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edgarda fiorini: nella confartigianato l’impresa e' un’impresa da donna

Edgarda Fiorini,  presidente di  Donne Impresa Confartigianato

«Abbiamo il primato in Europa come numero di attività autonome a guida femminile», esordisce con la rivendicazione di un successo nazionale Edgarda Fiorini, numero uno delle donne di Confartigianato. Ma con altrettanta nettezza avvisa subito sul rovescio della medaglia: «Operiamo, però, anche nel Paese con i servizi di welfare e di conciliazione vita-lavoro al lumicino e sotto il peso di una burocrazia e di un carico fiscale che rischiano di frenare ogni slancio verso la ripresa».
Domanda. Presidente Fiorini, partiamo proprio dai numeri. Aziende in rosa: quale realtà esiste oggi e con quali prospettive?
Risposta. Le donne che lavorano in proprio nel nostro Paese sono 1 milione e 719 mila, rappresentano il 30,8 per cento del totale dei lavoratori indipendenti attivi in Italia e il 18,4 per cento del totale dell’occupazione femminile. E tra le fila dell’esercito delle attività autonome «rosa» spiccano 364.942 imprenditrici alla guida di imprese artigiane. La propensione imprenditoriale delle italiane fa guadagnare al nostro Paese il primato in Europa per il maggior numero di attività autonome guidate da donne. Ci seguono la Germania, con 1.373.400 imprenditrici, e il Regno Unito  con 1.264.400. A livello regionale, il record per il maggior numero di lavoratrici indipendenti, pari a 305.720, appartiene alla Lombardia. Secondo posto al Lazio con 172.459 e terza posizione per la Toscana con 154.152. Le imprenditrici hanno resistito meglio dei colleghi maschi ai colpi della congiuntura negativa. Negli ultimi 5 anni, il numero delle lavoratrici indipendenti italiane, imprenditrici, lavoratrici autonome, libere professioniste, è diminuito di 123 mila unità, pari al 6,7 per cento in meno. Un calo inferiore a quello registrato dalla componente maschile del lavoro indipendente che, dal 2008 al 2013, è diminuita del 9,1 per cento, con una perdita di 387.900 unità. A reagire alle difficoltà di questi anni sono state soprattutto le donne alla guida di aziende con dipendenti che, tra il 2008 e il 2013, sono addirittura aumentate di 28.900 unità, pari all’8 per cento in più.
D. Quali le attitudini delle donne che a suo avviso fanno della presenza femminile nelle imprese il nuovo motore verso la ripresa economica?
R. L’Italia delle imprenditrici non ha paura di competere, sfida la crisi e strappa il primato in Europa per il più alto numero di lavoratrici indipendenti. Le donne portano con sé valori fondamentali  per resistere alla difficile fase economica: tenacia, creatività, voglia di farcela e di mettere a frutto una passione, un sogno. Non hanno  paura di mettersi in gioco per costruirsi un futuro per loro stesse e per le loro famiglie.
D. Dalla presenza alla leadership. Che cosa nel nostro Paese frena le donne dal raggiungimento delle posizioni di vertice aziendale?
R. Come dicevo l’Italia ha il record in Europa per il più alto numero di imprenditrici. Ma deteniamo anche un pessimo primato: una donna italiana su due è tagliata fuori al mercato del lavoro. E il welfare pubblico non aiuta certo a conciliare lavoro e famiglia. C’è ancora molto da fare sia a Bruxelles sia a Roma per riconoscere i meriti e le legittime aspettative delle donne ad affermarsi nel mondo del lavoro, per costruire uno Stato sociale a misura delle esigenze delle donne come madri, mogli, figlie, lavoratrici. Noi non chiediamo trattamenti di favore o corsie privilegiate, ma soltanto il rispetto di diritti che troppo spesso rimangono sulla carta.
D.  Lei stessa è una donna al vertice di una importante azienda. Quali consigli darebbe a una giovane imprenditrice?
R. Di non rinunciare mai al sogno, alla motivazione che l’ha spinta a creare un’azienda. Qui non si tratta di una questione di genere femminile o maschile. Il problema di guardare avanti e trovare nuove strade per uscire dalla crisi riguarda tutti gli imprenditori, donne e uomini. Bisogna dimenticare i vecchi confini territoriali, le barriere settoriali, i vincoli dimensionali delle imprese. Non c’è tempo da perdere. Guai a ripiegarsi su se stessi e a ripetere le solite «ricette». La crisi degli ultimi 5 anni ha cambiato tutto, ha stravolto le regole della competizione mondiale e impone «rivoluzioni» anche nel modo di essere imprenditori. E allora bisogna agire con velocità e determinazione, sfruttando subito, e al massimo, le potenzialità della cultura digitale e delle nuove tecnologie in tutte le attività d’impresa, nessuna esclusa. Innovazione tecnologica e globalizzazione sono le parole-chiave per far diventare le imprese protagoniste del futuro. Fare impresa non è mai stato tanto difficile come in questi anni di crisi e di profondi cambiamenti dei mercati internazionali. Eppure, nonostante tutto, si può fare. Dobbiamo essere capaci di rilanciare la qualità del modello produttivo italiano, giocando d’attacco e cercando nuove strade per restare competitivi.  Le imprenditrici, gli imprenditori devono cambiare se stessi, puntando su reti e tecnologie digitali, fattori abilitanti per affermarsi su un mercato che è già globale per tutti i settori.
D. Conciliare lavoro e famiglia è ancora difficile in Italia. Quali provvedimenti auspica in tema di welfare al femminile?
R. Il welfare italiano non aiuta l’occupazione femminile. Secondo l’Osservatorio di Confartigianato, quantità e qualità della spesa pubblica per la famiglia influenzano la partecipazione al mercato del lavoro: in Italia quasi 1 donna su 2, il 46,5 per cento, è inattiva. Con differenze molto marcate tra Nord e Sud: se infatti a Bolzano il tasso di inattività femminile è pari al 31,9 per cento, in Campania tocca il record negativo del 64,4 per cento. Bisogna investire di più e meglio nei servizi di welfare che dovrebbero favorire la conciliazione tra attività professionali e cura della famiglia. I dati, elaborati dall’Ufficio studi di Confartigianato, parlano chiaro: in Italia la spesa pubblica per aiutare le donne a far nascere e crescere i figli è pari a 20,3 miliardi, equivalente all’1,3 per cento del Pil e inferiore del 39,3 per cento rispetto alla media dei 27 Paesi dell’Unione Europea. In particolare, la spesa pubblica per le prestazioni a favore delle nascite è pari a 3,1 miliardi, inferiore del 26,6 per cento rispetto alla media europea, quella a sostegno della crescita dei bambini è di 2,8 miliardi, più bassa del 51,2 per cento rispetto alla media Ue, e quella a favore dei giovani under 18 è di 6,6 miliardi, inferiore del 51,5 per cento rispetto all’Ue. Crisi economica e qualità dei servizi pubblici per la famiglia influenzano la natalità: infatti, al gap Italia-Ue per gli investimenti nel welfare familiare si accompagna un costante calo delle nascite diminuite tra il 2008 e il 2001 del 7,3 per cento. Insieme con la diminuzione delle nascite, è in discesa l’utilizzo di alcuni strumenti di welfare a sostegno della maternità e della conciliazione lavoro-famiglia: congedo obbligatorio retribuito di maternità, congedo parentale, assegno di maternità dello Stato e dei Comuni, assegno al nucleo familiare.
D. Può descrivere meglio la situazione welfare della maternità e della famiglia?
R. Nel dettaglio, il congedo obbligatorio retribuito di maternità che spetta alla lavoratrice madre, dipendente o autonoma, nel 2012 ha visto un calo del 6,8 per cento degli utilizzatori rispetto al 2011. La diminuzione è stata del 5,6 per cento per le dipendenti, mentre è crollata del 17,6 per cento per le lavoratrici autonome e del 18,6 per cento per le artigiane. Stessa sorte per il congedo parentale, i cui utilizzatori sono diminuiti del 4,9 per cento tra il 2011 e il 2012. Per quanto riguarda poi l’assegno di maternità dello Stato e dei Comuni, il calo dei beneficiari è stato del 4 per cento. Segno negativo anche per  l’assegno al nucleo familiare i cui beneficiari sono diminuiti dello 0,9 per cento tra il 2011 e il 2012.
D. Si riscontrano differenze in questo ambito tra lavoratrici dipendenti e autonome?
R. Sì, senza dubbio. Sembra addirittura che ci siano mamme di serie A e di serie B. Per quanto riguarda il congedo obbligatorio retribuito di maternità, nel 2012 i beneficiari sono stati, per il 91,5 per cento, lavoratori e lavoratrici dipendenti e soltanto per il 9,5 per cento le lavoratrici autonome, di cui un quarto artigiane. Differenze tra dipendenti e autonome anche per il congedo parentale: le dipendenti possono utilizzarlo entro gli 8 anni del bambino, mentre i lavoratori autonomi hanno diritto a 3 mesi solo entro il primo anno di età del bambino. L’Osservatorio di Confartigianato esamina anche la qualità di alcuni servizi pubblici utili per le donne che devono conciliare lavoro, famiglia e maternità. A cominciare dai servizi comunali per l’infanzia come asilo nido, micronidi o servizi integrativi e innovativi utilizzati soltanto dal 14 per cento dei bambini sotto i 3 anni. Non va meglio per la quota di posti letto nei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari che sono, in media nazionale, pari a 7 ogni mille abitanti. Molto bassa anche la percentuale degli anziani over 65 che utilizzano il servizio di assistenza domiciliare integrata, l’Adi: appena il 4,1 per cento.
D. Emerge un quadro abbastanza desolante dalla vostra analisi: intravede qualche luce per il futuro?
R. Abbiamo apprezzato l’articolo 5 del disegno di legge delega sul lavoro, il «Jobs Act», in materia di conciliazione dei tempi di lavoro laddove si prevede un aumento dell’offerta della fruibilità dei servizi di conciliazione dei tempi di lavoro con la finalità di favorire l’occupazione femminile sia dipendente sia imprenditoriale. In particolare, le azioni previste dovrebbero favorire anche la nascita di nuove iniziative imprenditoriali a sostegno della conciliazione nonché equiparare la maternità delle lavoratrici autonome a quella delle lavoratrici dipendenti grazie all’introduzione dell’indennità di maternità a carattere universale. In tal senso auspichiamo che possa essere rispettata anche la tempistica individuata nel Def a settembre 2014, per l’approvazione del ddl. Il problema dell’accesso al credito bancario, inspiegabilmente più oneroso per le donne che invece, numeri alla mano, risultano più prudenti e maggiormente solventi rispetto agli uomini. Quello dei finanziamenti è uno dei problemi più gravi per gli imprenditori. In questo caso, alle differenze di genere, si sommano gli squilibri nell’accesso al credito tra diverse dimensioni imprenditoriali. Le piccole imprese devono fare i conti con un credito sempre più scarso e costoso che blocca le opportunità di sviluppo, scoraggia gli investimenti e rallenta i processi di innovazione tecnologica. Tutto ciò, mentre le nostre aziende sono alle prese anche con i ritardi di pagamento degli Enti pubblici e dei privati che le costringe a chiedere prestiti per compensare i mancati incassi dei «cattivi pagatori». Quando le banche decideranno di sostenere la ripresa?
D. L’Italia è, tra i Paesi ad alto reddito, quello che utilizza al minimo il potenziale femminile. Quali i pilastri da rifondare per colmare il divario con l’Europa?
R. I dati del nostro Osservatorio  dimostrano che fare impresa è sempre più un mestiere da donne. Siamo in presenza di una imprenditoria femminile che va incoraggiata. Al pari dei nostri colleghi abbiamo bisogno di interventi che ci liberino dai troppi vincoli e costi che soffocano le iniziative imprenditoriali. E vogliamo contare su un welfare che permetta alle donne di conciliare lavoro e famiglia e di esprimere nell’impresa le nostre potenzialità.
D. Le piccole e medie imprese sono state protagoniste indiscusse del miracolo economico italiano. A quali condizioni possono tornare ad esserlo per una decisiva ripartenza del Paese?
D. Siamo un popolo di imprenditori e lo dimostriamo ogni giorno, a dispetto della crisi e dei tanti ostacoli che troviamo sul nostro cammino. Potremmo fare molto di più se non dovessimo correre frenati da una zavorra pesantissima fatta di pressione fiscale, oneri burocratici, servizi pubblici costosi e inefficienti, alto costo del credito. Tanto che nella classifica sulla facilità di fare impresa l’Italia è al 73esimo posto tra i 185 Paesi del mondo. E allora per ripartire serve un fisco più leggero perché oggi la pressione fiscale effettiva supera il 50 per cento del Pil. Serve una burocrazia più semplice, perché oggi le imprese sprecano in adempimenti amministrativi oltre 30 miliardi l’anno. Serve un credito più accessibile, bisogna ridurre i costi della pubblica amministrazione, rendere più efficienti servizi pubblici e infrastrutture efficienti. Vogliamo una giustizia rapida e un welfare attento alle nuove esigenze dei cittadini e degli imprenditori. Abbiamo bisogno di interventi mirati ai settori più innovativi, come, ad esempio, la green economy e l’Ict. Ma servono anche progetti di rilancio e valorizzazione dei comparti più tradizionali del manifatturiero. Va ripensata e sostenuta una politica formativa per orientare i giovani nel mercato del lavoro. Perché il futuro dell’artigianato e della piccola impresa italiana lo devono scrivere le nuove generazioni. L’Italia non riprenderà a crescere se non farà propria, in modo diffuso, e non saprà trasmettere ai giovani, la cultura d’impresa, la valorizzazione del rischio, del talento, del merito, la libera iniziativa, lo spirito di concorrenza e di innovazione, la passione tipicamente artigiana per la qualità, per il lavoro a regola d’arte. Se non vogliamo perdere il nostro patrimonio produttivo e disperdere la ricchezza del made in Italy, dobbiamo investire in questa direzione.
D. Sembra il libro dei sogni?
R. Sono soltanto le condizioni minime indispensabili per rimettere in moto lo sviluppo, ridare slancio agli investimenti, alle esportazioni, ai consumi. Le nostre imprese hanno bisogno di concretezza, hanno bisogno di uno Stato che dia loro fiducia e che investa sui talenti del made in Italy. Quel made in Italy che, nonostante tutto, mantiene posizioni di primo piano sui mercati mondiali grazie alla tenacia, alla passione, alla creatività, alla tradizione, all’innovazione di milioni di imprenditori e imprenditrici italiani.   

Tags: Maggio 2014

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