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anna maria furlan (cisl): con le parti sociali il dialogo è indispensabile

Anna Maria Furlan, segretario generale della Confederazione Italiana Sindacato Lavoratori

Prima donna al vertice della Cisl, il sindacato di Via Po a Roma, Anna maria Furlan mostra subito il piglio deciso della concretezza e, se da un lato guarda senza sconti al dramma economico e sociale dell’Italia della recessione, dall’altro offre una ricetta, altrettanto netta e senza fronzoli, per tentare la via della ripresa e della crescita. A cominciare da un avviso di metodo rivolto al presidente del Consiglio Matteo Renzi: «Noi pensiamo che sia indispensabile una politica economica in grado di produrre un ciclo di crescita, di ricostruzione industriale, di responsabilità e coesione sociale. Per questo è indispensabile il dialogo costante con le parti sociali, come del resto avviene in tutti i Paesi europei». Da poche settimane alla guida della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori, comincia la sua impresa in un tempo difficile per il Paese. Quale Italia vede di fronte a sé e quali sono i compiti cruciali in vista della ripresa?
L’Italia è ancora nel pieno di una grave recessione economica in cui non si intravede ancora una via d’uscita efficace e duratura. È l’unico paese dell’area Ocse che non è riuscito a imprimere una forte spinta agli investimenti, alla produzione industriale, all’export e alla domanda interna. Purtroppo i principali centri di analisi prevedono un’ulteriore caduta del prodotto interno nel 2014 tra lo 0,3 e lo 0,5 per cento. Sarebbe un ulteriore disastro. Su sei anni di crisi, l’Italia ne ha già trascorsi cinque in recessione. Ha già perso 25 punti di produzione industriale. Ma è anche nei primi posti per l’ingiustizia sociale e negli ultimi per l’inclusione sociale. Ha milioni di disoccupati, i senza lavoro raggiungono quasi il 50 per cento tra i giovani, con punte drammatiche soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno. È un contesto drammatico, forse il più grave del dopoguerra, che ha logorato in profondità la coesione sociale faticosamente costruita in lunghi anni di impegno e di lotte sociali. Sono troppi i nodi che frenano la ripresa dello sviluppo e dell’occupazione. Sono stati persi più di un milione di posti di lavoro negli ultimi anni, e tantissimi operai sono in Cassa integrazione guadagni e in mobilità, senza speranza di una ricollocazione dignitosa. Manca un intervento organico sui fattori che possono facilitare lo sviluppo e gli investimenti. A partire da energia meno cara, meno tasse per chi investe in innovazione e ricerca, nuove infrastrutture soprattutto nel Sud, vera riforma della giustizia civile e della pubblica amministrazione.
Domanda. La Legge di stabilità recentemente approvata contiene alcune misure come il taglio dell’Irap e gli sgravi sulle assunzioni, finalizzate alla ripresa del Paese. Le considera efficaci?
Risposta. La Legge di stabilità contiene indubbiamente delle misure che noi abbiamo giudicato positive come la decontribuzione per chi assume a tempo indeterminato e il taglio dell’Irap. Ma si tratta di interventi insufficienti e generalizzati. Questa è una delle note dolenti della manovra del Governo. Manca una vera svolta sul piano della crescita dell’economia e del rilancio dei consumi. Abbiamo bisogno di misure selettive per favorire gli investimenti, un piano organico in grado di rilanciare la produzione industriale nel Paese. Non ha senso parlare di contratti aziendali e poi non stanziare niente per la detassazione del salario legato agli aumenti di produttività.
D. Quali sono invece i limiti più evidenti che ravvisa nella Legge di stabilità e, più in generale, nella politica economica del Governo Renzi?
R. Noi abbiamo apprezzato la concessione di un bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, è stata una buona operazione per alleviare la sofferenza sociale e sostenere la domanda interna. Ma abbiamo criticato la scelta di escludere da ogni intervento i pensionati, metà dei quali non raggiungono i mille euro al mese. Sarebbe molto utile allargare l’area della «no tax area» per i pensionati, dando un segnale di attenzione verso questa fascia di persone bisognose di sostegni sociali e di assistenza. Se si vuole far ripartire i consumi dobbiamo sostenere tutti i redditi, a partire da quelli più deboli. Così come è una scelta sbagliata quella di continuare a bloccare i contratti del pubblico impiego. In sei anni i dipendenti pubblici hanno perso da 2.500 a 5.000 euro all’anno in termini di potere d’acquisto. Non è più possibile tenere bloccati i contratti di milioni di persone, in un momento in cui si parla di rendere la Pubblica Amministrazione più efficiente e moderna. Un altro tema caldo è quello del Trattamento di fine rapporto. È una misura che va cambiata. La sua spalmatura nello stipendio di fatto aggrava il peso del fisco, visto che oggi questa voce usufruisce di una tassazione più vantaggiosa. Il lavoratore pagherà più tasse, non meno. Nello stesso tempo aver aumentato la tassazione sulle rendite dei fondi pensione mette a rischio la previdenza integrativa, che rappresenta per i giovani l’unica soluzione per avere garantita una vecchiaia di non povertà. Ma, infine, della Legge di stabilità contestiamo anche i tagli lineari a Comuni e Regioni che si tradurranno in più tasse e meno servizi.
D. Una parte dei risparmi arriverà anche dai tagli ai patronati. Anche il sindacato è chiamato a fare la propria parte?
R. Anche questa norma è da modificare. In Italia abbiamo 30 patronati, 3 sono dei sindacati confederali; Cgil, Cisl e Uil ne hanno uno ciascuno. Svolgono servizi gratuiti per la cittadinanza in regime di sussidiarietà e di convenzione con lo Stato. Il contributo dello Stato copre solo un terzo delle spese sostenute dai patronati. Rispetto ai 420 milioni di euro che ogni anno lo Stato finanzia per i servizi fatti dai patronati, complessivamente vengono risparmiati da Inps, Inail e Ministero degli Interni oltre 670 milioni. Inoltre con questa misura si cancellano posti di lavoro. Il risultato è che finirà la gratuità per questi servizi, per la gioia di commercialisti e di alcune categorie professionali, con un aggravio di costi per i lavoratori e l’erario.
D. Su quali priorità e asset dovrebbe fondarsi l’agenda economica e del lavoro del Governo per l’anno 2015?
R. Pensiamo che sia indispensabile una politica economica in grado di produrre un ciclo di crescita, di ricostruzione industriale, di responsabilità e di coesione sociale. Per questo è indispensabile il dialogo costante con le parti sociali per affrontare i problemi con senso di responsabilità, come del resto avviene in tutti i Paesi europei. Noi siamo aperti al confronto e faremo la nostra parte. Abbiamo incontrato il presidente Renzi e gli abbiamo detto con chiarezza che si deve compiere una battaglia seria contro l’evasione fiscale e la corruzione. Parliamo di cifre assurde, scandalose, più di duecento, trecento miliardi di euro. Ma nello stesso tempo bisogna detassare i redditi da lavoro e da impresa per favorire una ripresa dei consumi e la creazione di nuovi posti di lavoro. L’Imu non selettiva e non progressiva ha avuto effetti depressivi sulla domanda interna. Per questo bisognerebbe perseguire con maggiore determinazione l’evasione fiscale, ma anche tassare di più le grandi ricchezze patrimoniali e immobiliari del Paese, come fanno altri. Le risorse vanno usate per gli investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo. Una politica industriale dovrebbe favorire la circolarità di sinergie e di cooperazione tra scienza, industria e finanza. La politica industriale dovrebbe affrontare tutti gli altri fattori che stanno relegando l’Italia nella zona d’ombra del declino nello scenario globale. Il basso livello dimensionale delle imprese, la loro sottocapitalizzazione, il contenuto medio-basso di innovazione e di intelligenza, le pastoie burocratiche, i costi energetici, l’arretratezza infrastrutturale, l’accesso al credito: tutto questo deprime la produttività e sta accentuando lo svantaggio competitivo del nostro Paese.
D. L’impianto del Jobs Act è ormai definito: quali errori il Governo deve evitare nei decreti attuativi?
R. Il Governo deve uscire dall’autosufficienza. Non c’è nessuno che può fare da solo di fronte alla complessità della crisi. Finora tutti i Governi che si sono succeduti hanno pensato che bastava cambiare le regole del mercato del lavoro per creare occupazione. È un errore che hanno compiuto tutti i Governi, di destra e di sinistra, degli ultimi vent’anni. Le materie del lavoro appartengono all’autonomia delle parti sociali attraverso i contratti e gli accordi sindacali. Il meglio del giuslavorismo italiano è frutto delle intese tra i sindacati e le imprese, che poi sono diventate leggi dello Stato. Ecco perché noi abbiamo chiesto al Governo Renzi di confrontarsi con le parti sociali. La fretta su queste materie può portare a disastri, come è accaduto nel caso delle norme sugli esodati della riforma Fornero, che hanno penalizzato centinaia di migliaia di lavoratori. Quanto al merito, per noi il tema principale è il superamento delle scandalose precarietà del mercato del lavoro, contestuale alle garanzie del reintegro dei lavoratori nei casi di licenziamento illegittimo di tipo discriminatorio e disciplinare.
D. Può bastare il contratto a tutele crescenti a ridurre la disoccupazione giovanile? O serve altro?
R. Il contratto a tutele crescenti può costituire una soluzione per una delle anomalie del nostro mercato del lavoro; mi riferisco alle false partite Iva, ai cocopro, agli associati in partecipazione, al finto lavoro autonomo, che svolgono lavoro subordinato sottopagato. Se il contratto a tutele crescenti a tempo indeterminato può racchiudere e superare queste forme di precarietà, il nostro giudizio sarà positivo. Il Governo deve scoprire le carte nei decreti delegati. Noi siamo pronti a confrontarci con i gruppi parlamentari e con il ministro del Lavoro per migliorare il testo e fare chiarezza. Lo stesso vale per gli ammortizzatori sociali: va bene l’idea di estendere le tutele e i servizi per l’impiego, ma per farlo sono necessarie risorse e i 2 miliardi di euro nella Legge di stabilità sono pochi. Altrimenti saremo in presenza di bei titoli destinati a restare sulla carta.
D. Oltre che dall’elevata disoccupazione giovanile, l’Italia è caratterizzata anche da un basso tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Su quali iniziative e misure occorre puntare per riallinearci all’Europa migliore?
R. Bisogna intervenire su più fronti. Intanto l’Italia è il Paese che fa meno di tutti in Europa in tema di politiche di sostegno alla famiglia. Il «bonus bebè» può essere un segnale di attenzione, ma non basta. Ci vogliono più asili nido, servizi di sostegno alle famiglie numerose, orari diversificati nelle città in modo da aiutare la donna a conciliare il lavoro e la famiglia. Bisogna compiere un intervento globale sulla famiglia e non a spizzichi e bocconi, cioè senza un piano organico di interventi che tenga conto anche della diversa situazione esistente nelle varie regioni sul piano dei servizi assistenziali. Dall’altra parte occorre intervenire per incentivare, sul piano fiscale e contributivo, l’assunzione di donne sia nel privato sia nel pubblico impiego. Questo è un punto dirimente. In altri Paesi europei a contrattazione fa tantissimo sul piano della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Sul piano contrattuale, bisogna favorire la diffusione del part-time, gli orari e i turni più flessibili, il telelavoro, i congedi parentali. Occorre diffondere una nuova cultura che favorisca l’impiego professionale delle donne in tutti i campi della vita economica, sociale e politica. Per fare questo è necessario ripartire dalla scuola e dalla formazione. È lì che si pongono le basi per una valorizzazione delle donne nella società italiana. A partire dal rispetto della maternità, delle donne madri, lavoratrici, casalinghe, per favorire un’effettiva parità di genere, reprimendo inoltre ogni forma di violenza nei confronti delle donne. Valorizzare il loro ruolo e le loro competenze di sicuro è una leva fondamentale per ridare slancio, crescita e sviluppo al Paese. Purtroppo, però, oggi si corre il rischio che il tema delle pari opportunità si trasformi solo in uno slogan che riempie dibattiti senza dare risposte concrete alle diverse difficoltà che ruotano attorno alla questione dell’effettiva parità tra uomini e donne, a partire dai luoghi di lavoro. Ecco perché occorre costruire un dialogo produttivo tra mondo della politica e delle istituzioni e le parti sociali, da sempre pronte a dare il proprio contributo alla costruzione di un processo democratico e rispettoso del principio di non discriminazione delle donne, nel lavoro come nella società. Investire strategicamente sulla «risorsa donna» significa costruire le condizioni e gli strumenti più idonei a favorire la piena espressione delle potenzialità del mondo femminile.
D. Che cosa può fare il sindacato per promuovere quegli strumenti come il telelavoro e il welfare familiare a vantaggio delle donne?
R. Il sindacato e in particolare la Cisl da tanti anni si battono per una diffusione del telelavoro, che va incentivato fiscalmente soprattutto per le donne lavoratrici. In Italia purtroppo si è lontani dalle esperienze positive di altri Paesi europei. È un problema culturale, soprattutto nella Pubblica Amministrazione, ma anche di inadeguatezza di servizi, a cominciare dalla mancanza della banda larga in molte realtà geografiche. L’azione più efficace è dare validi aiuti alle famiglie sovraccaricate di funzioni, il cui ruolo va riconosciuto, valorizzato e sostenuto, prevedendo un sistema di servizi integrato ed efficiente, misure di conciliazione tra attività lavorativa e di cura, interventi a tutela della casa. Il sistema di welfare va sottoposto a processi di riforma, superando le disuguaglianze sociali e territoriali e promuovendo una seria politica di tutela. Bisogna costruire un «welfare di comunità» cui concorrano istituzioni, sindacato e terzo settore per prevenire, eliminare e ridurre tutte le condizioni di svantaggio economiche e sociali.   

Tags: Dicembre 2014 lavoro sindacato Cisl Annamaria Furlan

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