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IL DESTINO DEI LAVORATORI

CGIL, UN SINDACATO CHE
NEL 2000 CONTINUA
A PENSARE COME UN SECOLO FA


di
LUCA D'ELBA

Roma. La sede centrale della Cgil

Artefice in passato
di un progresso diffuso,
permeata oggi da latente
cultura fordista, in preda
a schematismi tattici
e ferma all’antagonismo
nel mondo del lavoro,
la Confederazione sembra
aver smarrito il sano
pragmatismo di un tempo
e la capacità di realizzare
accordi di portata storica
e mutamenti sostanziali
nella cultura sindacale

uali forme presenta oggi il proletariato? Indossa ancora tute e panni di lavoro in grandi opifici industriali o veste in modo sobrio, opera nei call center, mostra il volto di giovani brillanti laureati, esprime lo sguardo malinconico di cinquantenni operosi posti ai margini del tessuto produttivo da una crisi finanziaria dai contorni lividi e oscuri, tanto maligna da gettare nel panico sempre più ampie fasce di lavoratori, mettendo a repentaglio gli elementi cardine della coesione sociale? Potrebbe apparire un interrogativo retorico, forse per molti, non per la maggiore Confederazione sindacale italiana, quella Cgil risucchiata ancor oggi da una latente cultura fordista, capace di impaniarla in schematismi tattici, inchiodata ad una lettura antagonista del mondo del lavoro, fedele a una bandiera che sembra aver smarrito quei simboli di rinnovamento che, nei molti nobili decenni della sua storia, ne hanno fatto l’artefice di un progresso diffuso, la punta di lancia di un movimento ricco di tensioni ideali, ma nello stesso tempo dotato di un sano pragmatismo, capace di realizzare accordi di portata storica, mutamenti sostanziali nella cultura del lavoro e non solo. Una confederazione capace di mobilitare le piazze con milioni di militanti, tuttavia oggi meno incisiva e determinante sul fronte dei contratti, delle novità, delle relazioni industriali.
Lungi da noi la presunzione accademica di individuare i percorsi complessi che segnano l’azione della Cgil dalla fine degli anni 90 ad oggi, altrettanto alieni siamo da quella vis polemica che sembra animare giornalisti e commentatori pronti a piegare ogni scelta alle ragioni del proprio modello per sostenere una tesi prefissata, disinteressandosi di capire le ragioni del dissenso o di un agire comunque ricco di motivazioni, fondato su una visione nobile dei fatti. Lasciamo agli uni e agli altri questo compito oneroso quanto affascinante; ci basterà osservare con una qualche attenzione i fatti di questi ultimi anni, provare a sviluppare un’analisi critica, sempre benvenuta quando ci si trova al crocevia della storia, in un saliente delicato che influirà inevitabilmente per i prossimi decenni sulla società italiana ed europea modificando in profondità strutture e metodiche del lavoro.
La costante della diversità rappresenta uno dei fili rossi dell’azione sindacale della Cgil a partire dalla conduzione di Sergio Cofferati che si misurò, o per meglio dire si scontrò con Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, proprio sul merito di un profondo, necessario rinnovamento della struttura contrattuale e dei modelli del lavoro, che la Confederazione di Via Po già allora avversava con i toni di un radicalismo d’antan. Un’aspra contrapposizione ad ogni incisivo cambiamento ha prodotto una sorta di prima frattura nel mondo sindacale rispetto alle altre due grandi confederazioni Cisl e Uil, disposte a timide aperture, alla ricerca di una nuova via del dialogo, per quanto impervia, con i Governi Berlusconi che hanno caratterizzato lo scenario politico degli anni duemila. Non è questa la sede per richiamare le ragioni di una divergente politica sindacale che andrebbe scandagliata con ben altra acribia. Ci basti ricordare che la Cgil di Cofferati decise da sola una mobilitazione muscolare capace di portare a Roma oltre un milione di lavoratori e pensionati. Gli osservatori più attenti la definirono una scelta di bandiera, un modo evidente per aumentare la coesione interna e le opzioni di campo, per segnare una forza diretta, tracciando un solco ideale tra quanti riconoscevano il primato della Cgil e gli altri, non importa che fossero progressisti o militanti di partiti di sinistra.
La Confederazione, in anni scanditi da un berlusconismo debordante caratterizzato da eventi di massa, volle dimostrare di essere padrona della piazza anche, o forse soprattutto da sola, in virtù di quella strisciante ambizione che da sempre pretende di collocarla quale mosca cocchiera di ogni movimentismo. Un grande sindacato popolare arroccato, più e meglio di chiunque altro, a difesa di un sistema consolidato e precostituito sul quale esercitare una leadership indiscussa. Ideali e valori di uguaglianza, di tutela dei diritti, di etica del lavoro hanno costituito il nucleo nobile attorno al quale erigersi a testuggine romana, contro offensive azzardate o scriteriati attacchi, rifuggendo da una dialettica del coinvolgimento che avrebbe condotto la Cgil a misurarsi in campo aperto sui temi moderni del lavoro, a prendere in considerazione diversi sistemi sociali e produttivi, esigenze innovative scaturite da una totale ridefinizione delle relazioni sindacali e del ruolo effettivo del lavoro, all’interno di un’economia mondiale sempre più interconnessa, capace di alimentare nel proprio seno squilibri tali da scatenare una crisi catastrofica senza precedenti, che ancora attanaglia l’intera economia internazionale.
Spaziare in un terreno culturale semisconosciuto accettando di ammainare vecchi vessilli e consunte parole d’ordine costituiva un azzardo per l’integrità dell’organizzazione, legata come era, e forse come ancora è, ad una visione anchilosata della società. Meglio fare quadrato, fissare steccati invalicabili e ben riconoscibili, votarsi ad una rigida opposizione, alla regola del «No», persino con un ineffabile nichilismo, purché non fosse intaccato o messo in discussione l’orizzonte complessivo entro il quale collocare la politica sindacale e le relazioni industriali con il Governo, i territori e le altre parti sociali.
Ha preso così sempre più vigore lo schema del veto, la non disponibilità manifestata in mille mutabili forme, la volontà di contare al tavolo, non quella di assumersi l’onere di accordi scomodi, in un periodo notoriamente di vacche magrissime, di ristrutturazioni, di fallimenti e volatilità dell’occupazione. Nessuna concessione sul piano dei diritti teorici, salvo poi arrivare a sottoscrivere in un secondo tempo le intese già raggiunte da Cisl e Uil, avversate prima con indubitabile evidenza mediatica.
Sono passati anni, figure diverse per storia, cultura e tradizione si sono avvicendate alla guida della Cgil, da Sergio Cofferati a Guglielmo Epifani sino a Susanna Camusso, eppure nessuna con il proprio carisma si è voluta allontanare da quello che oggi appare come un cliché, una coazione a ripetere: da un lato, gli altri sindacati, movimenti, partiti, dall’altro, in una sorta di isolamento la Confederazione di Via Po, se questo risulterà splendido lo vedremo a stretto giro. Viene da evocare il cosiddetto «zoccolo duro»di berlingueriana memoria; sta di fatto che ogni innovazione di metodo, come di merito, stenta ad essere recepita.
Appare sempre più sfocato dove inizi la consapevolezza dei propri mezzi culturali, il radicamento di una tradizione sindacale, e dove finisca l’effettiva capacità di esercitare una presa sulle scelte. Le parole d’ordine appaiono sempre più corrose, incapaci di definire i problemi concreti, marcate da un vizio ideologico non ammainato; i richiami evocano i tonfi sordi di un ambiente sempre meno affollato di idee nel quale, con metodica continuità, si ripropone l’antico, mentre l’incalzare delle esigenze pone ai lavoratori necessità e decisioni del tutto nuove, traguardate verso un orizzonte da esplorare.
Molti auspicavano un progressivo mutamento di rotta con l’elezione a segretario generale di Guglielmo Epifani, considerato il suo curriculum sindacale, il patrimonio culturale rivolto all’innovazione, la necessità di offrire un profilo diverso della Cgil rispetto a quello costruito da Cofferati. Voci autorevoli anche all’interno della Confederazione, destinate ad essere sopite vuoi per questioni di linea politica e di equilibri interni con la costante spina nel fianco della Fiom, vuoi per l’evoluzione della politica con il ritorno d’impeto di Berlusconi dopo la breve parentesi del secondo Governo Prodi, incapace di affrontare le questioni cruciali dell’economia e della società italiana, mentre si continuavano ad alimentare nel sindacato di Via Po visioni contrastanti, massimalismi di genere, spinte centrifughe che potevano essere contenute solo facendo rigido quadrato attorno alla militanza organizzativa della Cgil, forse l’unica struttura della sinistra italiana non toccata di fatto da un solido ripensamento culturale e ideologico.
L’armamentario del sindacalista risultava così fissato su parametri stabili e poco flessibili, proprio nel momento in cui le altre due grandi confederazioni Cisl e Uil cercavano una via del dialogo per il confronto con il ministro Maurizio Sacconi e l’Esecutivo Berlusconi. Strada impervia ma obbligata, se si volevano affrontare con pragmatismo i problemi e trovare le soluzioni possibili nel progressivo deterioramento dell’economia. I lavoratori avevano bisogno di risposte dirette, di nuovi contratti, di garanzie per quanto flebili e condizionate, di dialogo con la Confindustria e con le parti sociali, rifuggendo da un arroccamento più squisitamente politico, da una indisponibilità di merito e di metodo sempre intransigente, almeno nelle definizioni di vertice e nelle questioni più rilevanti per il mondo del lavoro.
Ciò ha inevitabilmente prodotto uno strappo che, anziché suturarsi negli anni, si è via via acuito in quella che fu la vecchia «triplice». La Cgil così si è smarcata di fatto da tutte le iniziative che hanno coinvolto in questi anni l’intero mondo produttivo, sino a non firmare nel gennaio 2009 il nuovo modello contrattuale ratificato da tutti gli altri soggetti in campo. Una posizione dovuta ad aspri contrasti interni che si è cercato in ogni modo di sopire, mentre si coltivava l’idea assai consunta che senza l’assenso della Cgil nessuna modifica incisiva del mondo del lavoro fosse possibile.
Si è consumata così la lunga stagione degli scioperi generali nazionali o regionali promossi esclusivamente dalla Cgil che nulla di fatto ha prodotto per il movimento dei lavoratori, né tantomeno è servita a mitigare le conseguenze di una crisi economica sempre più aggressiva. Una scelta di militanza interna che richiama la storia novecentesca del sindacalismo radicale, fatta di mobilitazioni, di slogan condivisibili, di fascino ideologico, priva quasi del tutto, per altro verso, di risultati pragmatici.
Una filosofia del fare sindacato negli anni Duemila quasi impermeabile alle tante sollecitazioni culturali provenienti da ambienti e studiosi di chiara matrice progressista, capace di creare spinosi distinguo all’interno del Partito Democratico, tra gli iscritti e i lavoratori. Una linea del resto intransigente a ritmo alterno perché, mentre, da un lato si respingevano i grandi accordi confederali, dall’altro le diverse federazioni della galassia sindacale di Via Po firmavano contratti ed intese a decine, insieme agli omologhi di Cisl e Uil, richiamandosi al pragmatismo come al superiore interesse di singole frange del lavoro.
Un dualismo o una doppiezza, hanno osservato autorevoli analisti, che non ha fatto breccia nella leadership cigiellina, ove la Segreteria confederale, al di là dei distinguo sommessi, si è sempre mostrata intransigente verso le questioni di fondo di una seria e innovativa riforma del lavoro, temi oggi più che mai di attualità sui quali aleggia un ostracismo appena velato dal ritrovato unanimismo sindacale in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che vieta i licenziamenti per le imprese con più di 15 dipendenti.
Un tema cruciale per capire le ragioni della scelta della Cgil è costituito dal sofferto rapporto interno con la Fiom, la potente federazione dei lavoratori metalmeccanici che dai mitici anni 70 si ritiene l’avanguardia ideologica della sinistra sindacale, impermeabile ad ogni innovazione che metta in discussione gli archetipi e i canoni culturali di un movimento di fatto antagonista, ispirato ai modelli nobili e di successo della seconda metà del Novecento, che rifiuta di accettare lo scomodo confronto con la storia, con le emergenze della globalizzazione, con soluzioni innovative per tutelare l’occupazione e i diritti dei lavoratori.
Una singolar tenzone che scandisce da almeno 15 anni il cammino della Cgil. A nulla sono valsi gli sforzi prima di Sergio Cofferati, poi di Guglielmo Epifani, per mettere fine ad un estenuante braccio di ferro con la componente di minoranza della sinistra capeggiata ieri da Gianni Rinaldini e Claudio Sabattini, storici vertici della Fiom, e oggi da quel Maurizio Landini, segretario generale della Federazione dei metalmeccanici che, con la stessa grinta, continua ad essere una spina nel fianco della Cgil, prima ancora che della leader Susanna Camusso. Basta la sola vertenza Fiat a tracciare il solco tra gli irriducibili e il resto della Confederazione.
Nessuna iniziativa né unitaria, né di ragionevolezza rappresentativa è valsa a smuovere l’intransigenza della Fiom, contraria a qualsiasi accordo proposto da Sergio Marchionne, sottoscritto dagli altri sindacati, Cisl e Uil in testa, e approvato a maggioranza dal referendum dei lavoratori, interessati prima di tutto a mantenere salario e occupazione, prima ancora che il primato di un diritto talvolta retorico, più spesso inefficace, per non dire inesigibile.
Questa asimmetria interna alla Cgil sembra pesare moltissimo nel fissare le linee guida dell’azione sindacale. La spasmodica ricerca di una unità, sempre in discussione per la Fiom, obbliga ad una continua rincorsa le altre componenti, né i congressi succedutisi negli ultimi anni hanno democraticamente risolto il problema. Una minoranza valutata nel 15 per cento degli iscritti si scopre diversa e riottosa ad ogni disegno diverso dal proprio. Pone continue sfide interne ed esterne, erige in anticipo le bandiere rosse cigielline obbligando la Confederazione a misurarsi, comunque, sulle posizioni espresse dalla Fiom. Questa duplicità di orizzonti sembra costituire una camicia di forza per il primo sindacato italiano, impaniato tra logiche ed equilibri di potere interno capaci di frenare ogni spinta al confronto, prima ancora dell’avvio di una necessaria riflessione sul modello di sindacato più idoneo a rappresentare il mondo del lavoro negli anni Duemila.
La Confederazione di Via Po ha scelto in modo ragionato, in questi anni, di costituirsi anche come opposizione politica. Si è assunta o arrogata il compito di esprimere una netta e dichiarata forma di contrasto verso il Governo, richiamandosi ad una cospicua parte della società italiana che ha vissuto Berlusconi come un’antinomia democratica irreversibile, rifiutando in modo più o meno esplicito di riconoscergli il diritto legittimo a governare il Paese. Un angolo di osservazione predefinito che ha influito non poco sulle scelte sindacali, un’avversione dichiarata venuta a sommarsi alle questioni del lavoro, lasciando quasi nessuno spazio al confronto vero, alla dialettica che conduce al raggiungimento degli accordi.
Sciogliere questo e gli altri nodi di fondo che da troppo tempo caratterizzano la Cgil sarà irrinunciabile, se non si vuole relegare una componente storica di primaria importanza del movimento sindacale italiano ad una strisciante irrilevanza. Quali che siano i risultati dell’azione avviata dal Governo di Mario Monti, appare di tutta evidenza che la società italiana, insieme a quella europea, abbia deciso di superare le colonne d’Ercole dell’innovazione, materia in cui nel nostro Paese siamo soliti distinguerci per il ritardo storico. Nulla sarà come prima dopo questa opprimente crisi finanziaria, dai contorni così plumbei e inquietanti.
Nessun sindacato, nemmeno la Cgil, potrà non rimettersi profondamente in discussione se vuole conservare le ragioni e il diritto alla rappresentanza. La società internazionale approderà a nuove forme organizzative, con valori di riferimento profondamente mutati e forse con assetti democratici sensibilmente nuovi. La sfida da fronteggiare per il sindacato italiano, non solo per la Cgil, sarà quella di modernizzare la propria cultura, oltre che gli apparati, i metodi e le frontiere del mondo del lavoro. Nulla di più lontano dal riformismo delle apparenze in salsa italiana, quello che fece dire a Tomasi di Lampedusa che tutto deve cambiare perché nulla possa mutare.

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