GIUSTIZIA L’abuso
del processo
di Antonio Marini
Alla luce della giurisprudenza
delle Sezioni Unite della Corte
di Cassazione, della Corte
di Strasburgo e della Corte
di Lussemburgo, l’abuso del processo consiste in un vizio
per sviamento della
funzione giudiziaria,
ovvero in una frode
della funzione stessa
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L’abuso
del processo
ella sua relazione sull’amministrazione della giustizia nel 2011, il primo presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, ha anche affrontato il delicato tema dell’abuso del processo, determinato, tra l’altro, da una patologica domanda di giustizia, che costituisce una delle più gravi anomalie del sistema giudiziario italiano. In proposito ha citato una sentenza delle Sezioni Unite penali, la 155 del 29 settembre 2011, di cui ha raccomandato la lettura per il carattere emblematico del caso concernente un’abnorme e ingiustificata proliferazione di procedure esecutive in campo civile promosse da una parte che poi, nel conseguente processo penale a suo carico, aveva posto in essere una serie continua di istanze, eccezioni, procedure incidentali, manifestamente infondate e palesemente dirette a ritardare la definizione del processo con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
Per chiarire quali sono i termini oggettivi che consentono di qualificare abusiva una qualsivoglia strategia processuale, civile o penale, condotta apparentemente in nome del diritto fatto valere, il Supremo Collegio ha ricordato che è ormai acquisita una nozione minima comune dell’abuso del processo, che riposa sull’altrettanto consolidata nozione generale dell’abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell’uso per finalità oggettivamente diverse rispetto all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto. Il carattere generale del principio dipende dal fatto che ogni ordinamento che aspiri all’ordine tende a darsi misure di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati in maniera abusiva, ovvero eccessiva o distorta. In ambito sovranazionale l’articolo 35 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui la Corte di Strasburgo dichiara irricevibile ogni ricorso incompatibile con le disposizioni delle Convenzioni e dei suoi Protocolli, consente, secondo un’interpretazione ormai consolidata, di ritenere «abusivo» il ricorso quando la condotta ovvero l’obiettivo del ricorrente sono manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto.
In altri termini, è abusivo qualsiasi comportamento del ricorrente manifestamente contrario alla vocazione del diritto di ricorso stabilito dalla Convenzione e che ostacoli il buon funzionamento della Corte, il buono svolgimento del procedimento dinanzi ad essa. Amplissima è poi la Giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che richiama la nozione di abuso per affermare la regola interpretativa che, colui il quale si appelli al tenore letterale delle disposizioni dell’ordinamento comunitario per far valere davanti alla Corte un diritto che confligge con gli scopi di questo, non merita che gli si riconosca quel diritto. Alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, l’abuso del processo consiste, dunque, in un vizio, per sviamento, della funzione giudiziaria, ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all’esercizio dei diritti potestativi, in una frode della funzione medesima.
Ne consegue che l’imputato, il quale ha abusato dei diritti che l’ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti. Di fronte a ciò il presidente Lupo ha auspicato un intervento normativo diretto a prevedere la trasmissione obbligatoria degli atti agli organi competenti per l’azione disciplinare, nel caso in cui il giudice accerti che il difensore, ma anche il pubblico ministero, abbia abusato del processo. La norma dovrebbe prevedere, inoltre, che il patrocinatore della parte privata sia condannato, con la sentenza che chiude la fase del processo, a una speciale e adeguata sanzione pecuniaria, tale da assicurare un’effettiva efficacia deterrente.
Parlando della prescrizione che agisce come una mannaia su un numero considerevole di processi, Lupo ha segnalato una sentenza emessa nel marzo scorso dalla Corte dei diritti umani, che ha affrontato per la prima volta il tema della compatibilità del sistema italiano di prescrizione del reato con gli standard internazionali di tutela dei diritti fondamentali. In un caso di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato di omicidio colposo addebitato ad un poliziotto, la Corte ha riscontrato una violazione da parte dello Stato italiano del diritto alla vita sancito dall’articolo 2 della Convenzione europea per i diritti umani. Richiamando la sua consolidata giurisprudenza, secondo cui quando un agente dello Stato è accusato di atti contrari agli articoli 2 e 3 della Convenzione, la procedura o la condanna non possono essere vanificate dalla prescrizione, la Corte ha ribadito che l’applicazione della prescrizione è una misura inammissibile in quanto impeditiva della condanna.
Il principio di diritto che può trarsi dalla pronuncia succitata, di indubbia portata innovativa, è quello dell’incompatibilità con gli articoli 2 e 3 della Convenzione di un meccanismo di prescrizione che, per effetto della durata del processo, impedisca ogni risposta sanzionatoria con funzione dissuasiva rispetto ai comportamenti posti in essere da soggetti investiti di autorità pubblica, in violazione del diritto alla vita e del divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Dalla sentenza, peraltro, si possono trarre ulteriori implicazioni per quanto concerne l’attuale disciplina della prescrizione, come modificata dalla legge 251 del 2005.
Tenuto conto della decorrenza del termine della prescrizione, il primo presidente non ha potuto fare a meno di constatare che per alcune tipologie di fattispecie criminose spesso la notizia di reato è acquisita in un tempo sensibilmente posteriore rispetto alla commissione del fatto, con la conseguenza che il procedimento penale nasce con un handicap temporale più o meno lungo, senza che possa imputarsi ad inerzia di chi svolge le indagini l’anticipato consumarsi del tempo di prescrizione.
Ciò costituisce un’ulteriore anomalia dell’ordinamento italiano, considerata la falcidie dei tempi di prescrizione, che rende di fatto molto arduo accertare responsabilità penali con sentenza definitiva di condanna prima della maturazione della prescrizione per molti reati anche di rilevante gravità. Al riguardo ha ricordato che, con un rapporto del 12 gennaio 2012, l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha raccomandato all’Italia di realizzare un adeguato prolungamento dei termini di prescrizione, al fine di permettere agli organi dello Stato di perseguire e sanzionare i responsabili di una simile attività criminosa, rilevando che nel passato decennio nel nostro Paese, proprio a causa dell’eccessiva brevità dei termini di prescrizione, è stato possibile sottoporre a pena solo tre dei sessanta soggetti perseguiti. |