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Come uscire dal «pantano»

LUCI ED OMBRE
SULLA POLITICA ECONOMICA
DEL GOVERNO MONTI

di GIORGIO BENVENUTO
presidente della fondazione
Bruno Buozzi

a sentenza della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum sulla legge elettorale e, paradossalmente, la mancata autorizzazione all’arresto dell’on. Nicola Cosentino, hanno tolto dal cammino del Governo Monti enormi macigni. Ora il Governo è più tranquillo sul piano parlamentare. I problemi economici si sono però aggravati. Una prima grande difficoltà è rappresentata dalla crisi dell’Unione Europea e dell’euro. Non si riesce a trovare una soluzione tra la Germania e il resto dell’Europa.
Tutti sono convinti che la fine dell’euro avrebbe effetti devastanti. Ma non se ne traggono le conseguenze. I vertici e gli incontri bilaterali si susseguono e si inseguono rinviando le necessarie decisioni ad improbabili e vaghe scadenze. È necessario che l’azione del presidente del Consiglio Mario Monti in Europa trovi un sostegno adeguato in Parlamento, con la consapevolezza che le soluzioni per la crisi italiana impongano un’iniziativa politica diversa. Pesa sul nostro Paese l’assenza di un vero legame tra i maggiori partiti italiani e quelli che operano a livello europeo. I nostri parlamentari in Europa, tranne le dovute eccezioni, si caratterizzano per la loro inconsistenza.
È fondamentale, in questo ambito, che venga attenuata a livello europeo la norma capestro che impone la riduzione del nostro debito pubblico al ritmo annuale del 3 per cento del prodotto interno. Non si riesce a comprendere come Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi, quando erano ministro dell’Economia e delle Finanze il primo, presidente del Consiglio dei ministri il secondo, abbiano potuto accettare o forse subire un provvedimento impossibile per il nostro Paese. Il contenimento dello spread è ancora troppo modesto e non sono realizzabili altre manovre finanziarie oltre le quattro che hanno così inciso sull’economia italiana.
In Italia, poi, l’antipolitica e l’antiparlamentarismo stanno causando guasti significativi nel sistema democratico. I cittadini, che chiedono con insistenza condotte trasparenti e credibili, si mostrano sempre di più sensibili ad una demonizzazione delle istituzioni rappresentative e della politica. Il Governo «tecnico» è stato subito dal Parlamento. È apprezzato dall’opinione pubblica e dagli operatori economici e sociali.
L’Italia, come la Grecia, non è stata in grado, di fronte all’emergenza economica, di varare un Governo basato su larghe intese, come è avvenuto in presenza della crisi negli altri Paesi europei. Abbiamo dovuto ripiegare su di un Governo i cui componenti sono stati chiamati ad assolvere il proprio compito, come ha ricordato Monti, con professionalità, senza posizioni pregiudiziali.
La scelta del Governo tecnico richiede, come è avvenuto in altre emergenze nella storia della nostra Repubblica (Governi presieduti da Giuliano Amato, da Carlo Azeglio Ciampi, da Lamberto Dini, da Romano Prodi), di far leva sui consensi dell’opinione pubblica e sull’appoggio della società civile.
Alla sua debolezza in Parlamento Monti deve contrapporre la forza e la credibilità che ha nella società. Ecco perché è errato non praticare la concertazione con le forze sociali. Ciampi, Amato, Dini riuscirono con quella politica a realizzare rilevanti riforme, quelle della previdenza, del fisco, dello sviluppo, del sistema contrattuale; Prodi centrò l’obiettivo dell’ingresso in Europa.
Monti e la Fornero, ministro questa del Lavoro e delle Politiche sociali, si sono mossi sinora in modo confuso e disarticolato dando l’impressione di annunciare progetti di cambiamento per poi rapidamente ritirarli alle prime difficoltà. È un comportamento che va corretto. Il Governo Monti si trova tra il martello del cancelliere tedesco Angela Merkel e l’incudine di una opinione pubblica nostrana che non è convinta della manovra «Salva Italia», è dubbiosa sul decreto «Cresci Italia», non capisce i vantaggi che possono derivare dalle liberalizzazioni. In particolare le critiche si possono così sostanziare: è una manovra poco equa; comporta tasse, imposte e balzelli con pochi irrisori tagli alla spesa pubblica; è sostanzialmente recessiva con stimoli solo simbolici per lo sviluppo.
Giuseppe Toniolo ammoniva: «Chi più può, più deve; chi meno può, più riceve». È indubbio che nella manovra «Salva Italia» i tagli hanno colpito i percettori di redditi fissi, i pensionati e le famiglie in particolare. Le nuove tasse introdotte dal decreto superano i 25 miliardi di euro. Se a tale cifra si aggiungono i 177 miliardi complessivamente registrati nelle leggi finanziarie e nei vari decreti approvati a partire dal 2010, il salasso nelle tasche dei contribuenti, secondo la Corte dei Conti, è oltre i 140 miliardi. Gli effetti dell’ultimo decreto Monti portano ad una gelata da otto miliardi di euro sui consumi.
Il blocco della rivalutazione delle pensioni oltre i mille euro netti, accomunato con la liberalizzazione delle addizionali,, con l’aumento delle tariffe, con la reintroduzione dell’Ici, con gli aumenti dell’Iva, con l’aumento dei ticket, abbassano in modo rilevante il potere di acquisto per milioni di italiani. È stato calcolato, da enti e centri studi non di parte, che il salasso su stipendi, salari e pensioni incide mediamente per il 20 per cento. Il blocco dell’indicizzazione delle pensioni per due anni, secondo la Cgil, arreca una perdita di 6.800 euro nei prossimi 20 anni per chi percepisce 1.450 euro lordi al mese. La stessa cifra che verrà prelevata a chi ha 250 mila euro investiti.
Che differenza c’è tra un pensionato a 1.450 euro lordi, corrispondenti a circa 1.200 euro netti al mese, e il possessore di una significativa somma investita in azioni e titoli di Stato, diciamo 250 mila euro? Questi due tipi di contribuenti sono stati chiamati dal Governo Monti a contribuire praticamente nello stesso modo alla salvezza dell’Italia. Il contribuente «ricco» pagherà ogni anno lo 0,1 per cento - che diventerà un po’ di più, lo 0,15 per cento a partire dal 2013 - sul proprio patrimonio. Il che significa 250 euro per il 2012 e 375 euro all’anno per tutti gli anni a venire. Il pensionato relativamente «povero» subirà un salasso annuale per il resto della sua vita - supponiamo che abbia una vita media e che oggi abbia 62 anni -, pari a 20 anni, di circa 340 euro all’anno. Una specie di «patrimonialina» sulle pensioni.
Troppe tasse. Troppe iniquità. Troppo accanimento sui più deboli e i più indifesi. Un’iniquità, ma anche un errore economico. Questo salasso sugli stipendi e sulle pensioni deprime la domanda interna, facendo affondare sempre di più l’Italia nella palude della recessione. Una scelta necessaria, invece, è stata quella della lotta all’evasione fiscale, della limitazione dei fenomeni elusivi, della riduzione dell’erosione fiscale. È significativo quello che si sta facendo sul fronte dell’evasione fiscale, un giacimento per troppo tempo ignorato, dal quale si possono e si debbono estrarre risorse sufficienti non solo per la riduzione del debito pubblico, ma anche per la diminuzione delle tasse per le famiglie, per i redditi medio-bassi e per il sostegno alle piccole imprese.
Il Governo Monti sta facendo sul serio. Ha potenziato, sviluppato, definito quanto era stato impostato a suo tempo dai ministri Giulio Tremonti e Vincenzo Visco. Oggi c’è finalmente una presa di coscienza ed un sostegno dell’opinione pubblica. Non va sprecato. Forme di accanimento, di vessazione o di criminalizzazione nei confronti dei contribuenti vanno scoraggiate. Chi non rispetta la legge non resterà nell’ombra. «Chi evade le tasse pensando di trarre vantaggio danneggia i concittadini e offre ai propri figli un pane avvelenato; consegnerà loro, forse alla fine della propria vita, qualche euro in più, ma li renderà cittadini di un Paese non vivibile», ha sottolineato Monti.
Occorre una grande coerenza. Ad esempio, non si può tacere sulla demonizzazione crescente di Equitalia, con minacce ricorrenti su chi vi lavora. Equitalia è nata con un largo, larghissimo consenso parlamentare, per superare l’anomalia per cui su ogni cento euro accertati se ne riscuotevano sei, con un costo di otto. Equitalia è stata dotata dal Parlamento di strumenti efficaci per eliminare questa anomalia. Certo, ora si devono fare i conti con una situazione economica e sociale profondamente deteriorata. I partiti che hanno approvato le leggi sulla riscossione non possono chiedere ai dipendenti di Equitalia di disapplicarle. È fondamentale che il Parlamento cambi le leggi adattandole alla mutata realtà, senza ricorrere a forme di strumentalizzazione politica.
La lotta all’evasione fiscale deve essere accompagnata dalla lotta alla corruzione anche attraverso la «spending review» promossa da Romano Prodi, sospesa e poi resuscitata da Tremonti. Tenendo conto di come hanno inciso sulla sua composizione i veti e i controveti dei diversi schieramenti politici, il Governo Monti deve guardare nel proprio interno con la stessa intransigenza morale che applicò Ciampi allorché costituì il proprio Governo. I membri dell’Esecutivo sono chiamati ad assolvere al proprio compito con disciplina ed onore, come recita la Costituzione. I cittadini hanno diritto di conoscere condotte, pregresse ed attuali, in modo trasparente e credibile. Non si può predicare bene e razzolare male. Sul fronte della spesa pubblica occorre intervenire sui costi o, meglio, sugli sprechi della politica.
Non è accettabile che l’unico taglio strutturale sia quello sulla spesa previdenziale. Si è fatto poco. Troppo poco. La struttura del nostro Paese è inadeguata e inutilmente costosa. Vanno ridotte le molteplici sedi di decisione e di controllo, così come vanno eliminati i conflitti di attribuzione tra i vari enti decentrati. Troppi Comuni, troppe Circoscrizioni, troppe Province, troppi parlamentari, troppe Authority, troppe aziende municipalizzate, troppe consulenze. Occorre procedere ad una coraggiosa semplificazione, ad una liberalizzazione dai vincoli burocratici che asfissiano la nostra economia e la nostra società.
Il Paese è destinato a soccombere, a declinare, ad impoverirsi se non si riuscirà a valorizzare quel rilevante ed esteso potenziale di rinnovamento che esiste e resiste nel nostro Paese. È stato ricordato autorevolmente che la drammaticità della crisi economica è conosciuta soprattutto per le sue conseguenze materiali. Dietro l’angolo si preannuncia minacciosa la povertà, alla quale se ne aggiungono altre nascoste. È così che si è determinata l’emarginazione, la perdita di speranza, la disgregazione delle realtà associative, delle famiglie, dell’unità nazionale.
Non si può oggi solo discettare su quando finirà la crisi e su come ricostruire una ricchezza di valori e di ideali. Ad un Governo tecnico non si può chiedere; occorre, parafrasando John Kennedy, dire come si intende contribuire alla ricostruzione civile, morale, ideale del Paese. Per farlo occorre il coinvolgimento, la partecipazione, la mobilitazione di tutti i soggetti sociali e l’indicazione degli obiettivi per i quali si chiedono i sacrifici e le rinunce. Insomma l’Europa, la crisi economica e finanziaria, la globalizzazione, non devono essere vissute come una minaccia ma come un’opportunità per lo sviluppo e la crescita dell’Italia.

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