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giuseppe novelli: tor vergata, come cambieranno le università del futuro

Giuseppe Novelli, rettore dell’Università Tor Vergata di Roma

Professore ordinario di Genetica nella facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università di Roma Tor Vergata, di cui è rettore per il periodo 2013-2019, Giuseppe Novelli, nato a Rossano (CS), ha studiato prima all’università di Urbino, nella cui facoltà di Farmacia tra il 1981 e il 1987 ha poi svolto attività di didattica e ricerca e si è specializzato in Genetica medica. Nel 1992 ha vinto il concorso di professore associato di Genetica umana ed ha insegnato nell’università Cattolica del Sacro Cuore-Policlinico Gemelli di Roma. Passato nel 1995 nell’università Tor Vergata di Roma, nel 1999 è diventato professore ordinario di Genetica medica e nel 2003 anche «adjunct professor» nell’università dell’Arkansas, in Usa. Dal 2008 al 2011 è stato preside della facoltà di Medicina e Chirurgia di Tor Vergata della quale, nell’ottobre 2013, è diventato rettore ottenendo, nel primo turno di votazioni, la maggioranza assoluta contro altri tre candidati.
Domanda. Quali progetti vorrebbe attuare durante il suo incarico e cosa intende quando dice che l’Università deve produrre e c’è gran voglia di cambiare?
Risposta. È semplice la risposta, perché sono le attività in cui stiamo investendo molto. La prima è l’internazionalizzazione, perché il nostro problema non è la formazione di giovani che poi vanno all’estero, fenomeno che non trovo negativo ma positivo. Il nostro problema è che gli altri non vengono da noi; ma come facciamo a far venire studenti a studiare in Italia se non abbiamo corsi in inglese? Quest’anno però nel nostro ateneo abbiamo attivato 12 corsi in lingua inglese tra cui Farmacia, primo corso in Italia in tale lingua, e da poco Medicina e Chirurgia; il 50 per cento degli studenti sono stranieri, quindi quando c’è l’offerta, arriva anche la richiesta. Il mio obiettivo è arrivare nei prossimi tre anni ad almeno 15 corsi anche perché, così facendo, l’offerta formativa aumenta.
D. Altri motivi per i quali ricercatori e professori stranieri non arrivano?
R. Perché l’autonomia universitaria non ci consente di stipulare contratti di assunzione immediati. Se un mio collega straniero vuole andare a Berlino, impiega un mese. Si sottopone a un’intervista e viene assunto; da noi prima deve liberarsi un posto, poi occorre chiedere l’autorizzazione per indire un bando di concorso, espletarlo, informare il Senato accademico e il consiglio d’amministrazione e via dicendo. Due anni, se tutto va bene. Nel frattempo il mio collega è andato altrove. Sto cercando di ridurre questo iter con la chiamata diretta di professori di chiara fama.
D. In che cosa questa consiste?
R. Se un professore straniero desidera per motivi propri venire in Italia anche percependo uno stipendio inferiore a quello che riceverebbe altrove, non può farlo. Noi cerchiamo di agevolarne la venuta con alcuni incentivi. Quest’anno ho compiuto la chiamata diretta di tre professori di prestigio, ma erano italiani vincitori di un premio europeo di ricerca; sarebbero andati all’estero. Erano ricercatori, li abbiamo arruolati come professori di ruolo senza concorso, la legge lo consente e l’ho applicata. Sono due chimici e un fisico. Lo strumento quindi c’è e, se le cose si vogliono fare, si fanno.
D. Oltre all’internazionalizzazione?
R. Il secondo punto su cui sto investendo è la «terza missione», cui lavoro da quando ero componente dell’Agenzia di valutazione della ricerca e delle università (Anvur). Pensammo all’unico modo per evitare il collasso di tutte le università, anche di quelle americane. Lo scorso maggio la copertina dell’Economist mostrava un cappello da studente sopra una bomba, per indicare che le università scoppieranno nei prossimi 15 anni per l’incremento sia delle tasse sia degli studenti, dinanzi ad una diminuzione di fondi pubblici, sempre più ridotti. Occorrerà una soluzione a questa crisi, basata o su quelle delle università dell’east e west coast americane, che puntano alla qualità elevata e competono con quelle di tutto il mondo ricorrendo a un’alta selettività; o su quanto facciamo in Europa con il modello della cooperazione, cioè l’inclusione e l’offerta di possibilità a chi è bravo e ha voglia di studiare.
D. Quale dei due metodi preferisce?
R. Bisogna trovare un mix. Non possiamo rinunciare alla competitività altrimenti saremo sempre ultimi nelle graduatorie. Recentemente ho appreso che Tor Vergata ha conquistato 15 posizioni in un solo anno nella classifica del ranking mondiale; ma non possiamo rinunciare all’alta qualità che esclude tutti gli altri. Dobbiamo favorire le possibilità per tutti. Non intendo tornare all’università di massa di una volta; deve esservi anche questa, ma bisogna dare a pochi la possibilità di accedervi. Occorre trovare i talenti. L’università è il posto in cui si formano e vengono scovati, dobbiamo trovarli, vi sono ma spesso sfuggono.
D. Questa è la sua terza missione?
R. I talenti hanno idee, intuizioni, possono inventare una macchina che non c’è; bisogna dar loro la possibilità di realizzare il prototipo, metterli in contatto con l’industria. Serve un’università che si apra all’esterno, offra servizi, prestazioni, consulenze. Chi oggi non avrebbe bisogno di consulenze giuridiche? Noi non gli offriamo il singolo professionista, ma un dipartimento di Giurisprudenza che segue un problema, a costi inferiori rispetto al singolo professionista, perché paga l’ateneo. Pensiamo alle consulenze medico-legali, economiche, finanziarie, chimiche, fisiche, tutto ciò che l’università possiede ma è chiuso. L’università deve uscire fuori, fare business.
D. Come si finanziano le università all’estero?
R. Il budget delle prime dieci americane presenti nel ranking mondiale proviene per il 60 per cento da prestazioni per conto terzi; dobbiamo arrivare a questo, finora c’è stato un distacco culturale tra università e applicazione; una vecchia idea che viene probabilmente da Benedetto Croce che diceva: «L’università deve creare e scrivere idee, produrre conoscenza ma non applicarla»; dobbiamo superare questo concetto, applicare la conoscenza generata nell’università. Finora abbiamo prodotto conoscenza che è rimasta lì; la prova è nelle pubblicazioni scientifiche del mondo, in cui l’Italia occupa il secondo o terzo posto.
D. Che significa questo?
R. Che la produzione di conoscenza in Italia, nonostante la mancanza di soldi e di grandi infrastrutture di laboratori, nell’ematologia è al terzo posto nel mondo, nella cardiologia al quarto, nonostante il numero di ricercatori inferiore in rapporto alla popolazione. Quindi la conoscenza è prodotta, ma l’applicazione manca. Non c’è stato un contatto con le industrie perché sono andate via tutte, come le chimiche e le farmaceutiche. Giustamente le aziende vanno a produrre dove costa meno. Da 50 anni gli israeliani creano le migliori idee e produzioni nelle loro università, la Apple quest’anno ha comprato 2 piccole imprese nate nell’Università di Gerusalemme. Ho visitato il centro universitario di Haifa, mi ha impressionato: intorno al campus vi sono mille piccole industrie con 5 o 6 persone l’una, professori universitari e qualche esterno che producono e realizzano idee.
D. Come si sostengono?
R. L’università le aiuta anche perché hanno realizzato molti brevetti e il loro budget è coperto dai loro prodotti. Questo è avvenuto dentro un’università, non dentro un’industria, quindi è possibile farlo, ma bisogna trovare il modo. Quest’anno ho fatto accordi con due nuove società. Una, la Bioscience Clinic Middle East, ha investito a Dubai, e adesso a Tor Vergata sta creando un laboratorio di genomica per sviluppare il futuro della diagnostica prenatale non invasiva: prelevano sangue delle mamme e noi faremo i test per sapere se il feto è malato senza bucare la pancia, tecnologia esistente solo in Usa e in Cina. La Bioscience ha un accordo con i cinesi della BGI che verranno qui con i loro dispositivi. Abbiamo stipulato un accordo con la Bioscience che prevede la formazione di biologi e tecnologi da inserire subito nello spin-off e quindi farli lavorare dopo un training da compiere in Cina. La nostra facoltà di Biologia oggi produce molti laureati che non trovano lavoro, ma se organizziamo una piccola industria biotecnologica, richiamiamo studenti, insegniamo loro un mestiere, creiamo un servizio, ossia nuove opportunità di lavoro.
D. Perché questi imprenditori sono venuti a fare l’industria nell’università invece di farsela per conto loro?
R. Perché hanno capito che occorre unire chi genera conoscenza e chi l’applica. L’industria muore senza il continuo flusso di innovazione che viene sempre dall’università. La tecnologia corre e le start-up sono il modello vincente; dobbiamo favorire questo processo. Stiamo cercando di dare loro spazio, terreni, acqua, luce e gas per l’avvio, poi devono camminare con le loro gambe, l’università non fa beneficenza. Possiamo trovare collaborazioni con Regioni e Comuni, in questo modo nelle università devono entrare soldi da reinvestire in studenti, strutture, edilizia.
D. A quanto ammonta il vostro budget statale?
R. Il finanziamento statale è di circa 170-190 milioni di euro all’anno. L’80 per cento è destinato agli stipendi, con il resto paghiamo energia, acqua, gas, laboratori, e dobbiamo anche costruire edifici. Dobbiamo trovare altre risorse attraverso mutui e sponsorizzazioni. Per questo vecchio edificio, una delle prime strutture dell’Università nata nel 1981, paghiamo un affitto di 2 milioni e mezzo di euro l’anno. Abbiamo da poco ottenuto un finanziamento grazie alla Cassa Depositi e Prestiti e pensiamo di avviare i lavori per la costruzione del nuovo rettorato a giorni. Il campus di Tor Vergata è straordinario, noi possediamo circa 600 ettari sui quali stiamo progettando di costruire opere utili agli studenti e alla comunità scientifica e accademica.
D. In cosa si differenzia l’offerta formativa italiana da quella di altri Paesi?
R. Bisogna ancora stimolarla. Il ministro Stefania Giannini sta facendo un ottimo lavoro, favorendo la premialità degli atenei con grande interesse verso l’internazionalizzazione che sarà uno degli indicatori per stabilire i finanziamenti alle università; dobbiamo rispondere, inviando non solo più studenti all’estero, ma anche professori e personale tecnico, amministrativo e bibliotecario. Recentemente abbiamo stabilito un accordo con l’Università di Harvard per creare un nuovo centro di ricerca sui tumori e sulla medicina personalizzata. Inoltre circa un mese fa, abbiamo stipulato un accordo con l’università di Washington per la facoltà di Medicina.
D. Per svolgere quale attività?
R. I nostri studenti possono compiere tirocini a Washington per 6 mesi l’anno. Non dobbiamo inviare solo studenti ma anche professori e staff dell’università. Se non aumentiamo la qualità, saranno pochi gli studenti stranieri che verranno nel nostro Paese, e quelli che cercheranno di venire saranno di scarsa qualità e poco motivati. Negli Usa vi sono oggi circa 900 mila studenti stranieri che contribuiscono a fornire un introito di circa 30 miliardi di dollari l’anno. Bisogna convincersi che chi investe un euro in cultura e formazione, avrà un ritorno di un euro e 60 centesimi.
D. Chi deve fare ricerca?
R. I giovani. Quest’anno per la prima volta abbiamo indetto un bando di ricerca riservato ai giovani, investendo 500 mila euro; ci sono pervenute 100 domande di giovani ricercatori che hanno proposto progetti innovativi. Li valuterà l’Anvur, i migliori saranno finanziati e stimolati ad elaborare un prodotto. Non daremo soldi a pioggia, privilegeremo la meritocrazia; prima si erogavano mille euro ad ognuno che venivano spesi per il telefono e per rimborso delle spese di viaggio, senza produrre nulla.
D. Quali sono lo stato attuale della ricerca genetica e le future applicazioni?
R. La storia della genetica è straordinaria. Nel 1988-1989 il premio Nobel Sydney Brenner affermò che entro 15 anni la genetica sarebbe scomparsa perché tutti sarebbero diventati genetisti. Aveva ragione, oggi non c’è nessun campo della biologia, della medicina e di qualunque materia che possa fare a meno di studiare il Dna, la molecola della genetica; non ha nessun senso parlare di biologia senza genetica. Ho avuto l’opportunità di diventare genetista quando in Italia ancora non si parlava di dna, sono stato in Francia e negli Stati Uniti, ho imparato queste tecniche e, tornato in Italia, sono stato tra i primi a utilizzarle e ad applicarle alla clinica pratica.
D. Il suo ruolo è stato decisivo anche in alcuni casi di omicidi per scoprire presunti assassini. Ha impiegato metodi nuovi?
R. Fui tra i primi ad applicare il dna a scopo investigativo in Italia. Nel 1990 il primo caso si registrò in un processo nella Corte di Assise dell’Aquila: uno zio fu accusato di aver ucciso la nipotina. Per la prima volta un Tribunale italiano accettò la prova del dna. Poi ho seguito come consulente il caso di via Carlo Poma a Roma, l’uccisione di Simonetta Cesaroni, che però non fu risolto, ma la mia consulenza fu utile per scagionare l’indagato Raniero Busco, fino alle indagini sul dna di Bernardo Provenzano. All’epoca la polizia non disponeva ancora di laboratori attrezzati, e attraverso una convenzione iniziò una straordinaria collaborazione che continua ancora oggi.
D. Come arrivare a presunti assassini?
R. Con strumenti tecnologici e sistemi di calcolo e di statistica. Il mio laboratorio si è specializzato in queste analisi che spesso sono complicate e sofisticate.
D. Il delitto perfetto non esiste più, anche se alcuni casi non sono stati risolti?
R. Ancora qualche caso strano c’è, ma con il dna è cambiato tutto, anche il modo di fare le analisi. Sono nate varie tecniche, ecco perché sono stati riaperti casi che all’epoca dei fatti, a causa dello scarso materiale a disposizione, non potevano analizzarsi. Oggi siamo in grado di analizzare il dna di una singola cellula o di materiale vecchio anche di vari anni.
D. In questa tecnologia siamo più avanzati noi o altri Paesi?
R. Siamo al livello degli americani, la differenza sta solo nell’applicazione della conoscenza. Loro sono più organizzati nella gestione, noi non costituiamo un sistema, ognuno tiene al proprio campanile, si collabora poco e non si fa squadra.
D. Quali risultati possono ottenere, nella cura delle malattie ereditarie, i suoi studi sulla farmacogenetica, che si occupa dei fattori genetici ereditari?
R. La farmacogenetica è il futuro e spero che diventi quanto prima una realtà perché è l’unica branca della genetica che consente oggi un’applicazione clinica immediata. Attraverso il dna si può prevedere se una persona è suscettibile a sviluppare una determinata malattia. Tuttavia è necessario avere altre informazioni prima di formulare un rischio predittivo. Ad esempio, avere informazioni sulla sua famiglia, sul suo stato di salute e sugli stili di vita.
D. Perché non si esaminano tutti?
R. È difficile l’interpretazione. Con una spesa di mille euro si può far leggere tutto il codice genetico di una persona, ma non si capisce nulla, si ha un’informazione impressionante di tutta la vita, la storia di tutta l’umanità è nel dna, ma va filtrata e questa competenza l’hanno poche strutture in Italia e nel mondo. In molti casi è utile, in altri casi diventa solo una sorta di «genoscopo», un oroscopo basato sui geni.
D. Allora a cosa serve?.
R. A prevenire alcune malattie ereditarie come alcuni tumori oppure a stabilire quale farmaco assumere e in quale dose.
D. Quale la sanità del futuro?
R. La medicina personalizzata e predittiva. Un farmaco nel 70 per cento dei casi può funzionare, ma nel 30 non funziona o fa male. La farmacogenetica accerta se uno reagisce o no, è scritto nei suoi geni. Se li leggo prima, so se posso somministrare un farmaco o un altro. Questo settore si sta allargando, ma le difficoltà sono finanziarie per i farmaci biologici rimborsati dalle Regioni. Il futuro della medicina è basato sul dna, su quello che si deve prendere, che si deve mangiare, sul rischio delle malattie. Lo slogan è «la medicina giusta per la persona giusta». Gli inglesi la chiamano medicina di precisione, noi medicina personalizzata.  

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