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PAOLO BARATTA: la biennale di venezia, da macchina del vento a macchina dei desideri

Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia

È uno dei principali operatori pubblici della cultura italiana. Milanese, già manager di vaglia con prestigiosi incarichi ricoperti nel mondo bancario e delle istituzioni, ha un passato di ministro in numerosi Governi negli anni Novanta. Si presenta così Paolo Baratta, attuale presidente, dal 2007, della Biennale di Venezia, carica che ha già ricoperto dal 1998 al 2002 in quella che è una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo, istituita a Venezia nel 1895 e trasformata in Fondazione nel 2004, i cui uffici risiedono nel quattrocentesco palazzo Ca’ Giustinian affacciato sul bacino di San Marco. Laureato in Ingegneria nel Politecnico di Milano e in Economia a Cambridge, in ambito governativo è stato ministro delle Privatizzazioni nel Governo Amato (1993), del Commercio estero e ad interim dell’Industria nel Governo Ciampi (1993-94), dei Lavori Pubblici e dell’Ambiente nel Governo Dini (1995-96). Prima e dopo queste parentesi ha fatto parte dei Consigli di amministrazione di varie società, fra cui Telecom Italia, Banca Finnat Euroamerica, Electrolux, Zanussi, Ericsson, Olivetti e Svimez; ma è stato anche presidente di Bankers Trust, del Crediop e dell’Icipu, e vicepresidente del Nuovo Banco Ambrosiano e dell’Associazione bancaria italiana.

In ambito culturale è stato presidente della Fondazione Valla per i classici greci e latini, vicepresidente dell’Accademia filarmonica romana, consigliere di amministrazione della Fondazione Pietro Bembo, dell’Istituto italiano di studi storici e dell’Ente Einaudi, infine membro del Consiglio di amministrazione dell’Università veneziana Ca’ Foscari.
Il nutrito calendario della Biennale di Venezia, la cui eco si diffonde in tutto il mondo per la qualità e la quantità dell’offerta, per il 2014 prevede 5 appuntamenti imperdibili. Il primo è la 14. Mostra Internazionale di Architettura dal 7 giugno al 23 novembre, cui seguono: il 9. Festival Internazionale di Danza Contemporanea dal 19 al 29 giugno, la 71. Mostra d’Arte cinematografica dal 27 agosto al 6 settembre, la Biennale College-Teatro dal 30 luglio al 10 agosto, il 58° Festival Internazionale di Musica Contemporanea il 20 e 21 settembre e dal 3 al 12 ottobre. Per il 2015 invece è pronto il calendario della 56° Esposizione Internazionale d’Arte dal 9 maggio al 22 novembre.
Domanda. Governo, economia e cultura: come è riuscito a fondere diversi mondi operandone all’interno?
Risposta. Lavorando con senso di dedizione nel settore pubblico e con estrema fedeltà al compito dell’istituzione in cui mi trovavo. Sono, queste due, virtù essenziali per chi appartiene alla classe dirigente, ma rappresentano qualcosa di molto più complicato e complesso della semplice capacità manageriale; considero assolutamente riduttiva la visione del manager che ha davanti a sé l’esclusivo obiettivo dell’efficienza.
D. Che significa, in termini culturali ed economici, gestire una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo?
R. Avverto, in giro nel mondo, anche qualche invidia benevola nei confronti della Fondazione, della sua esistenza e del fatto che questo Paese dalla storia sofferta ha saputo mantenere viva questa istituzione nel tempo. Negli ultimi anni di recuperato prestigio internazionale mi sento, ma senza presunzione, il rappresentante di una parte eccellente italiana.
D. Quali sono le differenze nei progetti e nei risultati tra la sue due gestioni della Biennale, distanti tra loro nel tempo?
R. Direi che sono enormi, cominciando dall’aver accresciuto il numero di siti rinnovati e ristrutturati in cui progettare ed operare, passando poi alla continuità di esercizio dell’attività rispetto alla saltuarietà precedente, al carattere internazionale e al dialogo rafforzati con il mondo. Un altro universo che è cambiato ma a cui tengo molto riguarda la qualità del personale interno formatosi in questi anni. Sottolineo questo fattore perché è basilare, sempre sottovalutato nell’ambito delle istituzioni culturali, interessate unicamente alla materia trattata ma non al mondo umano e competente che vi opera.
D. Durante il suo primo mandato alla Biennale, nel 2002 fecero discutere i suoi contrasti con Massimiliano Fuksas, allora direttore del settore Architettura, e finiti con la revoca dell’incarico all’architetto. Cosa accadde e qual è il suo odierno rapporto con l’«archistar» romano?
R. Fuksas condivideva con me grandi ambizioni per la Biennale di Architettura ma non si sentiva a proprio agio nel dividere i limiti e le fatiche dei primi anni necessari per realizzare gli obiettivi prefissati. Dopo l’inevitabile frattura e dopo un lungo periodo di black out, ci siamo però reincontrati.
D. Tre anni fa lei definì la Biennale una «macchina del vento che solleva questioni». Cosa intendeva dire? E oggi quel vento è cambiato?
R. La macchina del vento è un motore che solleva questioni ma spazza via quello che si vede dopo averlo mostrato, al fine di recuperare spirito libero per quella successiva. Sento il bisogno di fare qualcosa di diverso e di più. Nello stesso tempo, però, percepisco intorno all’arte e all’architettura il diffondersi di atteggiamenti tendenzialmente conformistici, magari di popolare adesione ma di estrema alterità, che provocano un divario tra la società civile e l’architettura per cui non viene stabilito, con questa’arte, un rapporto intenso. Tutto questo rischia di portarci al conformismo e alla sterile accettazione di tutto. Ho pensato, allora, di dover stimolare al massimo per far rinascere il desiderio sia di arte che di architettura. Per cui oggi chiamerei la Biennale la «macchina del desiderio».
D. La Biennale, che lo scorso anno ha registrato 22 milioni di euro di entrate proprie, è un modello di grande qualità amministrativa che fonde sistema pubblico e gestione privata. Come si realizza tale modello vincente?
R. Nel rapporto tra il settore pubblico e quello privato, solo se è efficiente, autonoma, ben gestita e dotata di strumenti statutari di tipo imprenditoriale, l’istituzione pubblica riesce a dialogare con efficacia e con grande soddisfazione con il settore privato. Se invece è povera, ostacolata da norme burocratiche e priva di strumenti per poter dialogare da pari a pari con la controparte, rischia di essere imbelle di fronte alle inevitabili, eccessive richieste del privato, o comunque di generare incomprensione. Il mio motto è «Si privatum vis para publicum».
D. Rolex in qualità di partner e Foscarini sono alcuni degli attuali sponsor della Fondazione. Come si sceglie il giusto sponsor in ambito culturale e qual è, invece, il ruolo dei «donors»?
R. Scelgo come partner solo chi sappia gestire una sponsorship come un vero contratto di pubblicità, che ne tragga giustamente tutti i vantaggi possibili prodotti dall’accordo ma che, di contro, non pretenda di interferire nell’attività della controparte. Non è facile, però, trovare tale perfetto interlocutore poiché molto spesso gli sponsor, soprattutto quelli italiani, hanno sviluppato nel loro interno una sorta di presunzione di essere loro gli artefici dei contenuti nella materia che vanno a sponsorizzare. I «donors», invece, costituiscono un fenomeno molto interessante, ma contemporaneamente delicato da trattare perché, se mal gestiti, potrebbero produrre interferenze, come gli sponsor. Questo si evita solo se l’istituzione è sufficientemente forte e ben organizzata, e se sa come trattare con tale categoria ottenendo in cambio da loro elargizioni solo citandoli. Per noi avere tanti donors rivela la nostra capacità di essere autonomi, indipendenti e competenti sul loro ruolo.
D. Per la quattordicesima edizione della Mostra di Architettura cui parteciperanno ben 65 Paesi e il cui titolo è «Fundamentals», lei ha scelto, quale direttore, l’architetto olandese Rem Koolhaas, affermando che «sarà una Biennale di ricerca sull’architettura». Può spiegare meglio il programma?
R. Se la Biennale è una macchina per il desiderio, deve far rinascere la voglia di architettura. Uno dei modi per riuscirvi è, come fa Koolhaas, quello di riproporre all’attenzione del pubblico gli elementi di riferimento dell’architettura. I vecchi riferimenti quali spazio, vuoto, pieno, superficie e volume, sembrano essere ormai diventati una sorta di rumore di fondo delle brutture che abbiamo intorno, generando una certa decadenza. Koolhaas compie un atto di coraggio dicendo che l’architettura non consiste più nei «grandi involucri» che sono ovunque gli stessi, ma è costituita dagli elementi fondamentali che incontriamo nel nostro vivere dentro le strutture di architettura, cioè scale, stanze, ascensori, corridoi, porte, finestre, balconi, cose e luoghi a noi familiari, ma che abbiamo dimenticato.
D. Il Padiglione Italia, che si sviluppa su una superficie di circa duemila metri quadrati alle Tese delle Vergini dell’Arsenale, è curato da Cino Zucchi che ha scelto il titolo «Innesti Grafting». Può anticiparne gli aspetti?
R. Quest’anno si punta sulla ricerca con un tema, quello del rapporto con la modernità negli ultimi cento anni di storia (Absorbing Modernity 1914/2014), che coinvolge i padiglioni nazionali, chiamati a illustrarlo secondo le specificità dei diversi Paesi. Nel Padiglione Italia ci sarà uno spazio riservato anche ai progetti dell’Expo 2015 e al futuro dell’area milanese, per la quale una serie di giovani studenti di architettura sono stati chiamati a immaginare futuri possibili.
D. Il direttore del settore Arti visive della prossima 56. Esposizione Internazionale d’Arte 2015 sarà il nigeriano Okwui Enwezor, dopo Massimiliano Gioni. Che ha chiesto al nuovo curatore?
R. Da Enwezor mi aspetto una riflessione sul ruolo della Biennale ieri oggi e domani, ed anche sulle condizioni dell’arte contemporanea.
D. Nel 2013 l’Esposizione Internazionale d’Arte, oltre all’esordio della Santa Sede per la prima volta presente con un padiglione, ha ottenuto oltre 470 mila visitatori con un incremento dell’8 per cento rispetto alla Biennale del 2011. Commentando i risultati, lo scorso novembre lei ha sottolineato la vittoria del «popolo degli zainetti», cioè i giovani, quali grandi fruitori della 55esima edizione. Quanto la Biennale guarda ai giovani?
R. Per avere il «popolo degli zainetti», occorre operare nelle scuole, organizzando un esercito di persone competenti che frequentino professori e maestri sia nelle scuole elementari che negli asili perché, se si considera quello il proprio pubblico di riferimento, è con esso che occorre stabilire un dialogo e un rapporto fiduciario. Abbiamo sviluppato il settore Educational che si occupa di far entrare i ragazzi con amicizia e disinvoltura nelle discipline Danza, Teatro e Musica. Questo perché abbiamo notato una discreta familiarità dei giovani con queste arti, in particolare con la musica, permettendo a questi ragazzi di stare un certo numero di ore con compositori e musicisti per acquisire il senso del suono come qualcosa di possibile, di familiare e realizzabile. Riuscire ad interessare i giovani delle scuole medie alla musica contemporanea per immersione immediata e diretta, e riuscire a catturare la loro attenzione, è un risultato molto importante e ne siamo orgogliosi. Gli stessi musicisti e i critici che vengono al festival di musica non frenano la propria emozione di fronte al fatto che la metà della sala è popolata da questi ragazzi che, in religioso e attento silenzio, ascoltano un concerto di un’ora e mezza, ad esempio di un violino solista con musiche di John Cage.
D. Lei si è dichiarato in passato contro la «museificazione» dell’arte. Cosa aggiunge, oggi, sul tema?
R. I musei sono assolutamente indispensabili ma è l’atteggiamento museale che rischia di diventare un po’ obsoleto. In più la museificazione dell’arte, talvolta può sconfinare nella feticizzazione della stessa, con il rischio di avvicinarsi più alle forme di intrattenimento circensi che non alla cultura legata all’arte. Un antico e saggio curatore diceva che un museo deve essere una centrale di produzione di energia. Io dico che può essere una centrale di produzione di desiderio, che è l’energia che muove il mondo. 
D. Con la Santa Sede ci sono progetti e quale è il suo rapporto con Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani?
R. La Santa Sede parteciperà senz’altro alla 56. Esposizione Internazionale d’Arte 2015. Con Paolucci, ex collega nel governo Dini, c’è un profondo rapporto di amicizia e di stima.
D. Lei ha definito «un coraggioso» il direttore della Mostra d’Arte Cinematografica Alberto Barbera; perché?
R. Nell’edizione della mostra del 2000 Barbera premiò con il Leone d’oro alla carriera Clint Eastwood, cosa che fece arricciare il naso al popolo dei vecchi e temibili cinefili. Ed è stato sempre lui, in seguito, ad aprire la rassegna alle case di produzione indipendenti americane.
D. Come procede il programma di recupero integrale dell’ex Casinò del Lido, progetto che rientra nell’ampliamento della capienza delle sale cinematografiche a 5.515 posti ad uso della Rassegna del Cinema?

R. Da quando la mostra non si fa più nel Palazzo del Casinò siamo impegnati in un lavoro di recupero dei vecchi spazi storici, affiancato da una campagna di comunicazione fondata sul fatto che siamo il primo Festival nel mondo e lavoriamo negli spazi del primo Festival del mondo, due cose assolutamente uniche di Venezia. Il casinò ne è il centro logistico. Fui io, nel 1999, ad aprire tale struttura alla stampa, oggi riconosciuta come una delle sale-stampa più belle che un festival possa avere. Ed è quello il cuore pulsante della Mostra d’Arte Cinematografica.

D. Durante il Governo Letta, lei è stato cooptato per far parte di una commissione di 20 saggi per progettare il rilancio del ministero dei Beni culturali e del turismo. Quali erano le linee guida?
R. Sono latore della proposta di una direzione generale per il personale riguardante la formazione e le carriere, attività che, normalmente, nei ministeri vengono «annegate» negli Affari generali. Volevo sottolineare il ruolo straordinario della qualità del personale in un ministero che ha forti compiti e poteri, a cominciare dalle soprintendenze. Basta con la mediocrità burocratica: se dobbiamo rispettare i nostri beni culturali dobbiamo rispettare la cultura di coloro che vi operano.
D. Da economista, lei aveva definito il «jobs act» del Governo Renzi, in particolare il contratto unico e l’elasticità in entrata, una «svolta». Su quali punti lei pensa che darà frutti? 
R. Le istituzioni culturali, per loro natura, lavorano a progetto. L’attività continuativa è limitata, ad esempio nella nostra istituzione, solo al suo corpo centrale. Ma dalle sezioni Restauro, Musei, Gallerie alla Biennale stessa, si lavora per progetti, quindi guai a far cadere il contratto a progetto. Nella nostra Fondazione possiamo fare occupazione solo con il contratto a termine. Con i provvedimenti del Governo precedente ho dovuto mandare a casa 7 stagisti perché incompatibili con le nuove norme del ministro Elsa Fornero. E questo per me è stato un dolore perché stagisti, da noi, significa ragazzi che dopo le scuole vengono ad imparare la professione. Ne vorrei moltissimi perché la Biennale è un luogo nel quale si può apprendere, toccando con mano quella materia che nelle scuole e nelle università viene vagamente descritta con i termini ambigui e incomprensibili come di «economia della cultura».

D. I crolli a Pompei quale «rabbia culturale» le provocano? Se potesse, come risolverebbe il problema?
R. All’area di Pompei probabilmente andrebbe dato un organismo capace di agire con autonomia amministrativa e con un’organizzazione interna sistematicamente dedicata a quello, come siamo noi. Apprezzo gli sponsor esterni quando intervengono, ma se la nostra Repubblica fondata sulla cultura non riesce a far pagare ai cittadini le risorse per sostenere Pompei ed Ercolano, tanto valeva lasciarli interrati. Continuando con i paradossi, per pagare il canone della Rai ogni italiano, compreso chi non lo paga, contribuisce per circa 30 euro a testa. Dagli stessi italiani il Mibact, per gli investimenti nelle strutture di sua proprietà, riceve attraverso le tasse 2,70 euro a testa, cioè meno di un decimo di quello che gli italiani pagano all’ente radiotelevisivo. Occorrerebbe maggiore equilibrio. Suggerirei, allora, al ministro competente di cercare più soldi per il suo ministero.
D. Il Veneto ha detto «sì» all’indipendenza in un referendum on line promosso da un movimento venetista. Che pensa dei movimenti indipendentisti?
R. Nelle questioni territoriali detesto la parola indipendenza; sono invece favorevole all’autonomia cioè alla capacità propria di gestione di alcune funzioni. Sono favorevole a un’articolazione più autonoma dell’amministrazione pubblica.
D. Il passaggio delle grandi navi nella laguna di Venezia è stato da lei definito un «lusso» futurista. Perché?
R. Perché mi ricorda Marinetti e il Futurismo più dello sbarco sulla luna o di un satellite, ma è anche un gesto violento con cui il progresso sfida il passato. Detto ciò, se ne può fare francamente a meno.
D. Tra le istituzioni culturali del mondo, quale affiancherebbe alla Biennale?
R. Per compiutezza di settori e ampiezza di superficie non ve ne sono analoghe; per prestigio citerei Documenta a Kassel in Germania, il MoMA di New York, la Tate di Londra, il Centro Pompidou di Parigi. Per l’ammirazione che ho del loro lavoro, posso dire che sono tante.

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