edoardo narduzzi: entro il 2017 faro' tre ipo, una in piu' di steve jobs
«Gli imprenditori sono soggetti pericolosi, vogliono sempre crescere, trovare attività inesplorate, non stanno mai fermi e mai si rassegnano. Soprattutto cercano il primato o qualcosa che li renda unici. Nel mio piccolo, mi sono dato un obiettivo mica da poco: battere Steve Jobs in termini di Ipo, ossia quotazioni in borsa, fatte nel corso della vita. Ecco perché ho l’obiettivo di quotare tre diverse società entro il prossimo triennio, mentre almeno due quotazioni sono già in rampa di lancio». Edoardo Narduzzi, imprenditore made in Italy, non ha vissuto la recessione tirando il freno, in attesa che la nottata passasse. Si definisce imprenditore per caso. Infatti nasce come giornalista finanziario, magari «over educated», come dicono negli Usa, con quattro lauree e quattro specializzazioni nella London Business School, ad Harvard, nell’Imperial College e a Warwick. E ancora oggi la sua principale passione è rimasta quella di scrivere e leggere a mani basse. Pur essendo nel frattempo diventato un imprenditore di successo con interessi e partecipazioni in aziende che operano in una decina di Paesi ed occupano circa mille professionisti, fatturando 110 milioni di euro all’anno. Tutte nel settore della tecnologia e tutte con l’epicentro in Italia.
«Quando è cominciata la recessione, nel 2008, fatturavo meno di 20 milioni di euro e avevo partecipazioni in due sole società. Oggi fatturo circa 110 milioni di euro ed ho appena lanciato una nuova azienda con un team di professionisti di ottima qualità, Mio Welfare; ed a breve lancerò Selfie Wealth, a pieno titolo nel segmento della FinTech, un vero cambio di paradigma nell’asset management a portata di touch e per i singoli che vogliono fare e capire da soli come gestire il proprio patrimonio senza intermediazioni dei private banker». L’impresa più grande che ha co-fondato, Techedge, è ormai un gruppo internazionale nelle tecnologie informatiche e della comunicazione, attivo in una decina di mercati, e che in soli dieci anni è passato dalla fase del lancio a 65 milioni di fatturato. È la portaerei della sua fitta rete di investimenti nell’high-tech.
Domanda. Partiamo dalla Techedge, come e quando è nata?
Risposta. Esattamente dieci anni fa, durante una cena nell’unico ristorante californiano di Roma, il Duke’s, con il mio socio di sempre, ingegner Domenico Restuccia. Avevamo in testa di fare un campione made in Italy delle soluzioni enterprise a valore aggiunto per migliorare la competitività delle imprese. Essere il partner tecnologico premium, cioè di qualità distintiva, per le grandi organizzazioni nella gestione delle loro attività ed avendo sempre in testa ben chiaro il fatto che oggi tutte le imprese competono nella rete e in rete. In uno spazio di affari già affollato siamo riusciti a crescere in media più del 30 per cento all’anno anche nell’ultimo lustro, quando il prodotto interno italiano è crollato del 10 per cento. Non siamo partiti da un garage, ma quasi. Ad inizio 2004 avevamo due dipendenti, oggi siamo 620 professionisti. Soprattutto siamo diventati l’impresa italiana più internazionalizzata del nostro settore.
D. In quanti mercati internazionali opera oggi la Techedge?
R. Abbiamo appena perfezionato un’operazione societaria con un’impresa spagnola che ha tre controllate operative nell’America latina. E proprio lo scorso ottobre abbiamo iniziato la nostra operatività a Riyad in Arabia Saudita. Oggi la capogruppo italiana controlla bene dieci società attive in altrettanti mercati esteri: Usa, Brasile, Germania, Russia, Regno Unito, Spagna, Colombia, Messico, Cile ed Arabia Saudita. Dai tempi dell’Olivetti, mai nessuna impresa italiana dell’Ict si era spinta così lontano. Ma noi non abbiamo prodotti, offriamo servizi professionali ai nostri utenti. Quindi in ogni mercato nuovo che apriamo diamo vita ad una nuova azienda a 360 gradi. Ma adesso ci siamo fatti le ossa e nei prossimi anni punteremo a realizzare almeno il 50 per cento del nostro fatturato fuori dall’Italia: ovvero 75 milioni di euro dei 160 che abbiamo come target per fine 2017.
D. Il vero problema dell’Italia è la disoccupazione: quanti nuovi posti di lavoro ha creato negli ultimi anni?
R. Da quando ho cominciato a fare l’imprenditore più di mille. Dal 2008, primo anno di recessione in Italia, circa 500. E si tratta di posti di lavoro ad alto valore aggiunto, perché nella quasi totalità dei casi si tratta di professionisti con lauree o dottorati tecnico-scientifici. Nel solo anno 2014 la mia contabilità segna 30 nuove assunzioni.
D. Scusi qual è il segreto, se ne esiste uno?
R. Scegliersi soci italiani ma di qualità mondiale, avere una visione innovativa di settore, saper movimentare le energie degli ingegneri italiani che sono bravi e, soprattutto, avere il mappamondo sempre tra le mani. Che non significa banalmente sentirsi parte della globalizzazione, ma più concretamente saper sempre cogliere una prospettiva di analisi, un tipo di attività originale rispetto al comune modo di pensare.
D. Quindi anche in Italia è possibile fare operazioni di successo nel settore della tecnologia?
R. Certo che è possibile, anche se è meno facile rispetto ad altri contesti. Il nostro è un mercato piccolo, periferico, nel quale vi sono poche grandi imprese e una ridotta propensione al rischio. Le startup, invece, per realizzarsi hanno bisogno di grandi mercati e di grandi clienti che le facciano rapidamente passare dalla fase dell’ideazione a quella dell’affermazione. Il capitalismo dell’innovazione e delle startup è per sua natura accelerato, tutto si consacra o si brucia rapidamente; ma la velocità relativa in Italia è ridotta per due ragioni: perché vi sono meno capitali a disposizione e perché vi sono meno storie di successo che possano fungere da track record per chi investe. Insomma, avremmo dovuto cominciare una quindicina di anni fa come gli scandinavi, perché la cultura non si cambia facilmente.
D. In che senso?
R. In Italia le famiglie per i figli bravi non sognano un futuro da imprenditore dell’innovazione. Troppo rischioso, meglio fare i notai o farsi assumere dalla Banca d’Italia. Ma sono i più bravi che devono essere spinti a competere sulla frontiera del nuovo, perché quello che poi produrranno darà benefici, anche occupazionali, a molti e l’intera società starà meglio.
D. Quante aziende ha creato nella sua vita?
R. Una dozzina. Le prime due sono state vendute una decina di anni fa. Poi ho capito che creare un’azienda è molto difficile e che, se ha successo, è bene tenersela e spingere a tutta forza fino a quando l’energia c’è. Oggi detengo partecipazioni in nove diverse società, di cui tre sono startup innovative secondo la nostra legge. Alcune hanno superato ogni ottimistica aspettativa come Vetrya, fondata dall’amico Luca Tomassini nel 2010 e nella quale ho deciso di investire fin dalla nascita, e di contribuire alla sua crescita. Vetrya è ormai leader in Italia nei servizi a valore aggiunto di nuova generazione per le telecomunicazioni e i broadcasters. O come la Trust My Phone, con una tecnologia propria nei pagamenti mobili che quest’anno si sta ben affermando nel mercato e che è pronta all’internazionalizzazione. Poi c’è Mashfrog, società specializzata in soluzioni tecnologiche per nuove interfacce e nuovi canali di comunicazione, che chiuderà il 2014 con un fatturato di circa 7 milioni di euro ed è ormai leader in alcuni settori verticali come le soluzioni per smartphone e smartTv nel settore del gioco digitale e nelle utilities. Altre società costituiscono scommesse da dover necessariamente esportare a Londra, perché tutte incentrate nel mondo della finanza innovativa, come Eva Beta che ha realizzato un prodotto innovativo per i fondi pensione e per l’asset management, o nelle televendite di nuova generazione come Ti Vinci. Infine c’è Artis Consulting, una società che ha sviluppato un prodotto innovativo per la gestione delle Sgr immobiliari, già leader in Italia in questo settore, e che sta puntando alle Sgr mobiliari e ai fondi aperti: nell’ultimo biennio è cresciuta del 67 per cento ed ora fattura 2 milioni di euro.
D. E l’ultima nata?
R. La new entry si chiama Mio Welfare, una startup innovativa che rivoluzionerà il modo con il quale gli italiani si informeranno e consumeranno i servizi della sanità, della previdenza e della formazione. Abbiamo costituito una molteplicità di database specialistici che contengono informazioni non reperibili altrove, neppure su Google, e sviluppato un nostro algoritmo di settore. Ricercare o comparare una polizza sanitaria o un piano previdenziale diventerà un clic a portata di tutti. Il welfare pubblico dell’Occidente, come ho provato a spiegare con qualche anticipo nel 2009 nel mio saggio «Vivere senza welfare» edito da Marsilio, è destinato a essere ridimensionato. Piace tanto solo agli europei, che però non possono più permetterselo; perfino gli europei più ricchi e più welfaristi come gli scandinavi hanno da tempo cominciato a privatizzare la sanità e i servizi del welfare. Noi vogliamo offrire una soluzione di mercato per consentire ad ogni italiano di capire quali contratti è meglio che concluda per proteggere il futuro proprio e della famiglia.
D. Ha delle altre idee imprenditoriali in arrivo?
R. Due nuove startup già pronte per il lancio sul mercato entro la fine dell’anno. Selfie Wealth, per gestire il proprio patrimonio finanziario via tablet in maniera semplice, professionale e senza costi di intermediazione. E un’altra operante nel comparto dell’informazione con l’amico imprenditore Massimo Scambelluri. Insomma noi abbiamo da tempo raccolto l’invito del presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi ad investire per far ripartire il prodotto interno del Paese. Non ci ha spaventato neppure la peggiore recessione verificatasi dopo quella del 1929.
D. Come valuta, dal punto di vista di un imprenditore innovativo, la prima «legge di stabilità» dell’era Renzi?
R. Personalmente ho sostenuto e aiutato Renzi fin dal suo primo tentativo di partecipare alle primarie del Pd contro Pier Luigi Bersani. Era già chiaro all’epoca che all’Italia occorreva una personalità giovane e sganciata dalle logiche consociative che avevano fatto perdere ogni capacità di sviluppo. Renzi che elimina l’Irap sul costo del lavoro e l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che incentiva la ricerca e le assunzioni dei giovani è un leader politico che va nella direzione giusta. Rende il nostro Paese normale alla luce di chi lo analizza dalle altre capitali della globalizzazione, anche per decidere se investirvi. Rende più acquistabile un Btp a chi risiede a Singapore, New York, Londra, Shanghai o San Paolo. Insomma il Renzi della prima legge di stabilità è da promuovere a pieni voti anche se rimettere sulla carreggiata della competitività l’economia italiana richiederà tempo perché, in quasi due decenni, di tempo ne abbiamo sprecato troppo come conseguenza della atipica paralisi prodotta dagli ex comunisti e dai sindacati nel nostro vivere collettivo.
D. Quindi l’Italia non è condannata al declino?
R. È un lusso che non possiamo permetterci. E sa perché?
D. Perché, secondo lei?
R. Perché noi dobbiamo render conto a gente come Leonardo, Galileo, Michelangelo. Quando moriremo, saremo da loro interrogati, per capire se meritiamo o meno il paradiso, e ci chiederanno che cosa abbiamo fatto nel corso della vita per onorare l’avviamento che ci hanno lasciato. E l’unico modo per non essere spediti all’inferno sarà dimostrare di averci provato, convincere Leonardo che, certamente, Steve Jobs era ineguagliabile, ma che anche noi abbiamo fatto il massimo per competere nella frontiera dell’innovazione. E poi siamo costretti a sfatare un paradosso davvero pernicioso.
D. E cioè quale?
R. Quello secondo il quale il Paese che ha inventato le Università e le ha portate nel mondo come strumento per sviluppare e trasferire tra generazioni la conoscenza specialistica, poi, quando la materia prima dell’economia è diventata la conoscenza, ha perso di competitività. L’economia della conoscenza creativa doveva essere la grande occasione dell’Italia e degli italiani, ed invece decenni di spesa pubblica clientelare e di sbagliato egualitarismo antimeritocratico hanno fatto crollare le nostre Università nelle classifiche mondiali. Da inventori e primi della classe ci ritroviamo al 400esimo posto. Tutto questo, «solo» perché abbiamo voluto affidare la gestione della conoscenza a politici e sindacalisti.
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