400 mila euro. In Italia è il contrario: bisogna coprire tutte le spese, infatti per la mostra di Mario Sironi a Villa Torlonia a Roma, dell’ottobre scorso, ho dovuto farmi carico dei costi completi, dalla ritinteggiatura del museo alla vigilanza fino ai cataloghi: una cosa desolante. E non parliamo per far uscire dall’Italia queste 80 opere di De Chirico, se non ci fosse stata l’Ambasciata italiana che si assumeva il rischio di problematiche formali e burocratiche, le opere non sarebbero partite. Devo però dire che con le nuove nomine che il ministro ha fatto nei grandi musei un segnale di spolverare vecchi ingranaggi c’è stato.
D. Nomine molto criticate...
R. Non da tutti mi creda, fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. L’esempio più banale è che abbiamo i depositi e i magazzini dei beni culturali del Ministero colmi di opere d’arte e i direttori dei vari musei devono inventarsi stratagemmi per fare una certa turnazione, anche se il 30-40 per cento di queste opere sono minori e stanno lì e giacciono. Avendo questa quantità enorme di depositi, vogliamo venderli all’incanto pubblico per poter poi ricomprare eventualmente quelle opere che vengono chieste per esportazione? Alla richiesta dell’esportazione di un capolavoro, oggi il ministero si limita a bloccarlo; un tempo invece si bloccava e si comprava. Allora liberiamoci di quello che non ci serve e ricompriamo le opere che i mercanti in una revisione della normativa probabilmente vorranno portar fuori, tutto alla luce del sole, diffondendo la cultura italiana nel mondo.
D. Il bene non perderebbe di valore all’incanto pubblico?
R. Io sostengo che il reale prezzo dell’opera non sia né mille né 10 mila, ma in realtà sia quello deciso dal cliente nel momento in cui firma l’assegno ed io accetto; quando un’anfora romana o un sarcofago etrusco sono messi all’incanto pubblico, il prezzo sarà quello dell’aggiudicatario. Anzi, ci vorrebbe una deroga per portare questi beni all’estero in modo tale da raggiungere cifre significative, anche perché qualsiasi museo al mondo vende le proprie opere quando non sono più strategiche: perché non dovremmo farlo noi per rimettere in moto il sistema? Rimarremo sempre indietro senza una strategia a tutto tondo che faccia sì che sovrintendenze, ministero e direttori di musei siano un organo unico e siano messi nella condizione di poter operare liberamente come una cellula museale produttiva. Ci culliamo con l’idea di essere il Paese che possiede il 60 per cento di beni culturali nel mondo ma non è così; oltretutto se così fosse dovremmo essere di gran lunga il Paese con il maggior afflusso turistico.
D. Per quanto riguarda il mercato asiatico invece?
R. Stiamo lavorando in questo momento sul mercato mediorientale; l’intenzione è di portarlo a frutto cercando di consolidarlo, ma devo dire che al momento il mercato asiatico è lontano, anche se è molto importante.
D. Un’ultima notazione?
R. La prima metà del Novecento italiano è scesa del 50-60 per cento di valore rispetto 5 anni fa mentre gli omologhi artisti internazionali valgono 5-6 volte di più; a mio avviso c’è comunque un grandissimo spazio di crescita, fermo restando che l’aspetto normativo non ci supporta.   

Tags: Maggio 2016 arte Giosetta Ciuffa

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