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caterina cittadino: dal turismo alla famiglia, dai giovani agli anziani, secondo etica

Caterina Cittadino,  responsabile del Dipartimento Politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio

a cura di
SERENA PURARELLI

 

Un curriculum vitae modello europeo di 15 pagine che rimanda al ritratto di una donna in carriera un po’ speciale, capace di unire competenze burocratico-amministrative, entusiasmo per il proprio lavoro, sensibilità verso i meno fortunati, consapevole  della portata sociale ed economica, oltre che culturale, di alcune azioni di Governo. Nata a Reggio Calabria, laureata in Giurisprudenza, Caterina Cittadino da qualche mese è responsabile del Dipartimento per le Politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri. Una carriera lunga quasi trent’anni, che comincia nel 1984 con un incarico, giovanissima, presso l’Ufficio legislativo del Dipartimento della Protezione civile e passata, poi, ad incarichi di sempre maggiore responsabilità. Dirigente della Presidenza del Consiglio dal 31 dicembre 1989, nel 1999 è nominata consigliere. Rilevante l’incarico ricoperto dal 2009 al 2012 di capo del Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo, nel corso del quale ha anche presieduto l’Osservatorio nazionale per il Turismo e l’Organizzazione mondiale del Turismo. Caterina Cittadino è stata anche, dal 1999 al 2001, direttore del sito internet del Dipartimento della Funzione pubblica, dove ha realizzato il primo sito istituzionale completamente accessibile ai disabili, coordinato un comitato di esperti per la definizione di linee guida per l’accessibilità dei siti pubblici e predisposto la prima direttiva pubblica sui criteri per la realizzazione di siti pubblici accessibili ai disabili. Chi la conosce la definisce una forza della natura. Racconta che il turismo oggi è diventato per lei un hobby, e per questo ha costituito un’associazione che in un solo anno registra già un successo di adesioni, e di essersi iscritta, sempre per hobby, a un corso di recitazione che è quasi una università, con esami veri: «Mi piace molto e credo mi giovi per correggere una certa rigidità nei rapporti con le persone, che forse mi deriva dai ruoli che mi sono trovata ad assumere, di cui sento sempre una grande responsabilità». Senza tralasciare l’insegnamento di Diritto pubblico all’Istituto San Pio V e l’appartenenza a molti comitati scientifici, tra cui quello dell’Università LUSPIO ove si occupa di ricerca giuridico-amministrativa.
Domanda. Dall’aprile scorso è a capo del Dipartimento per le Politiche della famiglia, le cui competenze specifiche sono state definite in un decreto emanato il 29 ottobre 2009. Può spiegare in cosa si differenzia un Dipartimento rispetto a un Ministero senza portafoglio?
Risposta. La Presidenza del Consiglio dei ministri è composta di Dipartimenti e Uffici. I primi sono strutture più complesse, cui fanno capo più Direzioni generali. Gli Uffici, al contrario, contengono una sola Direzione generale. Il presidente del Consiglio, cui fa capo la struttura generale, può delegare le proprie competenze a un ministro. Dipartimento e Ministero senza portafoglio dunque si identificano nella sostanza, l’unica differenza sta nella titolarità delle deleghe. Il presidente Enrico Letta ha ritenuto di tenere per sé le competenze sulla famiglia, senza delegarle. E ciò nella convinzione, che condivido pienamente, che solo un coordinamento al più alto livello può efficacemente dare slancio all’azione, sulla base di una visione nuova.
D. Quali sono o saranno le politiche per la famiglia di questo Governo?
R. Voglio innanzitutto richiamare la legge che nel 2009 ha istituito il Fondo nazionale per le famiglie, un grande contenitore finalizzato a svolgere grandi compiti, i cui filoni principali riguardano le famiglie a basso reddito, la cura degli anziani e dei bambini e i problemi inerenti la conciliazione dei tempi di cura con quelli di lavoro. Ora intendiamo affrontare questi temi non più in modo frammentario, settoriale, ma piuttosto attraverso analisi accurate, in un’ottica di sistema. Capire come sono oggi le famiglie, quali quelle maggiormente in difficoltà, su quali intervenire prioritariamente e rispondere in modo razionale a questi interrogativi, così da distribuire le poche risorse a disposizione in modo più efficace e non a pioggia. Sembra banale, eppure è assai complicato tenere conto di tutte le complessità. Il Paese è complesso. Della famiglia si occupano cinque o sei Amministrazioni centrali e la riforma del Titolo V della Costituzione ha concesso nuove e più ampie competenze in materia alle Regioni, complicando ulteriormente la situazione, con grande dispendio di energie e risorse e scarsi risultati perché ognuno ha speso per sé. Il nostro compito oggi è cercare un coordinamento sia orizzontale con i Ministeri competenti, che verticale con le Regioni e gli altri enti locali, senza dimenticare le associazioni del non profit, al fine di capire la quantità effettiva delle risorse finanziarie, per poi tentare di avviare un piano di spesa coordinata.
D. Una scommessa complicata che richiede l’adesione convinta a un’etica del bene comune?
R. Il tema dell’etica mi tocca in modo particolare, perché è un termine cui spesso diamo, a torto, un valore residuale, molto limitato. Il codice di condotta dell’Amministrazione pubblica fa riferimento all’essere gentili, educati, rispettosi, di non accettare regali di valore, ma non credo affatto che questo basti: «etico» è venire in ufficio e riflettere su ciò che si fa, se serve. Si tratta di impegno e responsabilità che debbono permeare il nostro agire, e questo è un concetto che va molto al di là del fenomeno della corruzione. L’Unione Europea quando affronta la questione corruzione non la definisce come un reato, ma come la propensione alla deviazione dalle regole della morale, cioè guarda alla prevenzione, al momento prima dell’evento corruttivo. E proprio in materia di etica e corruzione nessuno sembra mai soffermarsi sui danni, che definirei accessori. Alle centinaia di milioni di euro calcolati dalla Corte dei Conti quale conseguenza occorrerebbe aggiungere il danno di sfiducia generato dai comportamenti scorretti, intendendo con ciò quelle tante buone pratiche che magari non sono poste in essere a causa di un clima di sfiducia generato da un sistema corrotto o anche semplicemente svogliato e poco produttivo.
D. Il problema resta sempre quello di utilizzare meglio il denaro pubblico?
R. Quando terminai il mio lavoro nel Dipartimento per il turismo, che è stato chiuso, fondai «Ethics for tourism», un’associazione senza fini di lucro che si propone di realizzare attività di studio, ricerca e sviluppo di progetti su temi legati al mondo del turismo, impostati proprio sul valore dell’etica, della coesione sociale, dello sviluppo sostenibile e di ogni altro argomento ritenuto di interesse dell’associazione, in armonia con i principi espressi nel Codice mondiale di etica del turismo, creando una «comunity» nel mondo del turismo. Un’idea semplice che in un solo anno ha già registrato numerose adesioni. L’obiettivo è fare rete, individuare progetti innovativi e realizzare iniziative che valorizzino le eccellenze in ambito nazionale e internazionale, coinvolgendo grandi università italiane e straniere, istituzioni di ricerca, enti e istituzioni. Occorrerebbe scrivere un manuale di organizzazione etica del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, e da qualche mese ho cominciato ad avviare riflessioni in questo senso.
D. Come si compone l’organico del Dipartimento? Lei ritiene molto importante il Fondo nazionale per le famiglie?
R. La prima è una nota dolente: nell’ultimo anno, il Dipartimento è stato svuotato, e ora siamo solo 35 persone. Alle due Direzioni generali mancano due dirigenti, ma sto avviando, tuttavia, un’opera di attrazione verso di noi. Quanto al Fondo, quando è nato nel 2009 era dotato di consistenti risorse finanziarie, circa 250 milioni di euro, che sono venute via via riducendosi fino alle radicali diminuzioni registrate negli ultimi due anni. La dotazione del 2013 è stata di soli 16 milioni di euro e speriamo di superarla per il 2014. In queste cifre vanno comprese anche le spese per le Commissioni per le adozioni internazionali, e il riparto va comunque compiuto d’intesa con le Regioni. Gli importi attuali risultano ancora più irrisori se rapportati al numero delle famiglie italiane, 25 milioni 873 mila, con una media di 2,3 componenti ciascuna. Ma occorre anche rivendicare risultati assolutamente lusinghieri degli anni passati, come i 630 milioni destinati alla creazione di 55 mila nuovi posti negli asili nido. Purtroppo dal 2012 questo programma non è stato rifinanziato e ora possiamo solo puntare su qualche progetto pilota.
D. Nel giugno 2012, su proposta dell’alloro ministro Riccardi, è stato approvato il Piano nazionale per la famiglia, atteso da anni. Perché non se ne vedono ancora gli effetti?
R. Purtroppo vi sono molti problemi: malgrado il Piano, inteso come un quadro organico e di medio termine di politiche specificamente rivolte alla famiglia, contenga linee di indirizzo omogenee e indicazioni concrete sul da farsi e sulle priorità, non si riesce a procedere per carenze soprattutto economiche. Ma il nostro compito è di ricostituire le condizioni perché le famiglie possano recuperare energie e forza vitale, e per il 2014 pensiamo di usare i fondi almeno per monitorare l’esistente, cosa c’è e dove, dove sono le best pratices, per poi chiedere finanziamenti ad hoc. Infatti abbiamo avviato un progetto con il Ministero della Giustizia che sarà attuato certamente nel 2014, che riguarda le famiglie di bimbi che nascono in carcere e quelle dove vi sono minori che hanno commesso reati. Ma stiamo anche presentando proposte di politiche attive a carattere innovativo, per reperire risorse con modalità nuove. Occorre una revisione della normativa di raccolta dei fondi privati, tramite il «crowdfunding», oggi inesistente nella P.A., per richiamare la solidarietà su specifici progetti, anche attraverso l’invio di sms del valore anche di pochi centesimi. Si tratta insomma di coinvolgere la cosiddetta cittadinanza attiva anche sulle «policy, non solo sui controlli. Sono proposte che hanno suscitato reazioni entusiastiche da parte di tutti. Ho anche proposto di istituire i Distretti della famiglia sul modello del Distretto turistico, che aggrega imprese e istituzioni territoriali con lo scopo primario di semplificare i processi decisionali. Nello stesso modo il Distretto della famiglia creerebbe una zona a burocrazia zero, consentendo una forte accelerazione del partenariato di imprese per i servizi alle famiglie, oppure si potrebbero consentire benefici fiscali. Vorremmo creare un marchio dei territori, da replicare. Trento, ad esempio, si è data i servizi alle famiglie come mission, e nei sono scaturite buone pratiche, come ad esempio dotare i parchi di casette nelle quali le mamme possono allattare o cambiare i bambini, o semplicemente farli riposare. Conferire un marchio family friendly avrebbe un valore anche culturale e servirebbe di stimolo ad altri.
D. Resta sempre però il problema dei contributi necessari?
R. È vero, ma quello che occorre sviluppare è soprattutto la cultura della qualità dei servizi. La conciliazione dei tempi di cura e di lavoro incrementa la produttività insieme alla qualità di vita, e le imprese sono stimolate a farsi carico dei costi. Lo studio sul welfare aziendale nell’ambito del progetto «Welfare Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali» del Censis ed Unipol, presentato lo scorso 26 giugno, ha messo in evidenza che più welfare aziendale significa maggiore motivazione dei lavoratori, migliore qualità della vita, una più buona copertura sanitaria e previdenziale, in una prospettiva di modernizzazione dell’organizzazione del lavoro. Purtroppo sui temi del welfare e della flessibilità di orari di lavoro l’Italia è tra gli ultimi in Europa, ma non mancano esempi di best practice in grandi aziende come Tetra Pak, Unipol, Elica, Sas, e in strutture più piccole come Zeta Service. Dalla loro esperienza emerge che il welfare aziendale assume ormai molteplici forme e che migliori condizioni di lavoro fanno crescere la produttività aziendale.
D. Ha parlato di 2,3 componenti in media delle famiglie. Un dato certifica l’incapacità dell’Italia di crescere anche in questo. Il saldo negativo è evitato solo grazie agli extracomunitari che, appena integrati, riducono le nascite anche loro?
R. È vero che la bassa natalità costituisce un problema, ma vorrei richiamare l’attenzione su un dato che mi ha colpito. Il rapporto tra over 65 e nuovi nati in Italia è molto simile, se non quasi sovrapponibile, a quello della Germania. Il che significa che le cause non sono tanto economiche quanto culturali. Ai figli si vuole dare tutto e dunque se ne fanno sempre di meno. Il dato Istat parla di circa 500 mila nuovi nati l’anno nel nostro Paese. Dobbiamo essere consapevoli che una società che non riesce a riprodursi, sterile, lancia un’ombra sul futuro e una pesante eredità: nel 2007 la percentuale di nonni, persone ultra 65enni, ha superato la percentuale dei giovani da zero a 19 anni, e nel 2020 il numero dei bisnonni, ultra 80enni, supererà, a percentuali invariate di natalità e mortalità, il numero di bambini da zero a 10 anni. Facile immaginare l’impatto di questo invecchiamento della popolazione sulla tenuta del sistema di welfare, previdenziale, assistenziale e sanitario, e sul sistema delle famiglie.
D. Recentemente è stato di nuovo istituito l’Osservatorio nazionale sulla famiglia. Quali sono i suoi compiti?
R. È un organismo di assistenza tecnica e scientifica per l’elaborazione delle politiche nazionali per la famiglia, con funzioni di studio, ricerca, documentazione, promozione e consulenza. La presidenza del Comitato direttivo, che si è insediato l’estate scorsa, è stata affidata a Stefano Zamagni, persona di grande cultura ed esperienza. Tra noi si è creato un buon clima e contiamo di organizzare la terza Conferenza nazionale della famiglia nel primo semestre del 2014, evento a cui intendiamo dare concretezza. I cinque gruppi di lavoro a cui sono stati affidati grandi temi produrranno un documento unitario sulla base di una reale collaborazione tra Amministrazione e società civile. Vogliamo progetti realizzabili e questo è possibile perché nei gruppi vi sono anche le Regioni, dunque si possono mettere insieme le risorse.
D. Giovani e anziani, facce di una medaglia che spesso li vede contrapposti?
R. Su questo tema la nostra visione è del tutto diversa. Nell’ambito dei Progetti europei per giovani e anziani abbiamo stipulato convenzioni per progetti che mirano all’incontro «young and old». Vogliamo che si attivino gemellaggi su base non puramente nominale, ossia delle buone pratiche promosse per aiutare i Comuni che vogliono usarle. Intendiamo procedere a una mappatura di queste best pratices così da poter anche impiegare meglio i contributi, promuovendo una collaborazione solidale. Il 2012 è stato l’Anno dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra generazioni e noi siamo impegnati a costruire progetti di sussidiarietà circolare che impegnino i giovani, magari in cooperative o associazioni.
D. Intanto i giovani restano o tornano in famiglia per mancanza di lavoro?
R. È vero e i dati sono impressionanti. Il 70 per cento dei giovani tra 18 e 29 anni sono tornati a casa a causa della perdita di lavoro o di precariato. Di questo 70 per cento il 45 per cento cerca di reagire ma solo il 23 per cento trova lavoro, quasi sempre meno qualificato rispetto alla preparazione. Un altro dato è che per l’89 per cento di essi il lavoro resta l’obiettivo principale. Nel 2014 un fondo di garanzia di 30 milioni di euro è destinato ai giovani fino a 35 anni, secondo una graduatoria basata sull’Isee e sulla presenza di minori in famiglia.
D. Lei è stata a capo del Dipartimento del turismo, settore vitale per l’Italia. Cosa può dire?
R. È un tema che mi sta molto a cuore e che continuo a seguire con passione, nella ferma convinzione che possa e debba essere il grande volano per la crescita. Faccio parte di Astrid, la Fondazione per l’analisi, gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche e sull’innovazione nelle Amministrazioni pubbliche, nella quale coordino un gruppo che si occupa di turismo culturale e di tecnologie applicate. Il nostro è un Paese magico, con una stagione che nel Sud consente bagni in mare da aprile a novembre. Dobbiamo renderci conto che il Sud potrebbe essere il nostro Brics, il nostro Paese emergente. Tanto più che abbiamo a disposizione una quantità di fondi europei non ancora utilizzati per finanziare opere organiche. Occorre ripensare in toto la strategia e varare un piano straordinario, attivandolo subito, per creare il miglior turismo possibile. Ciò significa alberghi ecologici, cibo a chilometri zero, formazione professionale di eccellenza, reti di imprese e sistemi integrati fra istituzioni. Oggi c’è un imperativo al quale si deve prestare attenzione: occorre la spending rewiev, ma ancor più necessario è guardare alla crescita. E ciò va fatto con urgenza. Per questo immagino dei commissari straordinari ai quali affidare lo sviluppo di alcuni settori strategici, e tra questi vedo il turismo. Questa sarebbe per me una sfida che mi sentirei di accettare sia come servitrice dello Stato sia come donna meridionale.   

Tags: Gennaio 2014

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