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Marina di Muzio: riconoscere il ruolo dell’agricoltura è pensare a un’italia diversa

Marina di Muzio, presidente di Confagricoltura Donna

Nel giorno in cui i dati dell’Istat rivelano che il prodotto interno italiano cresce dello 0,1 per cento nell’ultimo trimestre dell’anno e che l’agricoltura, insieme con l’industria, è il comparto che più ha partecipato alla conquista dell’agognato segno «più», appare ancora più evidente l’esigenza che Marina di Muzio, presidente di Confagricoltura Donna, reputa davvero urgente: «Occorre riportare l’agricoltura al centro dell’attenzione della politica e dell’agenda economica. È un posto che le spetta di diritto, e tanto più adesso che, numeri alla mano, il settore sta confermandosi come la nostra più consistente risorsa anche come traino dell’export made in Italy. Il comparto agricolo è robusto e guarda al futuro, ma proprio per questo ha bisogno di essere ascoltato su basi nuove, rivalutato alla luce non solo del suo millenario apporto alla nutrizione e alla civiltà, ma anche dell’indubbia rinascita che sta vivendo, tanto più necessaria in questo momento di drammatica crisi». I dati dell’Istat parlano anche di 11.485 nuove imprese agricole nate nel 2013, di cui oltre il 17 per cento ha un titolare di età inferiore ai 30 anni. Ma se si parla di «ritorno alla terra» o di «esodo verso le campagne», alla ricerca magari di nuove sensazioni e antichi valori, la di Muzio mette subito in chiaro un aspetto: «Sono innamorata di questo lavoro. Ma non fuorviamo le persone facendo loro credere che si tratti solo di un’esperienza bucolica. Lo stesso Cicerone sosteneva che la vita nei campi non rende ricchi se non di emozioni, e io ribadisco che l’agricoltura è anzitutto duro lavoro. Aggiungo che il 98 per cento degli agricoltori proviene da una famiglia di agricoltori. Non è un caso. Solo crescendovi si può comprendere cosa significa amare la terra. È una vita di estremo sacrificio e, più che di un lavoro, si tratta di uno stile di vita, nel quale non c’è scissione tra lavoro e famiglia».
C’è da crederle, visto che non è certo una neofita del settore. Da quasi due anni alla guida di Confagricoltura Donna, così come già di Confagricoltura Donna Emilia Romagna, la di Muzio vanta un’esperienza agricola di lungo corso: sessant’anni e quattro figli, ha ereditato la dedizione a questo settore dalla famiglia di origine. Imprenditrice agricola «per vocazione e per passione», ha trasmesso questi valori ai propri figli «insegnando loro il rispetto per la vita e per il suo ciclo naturale, e l’amore per la terra». E così, proprio con i figli, Marina di Muzio conduce sei aziende nel Lazio e in Emilia Romagna che producono cereali, latte bovino e ovino, parmigiano reggiano, carne ovina e bovina, con vendita diretta.
Una donna fermamente convinta che in questa impegnativa scommessa di crescita del comparto agricolo e del sistema-Italia, sono le donne il valore aggiunto. Le donne in agricoltura, spiega la di Muzio, costituiscono una presenza purtroppo quasi silente, ma determinante. Da sempre. Tanto più oggi. «Basti notare che, dopo il commercio, l’agricoltura femminile rappresenta la quota più cospicua delle imprese gestite da donne».
Domanda. Aziende agricole in rosa. Quale realtà esiste oggi e con quali prospettive?
Risposta. Abbiamo segnali molto rilevanti. Sappiamo anzitutto che l’imprenditoria femminile nel suo insieme, nonostante la crisi, è in crescita: dai più recenti dati Unioncamere emerge infatti che in Italia almeno un’azienda su quattro è a conduzione femminile, con un aumento di 7 mila unità rispetto al 2011. Per l’agricoltura le imprese condotte da donne, secondo i dati Unioncamere relativi al 2012, sono una su tre. Imprese che spaziano dall’attività produttiva alla multifunzionalità, che si organizzano e costituiscono reti, attitudine questa spiccatamente femminile.
D. Oggi l’agricoltura vive un momento di evoluzione all’insegna della multifunzionalità. Oltre alla coltivazione in senso stretto, si sono sviluppate altre attività come gli agriturismi e altri tipi di possibilità. Nuove chance fatte a misura di donna?
R. Quando si parla di imprenditoria agricola femminile, a mio avviso non bisogna pensare solo all’agriturismo o alla vendita diretta perché, invece di delineare nuove chance per le imprenditrici, sembrerebbe di relegarle in uno steccato. Possiamo dire, invece, che forse in questi ambiti la presenza femminile è diventata più visibile. La multifunzionalità quindi ha solo svelato le donne che lavorano in agricoltura. Una donna di solito sfrutta ogni possibile risorsa, si mette in gioco più degli uomini, sempre però con molta cautela e fondatezza, costantemente restando, è il caso di dirlo, con i piedi per terra. Però tengo a precisarlo: le donne fanno tantissimo sul piano dell’agricoltura tradizionale. Quella produttiva, che soddisfa la primaria esigenza di nutrizione del pianeta e di miliardi di individui, e che resta la più importante.
D. Quali altri skills uniscono donna e agricoltura?
R. Le aziende in rosa tutelano l’ambiente, si impegnano per mantenere integri il territorio e il paesaggio, conservano e proteggono il patrimonio naturale e la biodiversità, sono attente custodi delle tradizioni e vogliono produrre cibo sano. E poi, caratteristica fondamentale, le donne resistono, sono tenaci, non si arrendono neanche di fronte a una congiuntura difficile come quella di oggi. Campi rosa, la rubrica della nostra associazione su Mondo Agricolo, l’house organ di Confagricoltura, evidenzia come le aziende condotte dalle imprenditrici sono quelle che, nel 2012, hanno resistito di più nella trincea anti-recessione.
D. Per vivere e non solo sopravvivere, e a medio termine per crescere ancora, di che cosa c’è bisogno?
R. Penso che il primo passo sia ancora quello, mai davvero compiuto, di avere solidi strumenti di conciliazione tra la vita professionale, familiare e personale. Una donna occupata nell’agricoltura, secondo le statistiche, lavora un numero di ore molto più alto di qualsiasi altra donna impegnata negli altri settori. E già le donne italiane sono quelle che, a livello mondiale, lavorano di più senza retribuzione (326 minuti contro 131 della media Ocse). Ma a parte il welfare in senso stretto, che a mio avviso andrebbe cambiato di pari passo con una vera campagna di formazione e informazione capace realmente di mutare l’atteggiamento culturale di donne e uomini, c’è sul piano pratico un altro nodo rilevantissimo: occorre un fisco che faciliti davvero le imprese femminili e le assunzioni all’interno di esse. Non solo. È quanto mai urgente una «sburocratizzazione» del settore, ancora imprigionato in procedure lente e obsolete. Tutto questo però diventa impossibile se manca alla base un solido sviluppo di aree rurali e di servizi sociali, sanitari e scolastici. Va decisamente incrementata l’occupazione femminile, favorito l’ingresso delle donne nei luoghi decisionali, garantita l’opportunità di una formazione omogenea nel territorio. A far riflettere sul ruolo delle donne in agricoltura è anche l’alta incidenza delle imprese familiari: in ognuna di queste c’è almeno una presenza femminile. Il 33,2 per cento delle aziende agricole, poi, è condotto direttamente da un’imprenditrice. Confagricoltura Donna è impegnata a valorizzare la componente rosa e, in particolare, il significativo contributo femminile apportato allo sviluppo locale, sostenendone il ruolo. La presenza delle donne nelle aree rurali va favorita e valorizzata perché fa da barriera all’abbandono di vaste aree del Paese. Come Confagricoltura intendiamo far sentire le nostre esigenze dove si parla di politiche di genere, e diffondere al massimo, in campo comunitario, nazionale, regionale e provinciale, tutto ciò che è rivolto alle donne. Io mi ritengo fortunata perché nella vita ho potuto scegliere. Penso che il vero progresso di una società stia proprio qui: permettere a tutti e in particolare alle donne di poter decidere se lavorare, non lavorare, come lavorare.
D. Se la donna decide di lavorare, o se è costretta a farlo, sarà penalizzata nell’accesso al credito, concesso difficilmente e molto spesso a tassi più onerosi?
R. Questo è uno dei maggiori ostacoli, anche come forma di discriminazione che non ha ragione di esistere. Le imprenditrici continuano a confermare le proprie caratteristiche, una su tutte l’affidabilità, e malgrado ciò le donne che scelgono di aprire un’impresa continuano a godere di meno fiducia. Anche i dati della Banca d’Italia confermano che le donne sono le migliori pagatrici, a minore insolvibilità. Sono quelle che ricorrono sempre di più a fondi propri o familiari e che hanno minore propensione al rischio. Sono le proprio le imprese femminili quelle che chiedono meno finanziamenti rispetto agli uomini. Nonostante questo, la loro richiesta viene accettata in percentuale minore e alle imprenditrici vengono applicati tassi e durata del finanziamento meno convenienti. Infine, non ha senso parlare di microcredito per le donne. In particolare in agricoltura non si può pensare in micro. Per fare un’azienda sono necessari investimenti rilevanti. Le donne hanno bisogno di credito nella forma, nella sostanza e nell’entità per fare impresa.
D. Recentemente il viceministro del Lavoro con delega alle pari opportunità ha compiuto un bilancio del primo anno di applicazione del decreto sulle quote di genere. Più di due terzi dei consigli e più di metà dei collegi sindacali delle società controllate dalla Pubblica amministrazione si sono adeguate alle regole. Un risultato soddisfacente?
R. È un fatto confortante, che dà speranza. Quando un trend si mette in moto ed è così capillare non può essere fermato. In tutto il mondo avanzato si è già al superamento delle quote di genere. In Italia, sia pure con tempi più lunghi, ci avviamo a questo traguardo, ma per l’agricoltura siamo ancora decisamente indietro. È paradossale se si pensa a quante donne siano impegnate da sempre in questo settore, in cui siamo lontani dall’attribuire al lavoro svolto dalle donne pieno riconoscimento e rappresentatività. In occasione del World Economic Forum di Davos è emerso che il prodotto interno lordo degli Stati Uniti aumenterebbe del 14 per cento e del 16 per cento in Giappone. Non si tratta esclusivamente di una questione «etica», molti studi indicano che inserire più donne contribuirebbe ad espandere e stimolare una crescita più inclusiva. Ma in Italia, e non aggiungo altro, secondo una recente ricerca Istat, la donna in termini di potenziale produttivo (capitale umano) vale ancora esattamente la metà di un uomo.
D. Il Rapporto Eurispes 2014 ha evidenziato un tasso di disoccupazione femminile europeo del 20 per cento maggiore di quello maschile; in Italia è del 30 per cento?
R.  Certo la situazione è molto grave e per le donne lo è ancora di più. In Italia, oltre alla crisi del lavoro, c’è anche un grave problema di esclusione di genere nel mercato del lavoro ed è preoccupante gender gap nel tasso di disoccupazione giovanile nelle regioni del Centro Italia. La disoccupazione di lunga durata colpisce le donne per quasi il 30 per cento in più degli uomini. Occorre far ripartire il lavoro; solo così potrà ripartire l’economia. L’agricoltura, messa nella condizione di farlo, potrebbe dare una grossa mano per la ripresa. In aggiunta a questo esiste un «gender gap» che va assolutamente colmato. In Lettonia un manager su due è donna, in Italia solo uno su quattro. Arranchiamo nel raggiungimento di certi obiettivi e, a mio avviso, non è diffuso lo stesso sentimento in tutti gli strati della popolazione rispetto a questi obiettivi. Oltre all’eterogeneità della realtà italiana, il problema culturale esiste ed è determinante. C’è un grande divario tra le persone che vivono nei grandi centri urbani e quante stanno nelle aree rurali del Paese. Secondo il Rapporto Cedaw, basato sui dati che ogni Paese fornisce all’Onu, riguardo alla condizione femminile l’Italia è tra i Paesi più arretrati. Stento a riconoscere il mio Paese in questo ritratto, tanto che ho intenzione di scrivere loro per conoscere esattamente i parametri che vengono usati.
D. Come riportare l’agricoltura e i suoi problemi nell’elenco delle priorità del Paese?
R. Anzitutto informando tutti correttamente e senza mistificazioni sul ruolo primario che l’agricoltura svolge come motore dell’economia. Non possono essere sviluppate tutte le altre possibilità di un Paese se prima non si è riconosciuto al settore agricolo il suo ruolo fondamentale. L’agricoltore è imprenditore e, come gli altri, deve essere messo in condizione di perseguire le proprie potenzialità. Questo significa anche pensare a un Paese diverso. L’agricoltura non si fa in città, si fa nelle campagne. Ma se nelle nostre campagne mancano scuole, ospedali, linee internet, palestre, come fa la vita a progredirvi? Quando si arriva in Italia in aereo e si vedono i campi coltivati, si ha la sensazione di un mondo che avanza. Una terra abbandonata, invece non ha vita. Gli agricoltori producono cibo, energia e ambiente, va rivalutato il ruolo che le imprese agricole svolgono ed è necessario che emerga anche il ruolo delle imprenditrici, che hanno in modo naturale il valore per la vita e per la tutela dell’ambiente. Occorre un nuovo approccio verso un settore che non è residuale, ma centrale e vitale per il progresso e la crescita. Ma, soprattutto in un mondo dove tutto è connesso, chi è fuori non conta. L’agricoltura tutta deve anche essere in grado di uscire dalla dimensione esclusivamente di settore, superarla e ricostituire, attraverso la cultura dell’innovazione, un sistema delle conoscenze che prenda forza dalla terra. Occorre saper coniugare tradizione e modernità, considerando l’agricoltura parte integrante del Paese, nel Sistema Italia.    

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