Si fa presto a dire fame. Si fa presto a dire guerra.
L'editoriale di Victor Ciuffa
Finora tutti hanno parlato di crisi spinta all’eccessivo limite dalla globalizzazione, della conseguente povertà nel mondo che ha costretto gente ad emigrare e conseguentemente intere popolazioni a combattersi tra loro. E, a dispetto di chi lo prevedeva già 4 o 5 anni fa, vi si è arrivati effettivamente. Salvo un «peggio», che non è stato ancora neppure scongiurato. Le masse e in particolare i giovani sono sprovvisti di esperienza e quindi di preveggenza; esiste però tutta una folta categoria di persone che, per essere nate poco prima che scoppiasse la seconda grande guerra mondiale, pur nella loro imperizia, sprovvedutezza e ingenuità videro, anzi assistettero via via al nascere di quella situazione, di quelle cause che portarono alla seconda guerra mondiale. E conservano nella mente quelle terrificanti immagini che, arricchite da tutto quello che, ancora di più tragico e doloroso avvenne dopo, non hanno potuto più eliminare dalla loro memoria, dalla loro mente. Oggi siamo in una situazione simile, siamo come «color che sono sospesi»: perché c’è da chiedersi: «che cosa avverrà dopo gli avvenimenti di questi giorni?»
Purtroppo è difficile, quasi impossibile formulare previsioni. Le cause degli avvenimenti sono inaccessibili alla comprensione delle masse. Settimane fa è stato abbattuto - o è caduto casualmente - un aereo russo nel Sinai provocando oltre 200 morti e ancora non si sa perché e come. Abbiamo subìto, assistito, studiato tutte le guerre e guerriglie svoltesi nel mondo prima, durante e dopo la fine del secondo conflitto mondiale che si concluse inoltre anticipatamente a causa di due stragi mondiali: le due esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, volute da una delle due parti in guerra con il lancio dei due primi ordigni nucleari contro un’intera popolazione, a guerra praticamente esaurita.
Ma come cominciò quell’immane strage che coinvolse decine di Paesi di tutto il mondo? Sì, è vero. Le condizioni poste nell’armistizio seguito alla prima guerra mondiale del 1915-1918 non avevano soddisfatto la maggior parte degli ex nemici, anzi avevano creato altri problemi più gravi per quegli stessi vincitori. Già 5-6 anni dopo fummo costretti a discutere con i Grandi del mondo che non intendevano cedere nulla, ma sempre e solo vincere, prendere, ottenere, usurpare. L’Italia in particolare dovette assistere alla campagna d’Africa e a quella di Spagna, e anziché vedersi riconoscere i propri diritti, fu di nuovo punita, scippata, derubata. E per di più si fece crescere la nostra gioventù con queste idee, in perenne attesa di una «giustizia internazionale».
Oggi siamo in situazioni simili a quelle in cui fu fatto nascere e prosperare il regime nazifascista, che in breve riuscì a sostituire i sentimenti pacifici degli italiani con un’accozzaglia di idee furiose, rivendicazioniste, bellicistiche. Posso raccontare le vicende in cui mi furono fatte vivere le idee che circolarono innanzitutto dentro i nostri cervelli di giovinetti: parlo degli anni Trenta, quelli che ci impegnarono appunto in due conflitti, Etiopia e Spagna.
In quello di Etiopia le idee, le notizie, le convinzioni furono diffuse e guidate dal Governo e dai suoi organi e istituzioni; ma i risultati furono le bandierine di carta tricolore sorrette da spilli di acciaio, distribuite gratuitamente da organismi fascisti insieme a cariche di entusiasmo, esultanza, ottimismo diffuse dall’Eiar e dalla stampa ad ogni conquista degli italiani. L’aggiornamento delle bandierine avveniva sulla carta geografica dell’Abissinia stesa sulle scrivanie dei papà. Quanto alla guerra di Spagna, la nostra specializzazione era individuare gli aerei italiani che vi partecipavano. Tra quei piloti ve ne era uno del mio paese, facilmente riconoscibile, un bell’uomo, simpatico e tombeur de femme, colonnello che, dopo la guerra, mi ritrovai a fianco come sindaco democristiano nell’Amministrazione comunale in cui fui coinvolto.
Ma quale fu il segnale che annunciò a me e a tanti ragazzi come me l’apertura della grande trappola in cui l’Italia stava precipitando? A parte la dichiarazione di guerra pronunciata da Benito Mussolini il 10 giugno 1940 che ascoltai seduto sul gradino di travertino del marciapiede nella grande piazza del mio paese, davanti al Monumento ai Caduti della prima guerra mondiale. La guerra era già nell’aria. Io l’avevo prevista e temuta in uno di quei pomeriggi assistendo al passaggio di vari camion 18-BL militari che diffusero uno strano ma intenso profumo di paglia bagnata. Dove andavano? Nei giorni precedenti una compagnia di carristi, dotati di carri che sembravano giocattoli accanto a quelli tedeschi, aveva occupato uno dei due grandi edifici del lussuoso Albergo Renzi, frequentato anteguerra dai divi del «cinema dei telefoni bianchi»: Amedeo Nazzari, Clara Calamai, Doris Duranti, Lea Padovani, Osvaldo Valenti, Luisa Ferida, Maria Denis, Alida Valli e altri.
Tutti nomi destinati a restare nella storia del cinema oltreché in quella dell’epoca che li portò direttamente alla tomba, come la sfortunata coppia Doris Duranti-Osvaldo Valenti. L’ex tenente degli alpini antifascista Pietro Caleffi scrisse nel 1954 un libro di memorie rievocando, a 10 anni di distanza, le esperienze vissute tra il maggio 1943 e il maggio 1945. E giustamente l’intitolò «Si fa presto a dire fame». Scrisse tutto quello che aveva visto e vissuto del cerimoniale delle grandi carceri: infermerie, facce al muro e mani alzate, secondini anziani e reclute di Salò, sevizie, torture, unghie strappate, scosse elettriche, ustioni alle piante dei piedi. «Si fa presto a dire fame», intitolò Caleffi il suo bel libro che mi ha fatto tornare tra i tristissimi ricordi di guerra l’odore dei pagliericci degli umili e sconosciuti tenentini dei carristi e dei soffici e profumati materassi delle grandi dive di Cinecittà.
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