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la guerra delle competenze. conflitti professionali tra medici e infermieri

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del prof. Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell’Organizzazione sanitaria di Filosofia della Medicina dell’Università Tor Vergata di Roma

 

Medici e infermieri: un rapporto difficile
Le due professioni che reggono praticamente l’intero sistema sanitario sono i medici e gli infermieri. Insieme rappresentano gran parte degli 820 mila dipendenti della sanità. Pur avendo ruoli diversi, condividono gli stessi spazi di lavoro, le stesse organizzazioni, gli stessi malati e purtroppo anche le stesse restrizioni finanziarie. Una quindicina di anni fa, dopo una lunga battaglia, gli infermieri riescono, almeno sulla carta, a recidere il cordone ombelicale dell’ausiliarietà con il medico, diventando una professione autonoma. Ma a parte una piccola parte di loro che diventano dirigenti o poco altro, la maggioranza resta prigioniera in vecchi mansionari e in vecchi rapporti ancillari con i medici. Da allora i rapporti tra queste due professioni sono andati peggiorando. Quel cordone ombelicale fu reciso a dispetto dei medici che, a dire il vero, non si mostrarono mai tanto propensi a rivedere consensualmente i loro vecchi poteri e men che mai a ripensare vecchie organizzazioni.
Oggi nel vuoto più totale della politica e nel momento in cui la sanità è massacrata dai tagli lineari e i medici sono probabilmente nel più basso grado di considerazione sociale, gli infermieri rappresentati e spalleggiati non senza un tornaconto dalle Regioni e dal Ministero della Salute, dichiarano contro i medici la «guerra delle competenze». In discussione al Ministero vi è una bozza di accordo che prevede di assegnare agli infermieri delle competenze mediche. Le Regioni, sempre più «alla canna del gas», per risparmiare hanno pensato che gli infermieri potrebbero svolgere in parte il lavoro dei medici e costare decisamente di meno. Si chiamano «competenze avanzate», una strana faccenda tra crisi, economicismo e professionismo, che gli infermieri, pur di avanzare nella loro professionalità, sono disposti a svolgere a costo zero.
Questa strana guerra non ha i tratti consueti del corporativismo tradizionale, semmai ha quelli mai confessati e ammessi dell’«ascenseur social», quindi del prestigio e dello status sociale. Ma nessun infermiere ammetterebbe una cosa del genere. Essi sono orgogliosi di essere infermieri e a tutti i venti dicono che non vogliono essere «mini medici». Parlano di «competenze avanzate» in nome e per conto del malato, della specialistica, cioè dei vantaggi di un’infermieristica di punta, dei valori della «relazione» che solo gli infermieri assicurerebbero, come se ambire ad un’altra considerazione sociale fosse per loro imbarazzante.
Eppure, nei loro discorsi, costante è la presenza dell’autoriferimento a se stessi come professione, da cui si capisce che quel vecchio sogno di riscatto degli anni 90 per loro è ancora tutto da conquistare. Ma proprio per questo la guerra degli infermieri a me pare che da una parte non affronta alla radice i problemi che hanno impedito alla stragrande maggioranza degli stessi di realizzare il proprio sogno; dall’altra ricorda i ciechi che fanno a sassate senza rendersi conto che proprio essi sono al centro di un attacco senza precedenti. Il timore è che le cosiddette «competenze avanzate» alla fine finiscano per valere per un’altra piccola parte di infermieri lasciando indietro, come 15 anni fa, il grosso della categoria.

Un caso strano di dumping: onore senza salario
Le competenze avanzate per gli infermieri sono un lavoro in più ma a «costo doppio zero». Nella sanità pubblica tutti gli operatori sono normalmente «a costo zero», perché la loro retribuzione, di fronte a un lavoro reso sempre più gravoso dal blocco del turn over, non solo è congelata ma anche decurtata dai tagli lineari. L’infermiere che svolge competenze avanzate, oltre ad essere un operatore a costo zero, è anche un «infermiere doppio zero», cioè un operatore che in nome «dell’onore» chiede a costo zero di poter svolgere altre competenze. Doppio zero come la farina per fare il pane. Per comprendere questa cosa inusuale è meglio abbandonare le logiche sindacali sul salario ricorrendo a quelle psico-sociologiche del prestigio sociale, dello status e del ruolo, che i medici malevoli traducono con l’espressione «invidia professionale».
Le competenze avanzate sono molto ambite da alcuni infermieri perché darebbero, secondo loro, prestigio sociale per cui la loro retribuzione diventa quella che una volta si chiamava «onorario», ma nel suo significato più antico cioè l’«onore» quale compenso per aver svolto qualcosa di importante per la comunità. Ma un infermiere pagato dalle Regioni con la «corona di alloro» altro non sarebbe se non una forma spuria di dumping, in cui il lavoro è venduto a un prezzo inferiore rispetto al suo costo di produzione con effetti distorsivi sull’intera partita della contrattazione.
Che i medici e gli infermieri siano come i separati in casa si sa da quando gli infermieri hanno tagliato il cordone ombelicale dell’ausiliarietà; che da allora gli infermieri soffrano di una condizione di ambiguità, cioè di essere sulla carta dei dottori ma non dei medici pur continuando a svolgere le mansioni di sempre, è arcinoto, ma proprio per tutto ciò viene da chiedersi: ma che senso fare dumping a danno degli altri operatori e in un momento in cui il lavoro nella sanità è sotto attacco? Che senso ha prestarsi ad essere spudoratamente strumentalizzati dalle Regioni che offrono loro corone di alloro per risparmiare sul costo dei medici? Ma non è meglio discutere con i medici di come aggiustare le cose?
Considerato il contesto restrittivo, sembrerebbe più sensato definire una strategia per sviluppare non solo le competenze ma tutta la professione; ma questa volta in una logica di co-evoluzione con gli altri, facendo attenzione alle necessità della poli-professionalità e quindi del team. In una situazione nella quale il lavoro nella sanità è al centro di un attacco senza precedenti, il dumping rischia di rivelarsi semplicemente come lavoro più a buon mercato, quindi più sfruttabile. La legge di stabilità appena approvata attraverso i tagli sul lavoro sta attuando il progetto di definanziamento.
Nel 2017 la spesa sanitaria dovrà calare di un punto percentuale rispetto al prodotto interno. Le condizioni di lavoro per medici e infermieri sono all’estremo del sopportabile. Oggi il vero bersaglio delle politiche di definanziamento è il lavoro, che ormai non vale più niente rispetto alle utilità che produce, nel senso che il suo costo è solo un costo quindi artificialmente separato dai benefici che crea come se fosse un «anti capitale», cioè un capitale senza valori. In questa situazione pesante non giova a nessuno fare dumping. Oggi si dovrebbe tutti insieme ricapitalizzare il lavoro nella sanità, co-evolvere come lavoro prima ancora che come singola professione.
Si può ricapitalizzare il lavoro lavorando ad esempio in modo diverso e riuscire a produrre un maggior plusvalore, si possono ripensare le organizzazioni del lavoro per ridurre le loro diseconomie interne, si possono ripensare le prassi, per modernizzare i trattamenti, le prestazioni cioè i servizi, e in questo quadro riformatore ripensare le competenze. Fare dumping è pericoloso, perché non va dimenticato che per un malato non è conveniente che l’utilità marginale dell’infermiere cresca ma a spese di quella del sistema professionale nel suo complesso.
 
Alle origini del conflitto: 10 nodi e un pettine solo
Alla radice della guerra delle competenze in corso in realtà vi sono vecchi problemi irrisolti di «inconseguenza» e di «indeterminazione» della professione e questo perché tra una norma scritta sulla carta e una prassi in corsia o nel proprio servizio, ancora oggi più che mai la distanza è quasi incolmabile. Il punto fondamentale è che la norma che ha superato l’ausiliarietà dell’infermiere nei confronti del medico per affermarne l’autonomia avrebbe avuto bisogno di ripensamenti organizzativi che non ci sono stati; di un’intesa con i medici per ridefinire una forma nuova di relazione, che non c’è stata; di una ridefinizione professionale fortemente innovativa che a sua volta non c’è stata perché tutto si è risolto nella scrittura di un generico e burocratico profilo professionale.
Oggi quindi tutti i nodi vengono al pettine e la guerra delle competenze appare come una forma di depistaggio cioè di manovra diversiva, diretta a sviare l’attenzione degli infermieri dalla drammatica situazione in cui vivono offrendo loro competenze come se fosse il proverbiale specchietto per le allodole, ma soprattutto volta a nascondere le difficoltà e i limiti di una classe dirigente che a tutt’oggi non è riuscita a mettere a fuoco un vero e proprio progetto di riforma e a sviluppare una nuova politica delle alleanze. In fin dei conti la guerra delle competenze campa sul presupposto dell’utilità e dell’uso del conflitto, quindi sul presupposto inaccettabile che medici e infermieri siano nemici irriducibili. Nei congressi degli infermieri la standing ovation si ha immancabilmente quando si parla male dei medici.
I principali nodi che a tuttora non sono stati sciolti e che in ogni caso la guerra delle competenze non scioglierà mai, sono i seguenti: medici e infermieri sono professioni per loro natura con un alto grado di correlazione che, se alterata o ripensata ma non concordata e riorganizzata, tradirà nel tempo forti contraddizioni e nel tempo dalla cooperazione si passa alla competizione, dalla competizione alla conflittualità; come ridefinire di fronte a distinte autonomie professionale un nuovo grado di correlatività tra operatori diversi: oggi l’infermiere è definito dalla norma come una professione intellettuale ma la prassi della sua pratica ordinaria continua a considerarlo nei fatti come una professione ausiliaria.
Ed ancora: come recuperare lo jato che c’è tra norma e realtà, cioè come portare avanti un cambiamento che riguardi l’intera categoria degli infermieri e non solo una piccola parte di loro; questo jato non è attribuibile solo alla resistenza conservatrice dei medici, ma anche a norme scritte male, approssimative, superficiali, ma soprattutto non sorrette da un vero cambiamento organizzativo: come ripensare i contesti organizzati in cui rivedere le storiche divisioni del lavoro tra medici e infermieri; in sostanza la nuova autonomia della professione infermieristica è stata semplicemente dedotta dal superamento dell’ausiliarietà nei confronti del medico, ma non da una nuova concezione di malato, da una nuova organizzazione del lavoro o da nuove relazioni interprofessionali correlate; come completare la definizione professionale dell’infermiere a partire da nuovi explananda quali la nuova figura del malato, la domanda di salute, i contesti aziendali, i nuovi imperativi deontologici. i limiti finanziari, le relazioni interprofessionali ecc.
La nozione di «infermiere», quindi, ha cambiato il proprio uso attributivo con le leggi, ma nella pratica non ha cambiato l’uso referenziale che resta quello vecchio; come si può far coincidere l’uso attributivo della nozione di infermiere con il suo uso referenziale? Cioè, chi è l’infermiere oggi e come dovrebbe essere domani dal momento che il suo profilo professionale è quanto di più generico esista? La guerra delle competenze nasconde vecchi problemi di «inconseguenza» che è sia mancanza di effetti pratici di una norma sulla realtà sanitaria, sia possibilità di una contraddizione nella definizione di infermiere. Gli infermieri sono inconseguenti perché dalla stessa norma deriva sia una certa definizione di infermiere sia il suo contrario, cioè deriva un piccolo numero di infermieri avanzati e un gran numero di infermieri arretrati. Come si può definire la professione di infermiere in modo coerente alla norma, in modo unitario e non difforme, definendo un modello di base arricchibile con definiti sbocchi specialistici?
Ma la guerra delle competenze nasconde anche problemi di indeterminazione: la norma sul nuovo infermiere nella pratica esprime comunque un infermiere vago, poco definito nelle sue definizioni o molto definito in alcune sue competenze. Come possiamo superare nella realtà la vaghezza professionale dell’infermiere, cioè la pratica del tappabuchi, dell’operatore multitasking flessibile e adattabile a qualsiasi circostanza dell’organizzazione del lavoro? La massa degli infermieri prima regolava il proprio lavoro con il mansionario, ora dovrebbe regolarlo con il profilo ma, avendo un profilo molto generico, essa tende a regolarsi di fatto con il mansionario, cioè con un elenco di azioni tecnico-professionali la cui responsabilità nonostante la legge ritorna ad essere in parte del medico.
Come si può riscrivere il profilo per renderlo meno generico ma anche per andare oltre la tradizionale nozione burocratica di profilo, per definire qualcosa che raccolga tutti i principali explananda professionali di un infermiere? Si definisce «infermiere post-ausiliario» un infermiere, compreso tra inconseguenza e indeterminazione, che ha cambiato il proprio passato ma senza riuscire sino ad ora a cambiare pragmaticamente il presente e che affronta il futuro promuovendo guerre per acquisire nuove competenze senza rimuovere mai le contraddizioni che bloccano la sua crescita come categoria.
Come si fa, come categoria, ad andare davvero oltre l’ausiliarietà e a conquistarsi un ruolo di «autore» del proprio lavoro? Gran parte dei problemi degli infermieri nascono dal modo come la loro battaglia è stata condotta sino ad ora, cioè spallate, strappi in alto che in differita creano opposizioni in basso. Questo è certamente causato dall’indisponibilità dei medici a discutere, dal loro accentuato conservatorismo, da un’idea vecchia di medico ma anche dal non disporre di un progetto convincente di riforma del lavoro che punti ad una coevoluzione delle professioni. Come si fa a creare condizioni di cooperazione in basso e quindi a ridefinirsi nella co-evolutività?

La proposta delle «competenze avanzate»
Quasi due anni fa le Regioni e il Ministero della Salute tirarono fuori una proposta sulle competenze avanzate degli infermieri muovendosi su quattro presupposti: esiste una normativa sulla professione infermieristica da attuare; le competenze avanzate che si propongono per gli infermieri sono un risparmio perché i medici costano più degli infermieri; esiste il problema del blocco del turn over, per cui i medici nel tempo caleranno di numero; sorge quindi la necessità di compensare le piante organiche dando più competenze alle altre professioni sanitarie.
Ai medici viene spiegato che con le competenze avanzate si libera in modo esteso il loro potenziale operativo, il tempo clinico del medico sarà meglio utilizzato, alla fine sarà il medico il vero beneficiario dell’operazione «competenze avanzate». Tutto questo in un momento, in cui il medico è delegittimato, con una crisi di identità senza precedenti, con sulle spalle una «questione medica» che fa paura per la sua complessità, dentro aziende che ne hanno fatto il problema per antonomasia. Ma la proposta di competenze avanzate, che a prima vista, sembra tutta a favore degli infermieri, in realtà tradisce delle incongruenze anche nei loro confronti. All’inizio del suo percorso si riduce ad un trasferimento, più che di competenze, di mansioni per lo più tecniche dal medico all’infermiere, e specifica che l’attribuzione di competenze è concepita «senza che venga meno la titolarità» dei medici, quasi a reintrodurre dalla finestra ciò che la normativa per gli infermieri ha buttato fuori dalla porta, ovvero l’ausiliarietà.
Definire le professioni sul rapporto profilo professionale-competenze in realtà è un’operazione regressiva perché oggi abbiamo bisogno, sia per ragioni sociali che per ragioni economiche, di un nuovo genere di operatore nella sanità, non più «compitiere» ma «autore», cioè di un operatore che sappia coniugare in modo nuovo i rapporti tra autonomia e responsabilità e che si renda disponibile a farsi verificare sulla base dei risultati che produce. Per medici e infermieri si tratta di diventare entrambi «autori» per cui ribadiamo che si pone una grande questione di co-evolutività delle professioni. Bisognerebbe smetterla di pensarle con le logiche divisionali dei compiti e delle competenze e parlare il linguaggio dell’impegno professionale, delle qualità soggettive, delle relazioni cooperative tra professioni diverse, e ripensarsi nella complementarietà e nell’interconnessionalità.
La sanità è una impresa di gruppo, è il gruppo che deve co-evolvere in tutte le sue componenti in riferimento a nuove concezioni di convenienza sociale ed economica del lavoro, quindi a nuove organizzazioni. Questo non esclude che si abbiano evoluzioni specialistiche, ma queste devono rientrare in un altro ordine logico che è quello dell’evoluzione scientifica della pratica come risposta all’evoluzione di certi bisogni del malato. Ma per risolvere i problemi di categoria il grande salto da fare è ammettere quattro cose: il lavoro in sanità oggi è tarato su modelli e su organizzazioni ampiamente regressive, cioè inadeguate culturalmente e che producono per questo un mucchio di inutili costi come sovrapiù alla spesa storica; la strada non è quella delle competenze per risparmiare, ribadiamo che altra cosa è lo sviluppo specialistico per esigenze scientifiche, ma è risolvere il problema dell’intrinseca antieconomicità di vecchie organizzazioni del lavoro e di vecchi modi di lavorare nei servizi; le professioni tutte non saranno mai appropriate se prima non risolveranno i loro anacronismi di fondo sia nei confronti della società sia nei confronti delle risorse; è fuorviante ridefinire le competenze degli infermieri e lasciare il grosso di loro dentro contesti culturalmente e organizzativamente arretrati.

Dieci critiche alla proposta del ministero
Le ambiguità della proposta avanzata dal Ministero della sanità sulle competenze avanzate sono oggettivamente rilevanti per una serie di motivi:
1) aver impostato male fin dall’inizio una questione la cui natura di fondo avrebbe richiesto la condivisione di chiari postulati per una co-evoluzione delle professioni. Perché non lavorare per una co-evoluzione di tutte le professioni? Su quali basi si è deciso che una professione è più cruciale di un’altra? Oggi gli obiettivi economicistici delle Regioni si saldano con quelli degli infermieri che legittimamente vogliono sviluppare in qualche modo la loro professionalità. Ma se agli infermieri non si può di certo rimproverare di perseguire il loro interesse, qual è ruolo di governo dell’istituzione?
2) La mancanza di una definizione esplicativa di «competenza». È sbagliato normare qualcosa senza chiarire bene di che cosa si tratta, ancor di più se la normazione coinvolge una comunità di professioni e complesse organizzazioni del lavoro. Che cosa sono le competenze? E cosa vuol dire ridefinirle, realizzarle e approfondirle? Per il Ministero della Salute sostanzialmente le competenze coincidono con i compiti deducibili dalla normativa disponibile, e sono definibili con criteri inerenti le attività descritte nel profilo professionale. In realtà non si tratta di ascrivere all’infermiere qualche mansione in più, ma come si legge nella relazione, di allargare le competenze per ridefinire un nuovo profilo professionale.
3) Il Ministero ha corretto l’impostazione iniziale neo-mansionaristica della propria proposta dicendo chiaramente che l’obiettivo delle competenze è la modifica del ruolo professionale dell’infermiere, cioè la definizione di una «nuova autonomia e responsabilità professionale». Ma è una forzatura portare avanti una ridefinizione normativa dell’infermiere fuori del Parlamento con un accordo Stato-Regioni. Ma se è legittimo da parte degli infermieri tutelare i loro interessi professionali, all’istituzione ministeriale tocca prima di tutto governare i rapporti con le altre professioni proprio per evitare conflitti dannosi. Quindi mansioni, competenze o ruoli?
4) Nella proposta del Ministero si legge che il campo delle competenze degli infermieri sono tutti i loro compiti, «fatto salvo le competenze previste per la professione medica». Questo vuol dire due cose: che le competenze infermieristiche non si possono definire a prescindere da quelle mediche, perché queste si configurano come un confine e senza confini una proprietà non è delimitabile; e che, se si definiscono le prime supponendo l’invarianza delle seconde, in realtà si pensa semplicemente di redistribuire in modo diverso quello che c’è e non di sviluppare un vero cambiamento
5) La domanda legittima è la seguente: come è possibile che competenze definibili solo in relazione con gli atti di altre professioni, siano ripensabili a prescindere? Cioè, come si può pensare di definire un infermiere senza definire un medico e il contrario?
6) Sulla carta le Regioni dispongono le cose come se fossero titolari delle competenze professionali e delle funzioni formative ad esse correlate, ma senza avere nessun titolo per farlo. A leggere l’articolo 117 della Costituzione, la funzione «Norme generali sull’istruzione» rientra tra le competenze esclusive dello Stato, e nelle materie di legislazione concorrente sono espressamente escluse «l’istruzione e la formazione professionale». Ma allora perché forzare le regole e non fare le cose bene, per evitare che tutto si impantani in un estenuante contenzioso legale?
7) L’organizzazione dei servizi è di spettanza regionale ma nella proposta del Ministero è demandata ad atti e accordi successivi. Essa non propone uno sviluppo di competenze dentro una riorganizzazione di sistema, ma in realtà una redistribuzione di competenze tra professioni rispetto ad alcune aree di intervento ad organizzazione invariante.
8) Le perplessità più rilevanti nascono dal timore di riprodurre errori del passato. Oggi non si tratta di intervenire su ciò che ha impedito all’infermiere di evolversi con il medico, e su ciò che a tutt’oggi non è stato prefigurato in un altro progetto di infermiere.
9) Che cosa si sarebbe dovuto fare da tempo? Una riforma del lavoro o semplicemente aggiungere a un burocratico profilo qualche compito in più mettendo in competizione le professioni? I medici sono tendenzialmente conservatori e mal si separano dalle loro storiche prerogative, ma siamo sicuri che tutti gli altri abbiano chiaro il progetto di cambiamento che servirebbe? Gli infermieri sono riformisti perché vogliono fare competenze avanzate? O perché a certe prospettive essi sono in grado di contrapporre delle contro prospettive?
10) La proposta del Ministero sulle competenze avanzate è un déjà vu. Essa ripropone lo schema di gioco che fu alla base delle conquiste legislative degli infermieri degli anni 90, cioè un ruolo professionale suggellato da una formazione ad hoc senza curarsi delle sue condizioni di fattibilità.

Competenze, compiti, mansioni e tecniche
Con la guerra delle competenze è in atto una sorta di corsa alle «tecniche», e più precisamente a quelle di competenza del medico. Esse sono numerose e non vale la pena elencarle. Valga per tutti l’esempio del catetere pic. La vera questione non è chi esegue, ma chi decide. Se le tecniche rientrano nell’indagine clinica si ripropone inevitabilmente un’implicita «ausiliarietà» dell’infermiere rispetto al medico, la stessa che con il nuovo linguaggio post-ausiliario si chiama «collaborazione». Sull’ausiliarietà bisogna fare chiarezza. Sulla sua abolizione come condizione giuridica non c’è discussione. Ma dal punto di vista strettamente funzionale-operativo l’ausiliarietà è la condizione di base perché sia l’infermiere che il medico possano collaborare. Questa si chiama ausiliarietà correlativa.
L’ausiliarietà è la condizione necessaria per organizzare la complementarietà e la reciprocità di un gruppo. Essa quindi è una condizione che vale «nello stesso modo» per il medico e per l’infermiere. Il verbo «ausiliare» significa aiutare, ma il senso profondo del termine «ausilio» è quello di aumentare, accrescere la forza. L’infermiere e il medico sono entrambi «ausili» che insieme aumentano l’efficacia della cura. Ma anche le tecniche sono «ausili», anche se in forma strumentale.
Gli infermieri che pensano alle tecniche o alle competenze avanzate come al loro futuro non si accorgono di tradire una mentalità para-medica. Le tecniche, per quanto parte della loro attività, non sono la cosa fondamentale per l’assistenza infermieristica, mentre lo sono per la clinica medica. Privilegiare le tecniche vuol dire accentuare gli aspetti para clinici del lavoro infermieristico, non quelli assistenziali. Che un infermiere acquisisca nuove tecniche o nuove competenze non è un problema, anzi è financo un valore e un arricchimento, diventa problema serio, se esse sono la prospettiva professionale prevalente a scapito di tutte quelle teorie assistenziali riassunte nella nozione di «nursing». Se prevalgono le tecniche o le competenze avanzate nella professione, l’infermiere, più che essere una professione intellettuale, diventerebbe una professione tecnica.
Ma la contraddizione ritorna: essendo inquadrabile nell’ambito delle tecniche, la competenza avanzata assomiglia molto al vecchio discorso della mansione dal momento che questa era molto semplicemente un «compito», quindi un «atto» da svolgere nell’ambito di un lavoro collettivo o di un’attività complessa. La corsa alle «competenze tecniche» diventa un problema se è fuga dalla relazione assistenziale e se è una riproposizione surrettizia di una vecchia logica mansionaria. Esse si costituiscono comunque come delimitazione di un’attività scomposta per atti semplici.
Conclusioni
1) Ancora nessuna organizzazione degli infermieri ha chiarito in modo convincente in cosa debba consistere il ruolo dell’infermiere di domani e in relazione a quale medico: se questo ruolo dipenderà dalle competenze avanzate esso riguarderà solo una parte degli infermieri, perché non tutti gli infermieri potranno svolgere competenze avanzate; se invece le competenze avanzate sono un mezzo per ridiscutere il ruolo, allora la questione riguarderà l’intera categoria che in questo caso si vuole traghettare oltre l’area dell’assistenza e specificarla tendenzialmente come una figura tecnica medico-sanitaria, cioè una professione che va oltre il concetto di assistenza; se invece si vuole definire un ruolo nel quale a una base definitoria della professione si prevedono degli sviluppi specialistici, in questo caso si devono rimuovere tutti gli ostacoli che sino ad ora hanno bloccato la professione nella sua estensione nonostante le norme favorevoli, e nel contempo prevedere percorsi differenziati di specializzazione.
2) È necessario che gli infermieri chiariscano come essi pensano di affermarsi quale professione, cioè se credono di poter procedere per guerre o per accordi consensuali. Se si decide di procedere per guerre essi accentueranno la loro autoreferenzialità, romperanno correlazioni fino a concepire la cura come una somma di atti distinti da professione a professione; se si decide di procedere per convenzioni di punti di vista allora bisogna aggiornare la strategia.
3) Esiste il rischio, attraverso le competenze avanzate, di specializzare alcuni infermieri e di lasciare indietro la stragrande maggioranza di loro. Se la categoria resterà indietro, la maggior parte degli infermieri resterà prigioniera di prassi che non cambiano, con un’accentuazione della conflittualità tra professioni e professioni e tra professioni e cittadini. Bisogna dire che la maggior parte degli infermieri non sono interessati a svolgere competenze in più, ma a migliorare la loro condizione lavorativa.
4) Le competenze avanzate rischiano di nascondere e di sviare l’attenzione dal vero dramma degli operatori: sta cambiando il mondo, le condizioni di lavoro sono sempre più difficili, le condizioni finanziarie sempre più restrittive, e ciononostante a tutt’oggi non esiste un progetto di riforma del lavoro. Si compete tra operatori in uno status quo in cui il massimo che si può fare è giocare con le mansioni, con i compiti, con le competenze in una permanente guerra delle competenze.
5) «L’infermiere doppio zero» rischia di configurarsi come una forma di dumping in un momento in cui il prezzo del lavoro infermieristico è ridicolo, nel senso di essere un salario da sfruttamento vero e proprio. Questo non si può addebitare solo alla crisi e al blocco dei contratti, ma a una contraddizione storica che gli infermieri non sono riusciti sinora a rimuovere: come mai a un grande progresso normativo sulla carta, a un nuovo profilo professionale, a nuove competenze, gli infermieri non hanno mai ottenuto un riconoscimento retributivo adeguato? Non si può teorizzare la crescita professionale dell’infermiere proponendone lo sfruttamento. Se da una parte si gonfia il ruolo dell’infermiere, ma dall’altra si decapitalizza il valore del suo lavoro, siamo al paradosso.
6) Gli infermieri oggi sono frammentati in diverse organizzazioni mostrando nel loro insieme di non riuscire ad avere una visione organica dei problemi che riguardano la loro categoria e meno che mai ad avere un progetto di riforma del loro lavoro. La contraddizione che emerge con forza, soprattutto sottolineata da alcuni sindacati, è quella tra crescita dell’autonomia professionale e realtà ordinaria dell’infermiere. Come a dire: è inutile diventare dei padri eterni, fare guerre per altre competenze, rompere rapporti di collaborazione preziosi, contendere poteri ad altre professioni e continuare ad avere le peggiori condizioni di lavoro.   

Tags: Febbraio 2014 ministero della Salute professioni sanitarie Ivan Cavicchi

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