LE VIE DI USCITA
L’ITALIA
È SOTTO PRESSIONE
MA CON GRAN VOGLIA
DI RECUPERARE
di ENRICO SANTORO
Professore, avvocato
La globalizzazione
ha ridotto i problemi
dell’umanità, aumentato il benessere
ma creato grandi disparità,
e affamato popolazioni;
la finanza ha esagerato automoltiplicandosi
e distaccandosi
dall’economia reale.
L’Italia è sotto
pressione,
ma ha tanta
capacità di recupero |
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l catastrofismo non paga mai. Piangersi addosso serve davvero a poco. E se è vero che il nostro Paese potrebbe realmente trovarsi con il default dietro l’angolo - malgrado la cura da cavallo messa a punto dalla nuova compagine di Governo -, è anche vero che prima o poi, come del resto accadde per l’Argentina, dovrebbe comunque ritrovare la strada per reinventarsi un proprio futuro. Gli stessi iracheni, come documenta il reportage fotografico apparso di recente su un settimanale a larga diffusione, pur dopo la devastante guerra subita, stanno facendo prove, per quanto necessariamente timide, di resurrezione. Tocca a noi ora rimboccarci le maniche, a prescindere dal duro carnet di misure anticrisi studiate dalla squadra del prof. Mario Monti.
Il primo fattore positivo che al riguardo merita cogliere è la voglia di riscatto che si sta cominciando a diffondere a macchia d’olio nel Paese. Mai tante pagine pubblicitarie di quotidiani in passato erano state acquistate - com’è accaduto nell’ultima, incerta, fase del Governo Berlusconi - da privati, associazioni, federazioni di imprese, al semplice scopo di analizzare problemi, segnalare ipotesi di soluzione, individuare vie d’uscita dal difficile momento che stiamo attraversando, fenomeno, questo, sconosciuto all’estero, per non parlare di un’associazione romana che ha mobilitato i propri adepti per pulire una centrale piazza della Capitale, o delle 303 classi di alunni che hanno adottato un monumento per salvaguardarlo.
La percezione dei problemi sul tappeto è ampia. Lo scatto d’orgoglio è in atto. Il problema questa volta sono la coesione, l’organizzazione dello sforzo collettivo che si impone e la capacità di orientarlo verso una direzione condivisa. E questa direzione oggi può essere sintetizzata in una parola: ambiente. Una parola che va declinata pensando alle sue principali articolazioni: la bellezza del territorio, l’immenso patrimonio artistico che possediamo, la qualità del clima che caratterizza le regioni italiane, la capacità di accoglienza tipica della nostra cultura. Sono elementi di cui noi soli nel mondo siamo depositari e sono capaci di porci al di sopra di qualsiasi competizione. Un Paese che ce li ha non può dimenticarsene.
Pensiamo al territorio. Dobbiamo tornare a valorizzarlo. Si è parlato recentemente dei tagli del 7 per cento ai fondi per l’agricoltura che l’Unione europea ha stabilito e che certamente rappresentano una doccia fredda per un sistema abituato ad avvalersene. Ma va anche detto che le aziende attente a diversificare le colture, a mantenere i pascoli permanenti e a salvaguardare le aree naturali, ossia quelle con produttività ad alto tasso ecologico, potranno avere integrazioni del 30 per cento ai fondi loro destinati. È un modo questo per non depauperare uno dei nostri principali asset, il territorio: e ben venga la nascita del Forum per il territorio, se contribuirà ad evitare nuovi disastri come quello accaduto nelle Cinque Terre.
Altro tasto dolente: il patrimonio artistico. Ad esso, ha sottolineato una recente inchiesta televisiva, è ascrivibile solo l’1,1 per cento del nostro prodotto, rispetto al 2,6 per cento della media europea. Un vero scandalo, questo. Si pensi che in soli 10 giorni le Gallerie d’Italia Piazza Scala hanno esposto 197 capolavori e attratto 10 mila visitatori, ossia che le opere d’arte presenti nel Paese senza alcun colpo d’acceleratore sono in grado di richiamare turisti. Cosa potrebbe accadere se fosse realizzata una strategia di valorizzazione del patrimonio artistico degna di questo nome? Veder crollare i muri di Pompei o i capolavori del barocco siciliano perché non ci sono soldi, o peggio ancora per trascuratezza: è questa la vera emergenza nazionale.
In questo senso merita riscoprire esperienze come quella del Fondo Ambiente Italiano che rappresenta un esempio, se non un vero e proprio baluardo, a difesa del nostro patrimonio. Il Fai denuncia come nel 2013 l’organico del Ministero dei Beni culturali si assottiglierà pericolosamente aggravando i problemi di custodia e gestione dei beni, sottolinea come i siti museali gestiti dal Ministero ripaghino per una misera media del 5-7 per cento i loro costi complessivi di manutenzione e di personale. Occorre evidentemente inventare qualcosa di nuovo e di più remunerativo nel proporre ai turisti, a quelli stranieri ma anche a quelli di casa nostra, una fruizione culturale all’altezza della nostra fama.
In tutto il mondo ci invidiano monumenti, clima, qualità del cibo, carattere e capacità d’accoglienza? Ebbene noi non sappiamo apparentemente che farcene. All’Italia oggi probabilmente serve uno chef. Proprio così. Un qualcuno capace di monitorare con cura tutti i succulenti ingredienti di cui, l’abbiamo visto, disponiamo, per poi mescolarli in una ricetta appetibile. Alla quale si potranno poi aggiungere ulteriori nostre specificità - il design, la creatività, il famoso made in Italy - da piazzare non soltanto nei mercati tradizionali, anch’essi ormai soggetti alle intemperie della crisi economica, ma piuttosto in quelli emergenti che, dopo essersi arricchiti, potranno godersi la qualità connessa all’Italia.
Se è infatti vero che alla nuova devastante crisi del debito e ai micidiali attacchi portati dai mercati finanziari ai Paesi europei l’Europa dovrebbe reagire giocando di squadra, è anche vero che gli investitori abbandonano i titoli del debito pubblico di quei Paesi che non sanno esprimere alcuna capacità di crescita, che non mostrano vitalità, che non hanno carte da giocare per riprendersi. E di fronte ad attacchi di questo tipo, fatto salvo il comune destino europeo, ogni Paese è tremendamente solo. Come in definitiva lo è ogni famiglia che deve far quadrare i conti, le spese, le entrate, le risorse di cui dispone. Anche l’Italia dunque è sola, ma può contare su risorse impareggiabili. Che deve mettere all’opera.
E deve usarle sia in una prospettiva di esportazione sia come fattore di attrazione per gli investitori stranieri. Nel primo caso si può pensare a far conoscere la qualità della vita italiana alle elìtes straniere di Cina, India, Brasile, le sole forse che possono permettersi di pagare i nostri alti costi di produzione per godersi i nostri prodotti unici nella moda, nell’arredamento, nell’arte, nell’alimentazione. Nella direzione inversa si può proporre, sempre a quel target, il nostro way of life, facendone buona mostra all’Expo 2015, se avremo la capacità di arrivarci senza litigare e mettendo da parte corruzioni e litigiosità. A proposito: Mario Draghi, in uno dei suoi ultimi interventi da Governatore della Banca d’Italia ha auspicato per il nostro Paese la coesione.
È davvero giunto il momento di non lasciar cadere nel vuoto l’invito, organizzando genio creativo e identità come suggerisce una preziosa analisi proposta dall’Eurisko, esortando chi governa a creare le condizioni della coesione, sviluppando una politica di sostenibilità sociale, ricreando senso di appartenenza, orgoglio, rispetto del Paese, con un progetto strategico senza il quale è impensabile uscire da una spirale involutiva, ed è invece certo il rischio di subire gli effetti della recessione, testè iniziata, ancora per un lungo periodo di tempo compromettendo il futuro dei figli.
Di questa progettualità deve far parte anche quella «nuova frontiera» della sostenibilità che rappresenta la condizione basilare per la salvaguardia dell’ambiente inteso come paesaggio, come elemento essenziale del «giardino d’Europa». Conservare l’habitat significa produrre con intelligenza sia gli alimenti che l’energia, facendo tesoro delle esperienze di sostenibilità che si fanno progressivamente strada nel nostro tessuto economico, creando i presupposti per una loro replicabilità a costi amministrativi, finanziari e burocratici possibilmente decrescenti. Alcune banche finora hanno favorito questo processo finanziando le energie alternative, le scelte di responsabilità ambientale delle imprese.
Sposare la causa della green economy, malgrado il fatto che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama non abbia potuto centrare appieno tale obiettivo essendosi dovuto concentrare sui marosi della tempesta finanziaria mondiale più grave dopo quella del 1929, rimane un’eccellente prospettiva. L’Ires e l’Althesys hanno calcolato che l’edilizia collegata all’economia verde creerebbe 250 mila posti di lavoro; la Commissione europea parla di un milione e mezzo derivanti dal settore entro il 2050; secondo l’Assosolare il fotovoltaico adottato su larga scala porterebbe ulteriori 150 mila posti entro il 2016 tenendo conto dell’indotto; l’ufficio studi della Confindustria ha calcolato che l’occupazione legata alle nuove energie assicurerebbe 800 mila nuovi posti entro il 2020.
Offrire al mondo intero una testimonianza sotto questo profilo - proprio in questo periodo di scadenza del protocollo di Kyoto e nella fase preparatoria degli incontri in Sudafrica che non paiono destinati al successo, con buona pace del Pianeta - rappresenterebbe nondimeno una prova brillante di quanto all’occorrenza l’Italia, proprio così come avvenne durante il Rinascimento, sia capace di proporre al mondo un proprio modo di essere, di crescere, di creare. Composto di scelte non episodiche e occasionali ma frutto di una vera strategia. Il recupero del bosco di san Francesco di Assisi finanziato da banche e imprese di primordine è in tal senso un esempio eccellente.
Occorre procedere su questa strada. La nuova stagione economica, quella che deve poter rinascere dal collasso attuale del sistema, richiede nuovi comportamenti, nuove iniziative. Passa sicuramente per una flessibilità dei contratti di lavoro purché compensata ad esempio da proposte di welfare adeguate ai tempi, focalizzate su esigenze collegate alla civiltà del terzo millennio - possibilità di accudire i figli piccoli, soggiorni estivi ai figli più grandi, spese mediche specialistiche e via elencando - piuttosto che su insostenibili garanzie previdenziali, concordate quando le aspettative di vita erano minori e soprattutto c’era un ricambio generazionale nel mondo del lavoro che oggi purtroppo è diventato una chimera.
Il mondo è cambiato. La globalizzazione ha portato nel complesso ad una diminuzione dei problemi dell’umanità, ha aumentato il benessere e le aspettative di vita. Ha però creato anche grandi disparità, affamato intere popolazioni. La finanza ha invece esagerato automoltiplicandosi e distaccandosi dall’economia reale. L’Italia e l’Europa oggi sono sotto la pressione di un effetto indesiderato degli intrecci di informazioni finanziarie che spostano i capitali. La capacità di recuperare nel nostro interno un genuino modo di vivere e di lavorare può rappresentare una prima risposta, apparentemente banale ma più concreta ed efficace di quanto si pensi, allo strapotere dei mercati finanziari e ai rischi legati al temuto default. |