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Federico Barilli: Italia Startup, luogo di aggregazione per innovare, investire, ripartire

Federico Barilli, segretario Generale di Italia Startup

C'è un’associazione in Italia che dichiaratamente «riunisce tutti coloro che credono profondamente nel rilancio del nostro Paese». Italia Startup è formata da «imprenditori, investitori, industriali, startupper, enti e aziende che vogliono dare il proprio contributo al processo di cambiamento economico e sociale che l’Italia sta affrontando». Fondata nel 2012, l’associazione è una piattaforma indipendente e collettiva dove raccogliere i pensieri, i progetti e le strategie «per dare vita anche nel nostro Paese a un ecosistema imprenditoriale competitivo, capace di accogliere e alimentare l’innovazione».
Sono cinque le aree d’azione: la prima  consiste in una «mappatura dell’innovazione» e consente di individuare la geografia dell’innovazione italiana per valorizzare imprese, startup, acceleratori e centri di innovazione presenti nel territorio, dando la possibilità di conoscere queste realtà per i servizi effettivi che possono offrire. La seconda si occupa dei rapporti istituzionali, rappresentando l’Italia del cambiamento e l’ecosistema delle nuove imprese innovative di fronte alle istituzioni, mantenendo un canale di dialogo aperto tra chi sta provando a fare impresa e i decisori pubblici con l’obiettivo di avere un quadro legislativo semplificato, favorevole alle startup e a chi vuole investirvi. Una terza area, di importanza crescente, si occupa delle sinergie tra startup e industria, favorendo l’incontro virtuoso tra questi due soggetti, nella logica dell’«open innovation». La quarta è relativa all’internazionalizzazione con l’obiettivo di far conoscere l’ecosistema italiano startup fuori dai confini nazionali e di aprire opportunità di investimento per stakeholders internazionali, siano essi investitori o imprese. La quinta è quella degli eventi e della comunicazione, cui è connessa anche la formazione, nella quale l’associazione promuove occasioni di incontro e confronto sui temi più significativi connessi allo sviluppo della nuova imprenditorialità. Il sito, la comunicazione attraverso i social media, le attività dell’ufficio stampa e gli incontri informativo-formativi, sono strumenti importanti per dare visibilità alle startup e all’aziende associate e all’intero ecosistema dell’innovazione.
«Startup» significa impresa innovativa, precisamente una società di capitali costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano oppure societas europea, le cui azioni o quote non sono quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione. Recentemente e per la prima volta nell’ordinamento italiano essa è stata definita formalmente e ne sono stati previsti i requisiti per la registrazione «dedicata» presso il registro delle imprese. È anche stata creata la figura dell’«incubatore certificato» di startup innovative, definito come una società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano o di una societas europea, residente in Italia, che offre servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo di startup innovative ed è in possesso di precisi requisiti.
Il decreto legge n. 179 del 18 ottobre 2012, convertito con modifiche dalla legge n. 221 del 17 dicembre 2012, ha recato «ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese» e introdotto un quadro di riferimento organico per favorire la nascita e la crescita di nuove imprese innovative. La normativa è stata successivamente modificata dal decreto legge n. 76 del 2013 in vigore dal 28 giugno 2013 e dal decreto legge n. 3 del 2015 convertito in legge n. 33 in vigore dal 26 marzo.
Una società per essere definita startup deve possedere non pochi requisiti, che sono ben definiti: la maggioranza del capitale sociale e dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria deve essere detenuto da persone fisiche al momento della costituzione e per i successivi 24 mesi; la società deve essere costituita e operare da non più di 60 mesi; essa deve essere residente in Italia o in uno degli stati membri dell’Unione europea o in Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo, purché abbia una sede produttiva o una filiale in Italia; il totale del valore della produzione annua, a partire dal secondo anno di attività, non deve superare i 5 milioni di euro; non deve distribuire o aver distribuito utili; deve avere quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico; non deve essere stata costituita per effetto di una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda. Inoltre, la startup deve sostenere spese in ricerca e sviluppo in misura pari o superiore al 20 per cento del maggiore importo tra il costo e il valore della produzione; impiegare personale altamente qualificato per almeno un terzo della propria forza lavoro ovvero in percentuale uguale o superiore a due terzi della forza lavoro complessiva di personale in possesso di laurea magistrale; essere titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale relativa ad una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una varietà vegetale ovvero sia titolare dei diritti relativi ad un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali privative siano direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività di impresa.
L’incubatore non è da meno in fatto di requisiti: per essere certificato esso deve disporre di strutture, anche immobiliari, adeguate ad accogliere startup innovative, quali spazi riservati per poter installare attrezzature di prova, test, verifica o ricerca; deve avere attrezzature adeguate all’attività delle startup quali sistemi di accesso in banda ultralarga alla rete internet, sale riunioni, macchinari per test, prove o prototipi; deve essere amministrato o diretto da persone di riconosciuta competenza in materia di impresa e innovazione e avere a disposizione una struttura tecnica e di consulenza manageriale permanente; ha regolari rapporti di collaborazione con università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari che svolgono attività e progetti collegati a startup innovative; ha adeguata e comprovata esperienza nell’attività di sostegno a startup innovative.
È stata istituita un’apposita sezione del Registro delle imprese con l’iscrizione obbligatoria per le startup innovative e gli incubatori certificati al fine di poter usufruire dei benefici introdotti dalla normativa e nel contempo garantire la massima pubblicità e trasparenza.
Federico Barilli, segretario Generale di Italia Startup, fa il punto.

Domanda. Prima con il Governo Letta, ora con il Governo Renzi, sembrerebbe essersi intrapreso un nuovo corso per quanto riguarda le startup: accertato questo interesse dello Stato, è soddisfatto di quello che si sta facendo?
Risposta. In realtà la vera genesi dei provvedimenti sulle startup risale al Governo Monti e al Ministro per lo Sviluppo Economico Corrado Passera, che nella primavera del 2012 ha promosso una doppia iniziativa. In primis ha creato una task force coordinata da Alessandro Fusacchia, che ha elaborato il volume «Restart Italia» (presentato a fine estate del 2012) da cui è scaturita la cosiddetta legge «Crescita 2.0», a dicembre del 2012: per la prima volta all’interno di una legge italiana si parla di startup e da allora la normativa si è sviluppata secondo i successivi regolamenti attuativi e ulteriori integrazioni legislative, che hanno portato effettivamente numerosi risultati interessanti e importanti, quali mai si erano visti nel nostro Paese. In secondo luogo ha voluto la nascita di Italia Startup, Associazione no profit chiamata a rappresentare questo ecosistema che aiuta lo sviluppo di nuove imprese innovative ad alto potenziale di crescita.

D. Tale evoluzione normativa cosa ha comportato?
R. La prima cosa è che, grazie al registro dedicato, abbiamo la possibilità, tutte le settimane, di vedere come cresce il numero delle startup innovative italiane. In media, negli ultimi mesi, si iscrivono al registro più di 150 startup innovative al mese, cioè più di 5 al giorno: quindi c’è un fenomeno importante di sviluppo dal basso, favorito e supportato dalla normativa. Un secondo paletto significativo è quello che riguarda gli sgravi fiscali per chi investe in startup innovative, non tanto quelli delle imprese, i cui benefici sono limitati, quanto quelli relativi alle persone fisiche, la cui detrazione è pari al 19 per cento. Per parlare di numeri concreti, il privato che investe 500 mila euro in una startup innovativa iscritta al registro dedicato (è il tetto previsto) può detrarre il 19 per cento nella dichiarazione dell’anno successivo, per un importo pari a quasi 100 mila euro. Per imprenditori o singoli investitori che hanno un portafoglio consistente, si tratta di un’agevolazione molto interessante, che giustifica l’investimento stesso, per quanto a rischio, avendo anche una connotazione sociale, in quanto si offre un’opportunità di lavoro, soprattutto, ma non solo, ai giovani. La legge è andata in attuazione nel 2014, pertanto il 2015 è il primo anno in cui sarà possibile verificare l’effettivo impatto di questa normativa nella dichiarazione dei redditi degli italiani.

D. Data la rischiosità nell’apertura di una startup innovativa, come si fa fronte ai problemi dell’accesso al credito?
R. Un altro provvedimento che sta dando risultati molto interessanti è quello legato al fondo di garanzia. I prestiti bancari alle startup innovative sono supportati dal fondo di garanzia statale che copre fino all’80 per cento del prestito a debito: se la banca presta 100 mila euro a una startup iscritta al registro dedicato, può attingere al fondo di garanzia fino a una somma di 80 mila euro, coprendo solo il 20 per cento di rischio. Sappiamo infatti che le startup sono soggetti a rischio e questo strumento agevola il prestito bancario, consentendo agli istituti bancari di entrare in contatto con il mondo delle imprese innovative, in logica duratura. A febbraio 2015, a 18 mesi dall’entrata in vigore del provvedimento, le banche hanno erogato un totale di quasi 150 milioni di euro, con oltre 300 startup beneficiate. Le banche sono sempre molto caute negli investimenti ad alto rischio come quelli in startup. Ora esse non solo cominciano a guardare al fenomeno delle startup innovative in maniera seria, ma alcune mettono in campo anche investimenti «convertibili», ossia prestiti che si convertono in equity, cioè in partecipazione azionaria delle startup stesse. È un salto culturale significativo che dice quanto il fenomeno stia diventando maturo.

D. Dunque una normativa che giudica positiva. Alcune perplessità?
R. Il giudizio complessivo che noi diamo sulla normativa è buono: la perplessità principale riguarda lo sviluppo dell’«equity crowdfunding», una forma di finanziamento che dà accesso al capitale di rischio, tramite portali dedicati, al singolo risparmiatore, con importi anche modesti. A una normativa troppo rigida si aggiunge una mancanza di cultura diffusa dello strumento. È necessario operare per dare semplificazione alla normativa oltre che attivare una campagna di divulgazione sulle potenzialità di questo canale di investimento, accessibile a tutti i risparmiatori, in modo che possano partecipare a progetti e investimenti imprenditoriali, con impatti anche sociali, grazie alle opportunità di nuovo lavoro qualificato che si creano.

D. Su cosa crede si debba puntare?
R. La cosa sulla quale bisogna giocare il massimo degli sforzi e su cui la nostra associazione sta sviluppando progetti mirati è il coinvolgimento dei privati, soprattutto delle imprese consolidate, nell’investimento in startup innovative. Nel caso delle imprese l’investimento deve essere auspicabilmente industriale e non solo finanziario o, peggio ancora, di solo marketing. La logica è quella del Corporate Venture o dell’Open Innovation. Cioè investire in startup innovative, di prodotto e di processo, portando innovazione nei propri processi e nei propri prodotti industriali. Alcune realtà industriali italiane lo stanno già facendo e questo consente un ulteriore maturazione del nostro ecosistema, il quale è invitato a operare in logica cosiddetta «business to business» proponendo soluzioni che siano di interesse specifico per le industrie italiane e mondiali, nei diversi settori merceologici.

D. Come è composta Italia Startup?
R. Abbiamo una base associativa molto eterogenea che ci connota come una filiera industriale se non una vera e propria industria. In primis ci sono le startup, soggetti che per definizione sono destinate a evolvere e per tale motivo le abbiamo suddivise in «seed», sotto il milione di euro di fatturato, e in «consolidate» che superano tale soglia: le prime aderiscono gratuitamente, le seconde pagano un contributo di 500 euro all’anno. Poi ci sono gli incubatori o acceleratori, pubblici e privati, che aiutano le startup a crescere e a svilupparsi nella loro prima fase di vita, in alcuni casi attivando anche i primi investimenti, cosiddetti «seed». La terza categoria è quella degli investitori dedicati, cioè i «business angels», persone fisiche che investono importi solitamente contenuti, massimo 50 o 100 mila euro, in taluni casi aggregandosi, i cosiddetti «club deal», per finanziare una startup in modo più significativo e i «venture capital» o investitori istituzionali, che solitamente entrano in campo con investimenti più elevati, a partire da 500 mila fino a qualche milione di euro. Il quarto soggetto che fa parte della base associativa è costituito dagli «abilitatori», imprese che aiutano le startup a svilupparsi ma che non hanno come unico ambito di attività quello di supportare le startup, come è il caso degli incubatori e degli investitori: mi riferisco agli spazi di coworking, agli studi professionali, ad alcune società di consulenza, ecc. La quinta categoria è formata dalle imprese consolidate dei diversi settori industriali. Sono oltre 20 quelle iscritte e a tendere vorremmo aggregare soprattutto quelle che vogliono investire in maniera industriale nelle startup, come accennato in precedenza e/o che intendono offrire servizi ad alto valore aggiunto per le startup stesse.

D. Quali sono le vostre iniziative?
R. Alle attività di lobbying e di comunicazione, che hanno caratterizzato il primo biennio dell’Associazione, si sono aggiunte dall’anno scorso due attività che vanno nella direzione di aiutare le startup a crescere (growth) o a trovare uno sbocco in termini di acquisizione o di quotazione (exit): l’open innovation e l’internazionalizzazione. La prima si concentra soprattutto in progetti di «scouting» per conto di alcune imprese associate che vedono in Italia Startup una sorta di piattaforma che consente di raggiungere - grazie soprattutto agli incubatori, investitori e abilitatori iscritti - un numero significativo, quasi 1000, di startup di loro potenziale interesse: il ruolo associativo, essendo una realtà no profit, è quello di attivatore del business scouting e di selezionatore delle startup di interesse per l’azienda associata che promuove il progetto con Italia Startup. Il ruolo si esaurisce qui. Quello che però sta succedendo è che queste stesse aziende desiderano definire con l’Associazione il modello di «matching» che emerge dall’incontro con le startup selezionate e questo processo porta a definire numerosi modelli possibili - di acquisizione, di partnership, di «affiancamento» produttivo, di comarketing -che l’Associazione è invitata a divulgare, per promuovere la cultura dell’investimento industriale in startup, come leva di potente innovazione per tutto il sistema economico. La seconda area di attività, l’internazionalizzazione, punta invece a far conoscere le startup italiane e i loro partner fuori dai confini nazionali, attivando contatti e investimenti utili a tutto l’ecosistema. Siamo stati a Londra a novembre 2014 in un evento internazionale con 30 startup italiane, a Singapore a fine aprile 2015 con una delegazione di 10 imprese e vogliamo portare l’Italia nei radar degli investitori e delle aziende straniere.

D. In Europa quali sono i «radar»?
R. Sicuramente Inghilterra e Germania, ma adesso anche Francia, alcuni Paesi dell’Est come la Polonia e del Nord come la Finlandia e la Svezia. L’Italia fa ancora fatica a essere riconosciuta come un luogo fertile per le startup, ma stiamo lavorando in questa direzione.

D. Le startup preferiscono crescere o essere acquisite?
R. In Italia i giovani imprenditori innovativi vogliono soprattutto crescere e se possibile rimanere proprietari dell’impresa creata. Nell’acquisizione c’è il rischio che la startup non fertilizzi le proprie idee e quindi che la parte creativa/innovativa si disperda nell’impresa acquirente. Non a caso, come dicevo prima, più che parlare di «exit», ossia del modello classico americano e anglosassone per cui la startup di successo si quota in borsa o viene acquisita, come Associazione preferiamo parlare di crescita.

D. E l’Unione europea che dice?
R. Interessante è il tema dei fondi, con un occhio di riguardo, sia in Horizon 2020 che nei fondi strutturali, che quindi passano dalle regioni, per il fenomeno startup, che per il Governo europeo significa creazione di nuove imprese e di conseguenza nuova occupazione. È una sfida che l’Italia dovrebbe cogliere: intercettare una parte di questi fondi, con un ruolo chiave da parte dei Governi regionali.

D. Digitalizzazione e banda ultralarga possono aiutare le imprese ad avere un livello maggiore di cultura digitale?
R. Ovviamente sì. Molte startup hanno in testa il modello digitale e lo sviluppo di nuove applicazioni, spesso rivolte al consumatore finale, cioè business-to-consumer. Si tratta di un modello molto difficile perché porta a confrontarsi immediatamente con la competizione internazionale. Lo sviluppo che proponiamo è più d’incontro e di offerta di prodotti e soluzioni per le imprese e non per il consumatore finale. È evidente che il digitale è ormai ovunque e quindi è chiaro che una cultura digitale sostenuta da reti evolute è imprescindibile. Molte startup «cavalcano» questa evoluzione spinta verso il digitale e possono essere di aiuto alle imprese consolidate, fornendo l’esternazionalizzazione di competenze, di servizi e di prodotti. Il punto nodale è però quello dell’intraprendere unito a quello dell’innovazione, dove «innovazione» può includere anche il digitale, cioè consiste soprattutto in creazione di nuove imprese che portano innovazione di modelli, processi e prodotti nuovi.

D. In Italia dove sono le startup?
R. Ovunque, con una concentrazione più forte nel Centro-Nord. La Lombardia è la prima regione, rappresentando oltre il 20 per cento delle startup innovative iscritte al registro dedicato. Seguono Emilia Romagna e Veneto, regioni a forte vocazione industriale, quindi Lazio e Piemonte. Il Sud invece è indietro con buone eccezioni in Campania, Sicilia e Puglia.   

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