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IL CASO PARMALAT

L’opera e il giudizio dei giudici
che hanno ricostruito il confine
tra l’essere e l’apparire


di LUCIO GHIA




a presentazione nell’Aula delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a Roma, del Trattato della Procedura concorsuale e in particolare del quinto volume sulle amministrazioni straordinarie e sulle liquidazioni coatte amministrative ha costituito la prima occasione di riflessione sul risanamento della Parmalat in amministrazione straordinaria. Nel numero di dicembre ho dato conto della relazione che il commissario Enrico Bondi ha svolto innanzi a magistrati, avvocati, commercialisti, professionisti di materia economiche e giuridiche, e addetti ai lavori, su questa straordinaria esperienza positivamente conclusasi dal punto di vista industriale.
In quel mio scritto avevo fatto cenno ad altre occasioni che hanno provocato una rilettura per certi versi di assoluta novità del più grave dissesto italiano degli ultimi anni: un crack che ha bruciato circa 14 miliardi di euro, che ha coinvolto più di 30 mila creditori. La seconda occasione è stata offerta dalla pubblicazione della sentenza n. 37370/11, resa dalla V Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione, con la quale sono stati respinti i ricorsi presentati da alcuni componenti del consiglio di amministrazione di società e da un revisore di bilanci delle società del Gruppo Parmalat, contro e per la riforma della sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 24 marzo 2010.
Con tale decisione la Corte di Bologna aveva ritenuto colpevoli di reati assai gravi, che andavano dall’associazione per delinquere a varie ipotesi di bancarotta fraudolenta, gli imputati che erano stati tutti condannati a pene detentive di conseguente gravità. La Corte di Cassazione nel confermare sostanzialmente il «decisum» della Corte di merito, si sofferma però con un’approfondita ricostruzione storica su un’interessante analisi sociale ed economica su taluni inquietanti profili caratteristici della vicenda. Il commissario Bondi ci aveva condotto per mano sul percorso industriale compiuto per risanare la Parmalat. La Cassazione ci svela le caratteristiche fattuali di una pluriennale strategia criminale, attuata attraverso falsi documentali di gravità eccezionale perpetrati per anni e conclusasi solo il 17 dicembre 2003, come ci ha riferito Bondi in Specchio Economico del dicembre 2011, quando la Bank of American ebbe a dichiarare che non deteneva i 3 miliardi e 900 milioni di dollari che avevano consentito alla Parmalat di frodare ulteriormente i propri creditori, collocando fino alla fine, o quasi, i propri «bonds».
Il ragionamento della Suprema Corte ruota su una domanda iniziale, ancorché inespressa: se il settore agroalimentare della Parmalat ha sempre ottenuto risultati industriali e commerciali di rilievo, quale motivo giustificava il ricorso all’indebitamento in dimensioni così massicce da coinvolgere istituzioni e mercati finanziari di tutto il mondo? Infatti l’espansione irrefrenabile e le dimensioni dell’indebitamento superano di gran lunga una qualsiasi, pur pervicace, frenesia di personale locupletazione, oltre ogni misura, dei suoi autori.
La Suprema Corte individua, quindi, una singolare «divaricazione» tra le attività imprenditoriali perseguite dal Gruppo Parmalat. Da un lato la ben nota attività del settore alimentare, inizialmente solo lattiera con l’innovativa commercializzazione del prodotto a lunga conservazione ed il successo degli speciali involucri, poi l’allargamento del settore dei prodotti dolciari ed agroalimentari in genere; prima in una dimensione domestica, poi sempre più internazionale; dall’altro lato un settore tutt’affatto diverso, in realtà senza punti di contatto con il primo, ovvero quello del turismo organizzato. I due settori venivano gestiti da numerose società, apparentemente autonome, del tutto distinte tanto da presentare due bilanci consolidati separati ed indipendenti.
L’unica correlazione constatabile dai terzi era determinata dalla presenza, nei consigli di amministrazione delle varie società, di membri della famiglia tatin, ovvero di persone agli stessi riconducibili. A questa separazione ufficiale tra i due settori si giungeva attraverso l’interpretazione di società all’uopo costituite all’estero anche in Usa e con il Fondo epuriamo nelle isole Campagna. Mentre, il settore alimentare inizialmente presentava una propria redditività, che fu man mano, con il passar degli anni, erosa dai costi dell’espansivo all’estero della Parmalat, con la creazione di nuovi stabilimenti in vari Paesi del mondo. Basti pensare che la Parmalat era presente, oltreché in Europa - Germania, Olanda, Lussemburgo, Malta - in Usa, Argentina, Cile, Brasile, Messico, Venezuela e Cina.
Il settore turistico, invece, si rivelò ben presto fallimentare ed iniziò a drenare fin da subito risorse finanziarie, chiamando a ripianare le proprie perdite, il settore sano, quello alimentare. Ciò avvenne con l’interpretazione spesso fraudolenta e illegale di società artatamente frapposte come il Fondo epuriamo, sopra indicato. Ma ben presto le risorse interne al Gruppo non furono sufficienti e si giunse inevitabilmente alla ricerca di finanziamenti, all’inizio tradizionali chiedendo alle banche di concedere fidi, poi sollecitando i mercati obbligazionari domestici e internazionali. Infatti, era stata ottenuta la quotazione in borsa della Parmalat Finanziaria che poteva, quindi, accedere al mercato regolamentato per collocare i prodotti finanziari dalla stessa emessi, tra i quali i famigerati «bonds» presso investitori istituzionali, e risparmiatori privati. Mentre all’estero operavano altre società del Gruppo Parmalat, che emettevano obbligazioni o bonds garantiti quasi sempre dalla Parmalat italiana.
Così ricostruito il contesto storico in cui operava Parmalat e le origini causative del dissesto, la Corte individua le ragioni del collasso industriale del Gruppo fino quasi a tutto il 2003 reputato, a buon diritto, «un fiore all’occhiello dell’economia nazionale», e comunque ricopersero tra le 30 più significative società quotate in borsa, ovvero tra le «blue chips» nella progressiva, crescente difficoltà, malgrado la particolare abilità della management di confezionare bilanci falsi attraverso abili manipolazioni, di far fronte al dilagante ed endemico indebitamento sia nei confronti di banche e di investitori istituzionali che di investitori privati risparmiatori.
Di qui il mostruoso crack da quasi 14 miliardi di euro, la dichiarazione d’innocenza della Parmalat e delle altre società del Gruppo, l’ammissione all’amministrativa straordinaria e quanto altro già noto, anche per averlo sentito dalla viva voce di Enrico Bondi. A questo punto, emerge nel lettore una domanda: come sia stato possibile che fino al marzo 2003, ma anche dopo, il Gruppo Parmalat godesse di una così vasta e pressoché incondizionata fiducia del mercato, tale da consentirgli nuove emissioni di bonds e di ottenere nuovi finanziamenti e ulteriori concessioni di crediti? Infatti, molte erano le anomalie che gli organi preposti alla vigilanza, le banche, i creditori istituzionali, le agenzie di rating, i controllori esterni, i consulenti finanziari e si potrebbe continuare, non hanno colto; se la Parmalat aveva risorse e mezzi liquidi propri così elevati - per esempio i famosi 3,900 milioni di dollari presso la Bank of America - perché avrebbe dovuto emettere continuamente bonds e richiedere ulteriori fidi al sistema bancario e finanziario in Italia e all’estero?
Come avrebbe potuto la Parmalat attraverso la produzione di generi molto poveri come il latte, o di altri legati al settore alimentare nel quale i margini di ricarico restano modesti, ripianare la montagna di debiti che aveva creato? Al riguardo la Corte di Cassazione nota che, nonostante inequivocabili segni di sofferenza agevolmente rilevabili da qualsiasi pur inesperto analista sulla base dei soli dati Bloomberg sulle obbligazioni (in circolazione) e delle informazioni della Centrale Rischi (italiana) quanto alle esposizioni nei confronti delle banche, quel sistema aveva continuato a godere del credito bancario e della fiducia dei mercati anche grazie ai sorprendenti giudizi lusinghieri delle agenzie di rating del merito creditizio.
A queste domande e considerazioni è la stessa Corte, a pagina 43 della sentenza citata, a fornire molte risposte quando dà conto del lavoro degli inquirenti sull’accertamento dei sofisticati meccanismi di frode, in particolare sui cosiddetti sistemi Bonlat e Webholding. Il primo, incentrato sul perno dell’omonima società caymana, erede e prosecutore di precedente analogo sistema attuato fino al 1998 con le società antillesi Curcastle e Zilpa, era finalizzato ad occultare le ingenti perdite delle società del gruppo alimentare. Il secondo era stato realizzato con l’interposizione della società statunitense Webholding al fine di occultare l’indebito trasferimento di risorse finanziarie del Gruppo alimentare alle società del settore turismo in continua sofferenza. Entrambi i sistemi rappresentavano raffinati espedienti volti all’ostinato mantenimento in vita, con l’espansione del loro indebitamento, di società delle quali, già da tempo elementari regole economiche e giuridiche e, ancor prima, di buon senso, avrebbero reclamato la declaratoria di insolvenza.
Parallelamente, e per il conseguimento di identico obiettivo, vennero attuati altri meccanismi di frode meno rilevanti sotto l’aspetto quantitativo: il cosiddetto sistema Wishaw Trading, volto ad occultare irregolari finanziamenti alle società del comparto sudamericano o loro perdite. Ma non costituiva una fonte di finanziamenti illegittimi il cosiddetto giro dei concessionari consistente nell’artificiosa moltiplicazione delle operazioni commerciali al fine di creare «carte» da usare per ottenere credito dal sistema bancario mediante sconto di ri.ba. contraffatte; su tutto ciò gravava il ricorso ingiustificato ai mercati finanziari previa disinvolta emissione di bonds nell’anno 2003, a pochi mesi dal default, quando lo stato di decozione del sistema era ormai irreversibile.
Oltre al falso documentale, pur nella forma estrema della soppressione di materiale contabile, le complesse attività di polizia giudiziaria, prosegue la Corte, hanno accertato anche rilevanti condotte distrattive, non solo sub specie dei già indicati finanziamenti occulti in favore di società appartenenti al distinto gruppo del turismo, ma anche a favore di diversi soggetti, compresi i componenti della governance o della stessa famiglia tatin o di persone ad essa assai vicine. Non solo, ma sono state rilevate anche particolari situazioni fattuali e relazionali che hanno indotto gli inquirenti ad ipotizzare l’esistenza di un vero e proprio sodalizio delittuoso in seno al complesso aziendale.
È triste dover concludere, alla luce della situazione processuale sopra citata, che anche nelle vicende criminali di mostruosi dissesti «è l’unione che fa la forza». Bondi ci aveva confortato sottolineando che la ricostruzione della Parmalat, l’esito positivo del suo salvataggio, era dovuto alla risposta coesa del «sistema Italia», che aveva fortemente voluto agli occhi del mondo riaffermare la capacità e la validità dell’impresa italiana. Il legislatore, il commissario straordinario, il comitato di sorveglianza, il Tribunale di Roma, i dipendenti, i fornitori del latte e i trasportatori, tutti insieme avevano determinato il successo di un compito che sembrava, nel dicembre 2003, impossibile.
Ma è altrettanto vero che hanno condotto a questa immane insolvenza, pluriennali convivenze e miopie, disattenzioni e omissioni tanto gravi da motivare le seguenti considerazioni finali della Corte di Cassazione che ha individuato nella vicenda criminale della Parmalat una tipologia associativa del tutto inedita nel panorama criminale: non già l’ordinaria fattispecie, ben nota all’esperienza giudiziaria, dell’associazione volta alla commissione di un numero indeterminato di fatti di bancarotta fraudolenta o di reati tributari, ma l’associazione per delinquere per così dire intranea alla stessa struttura aziendale, il cui unico scopo era quello di porre in essere una serie indefinita di illeciti anche penali per mascherare una situazione di irreversibile dissesto e procrastinare nel tempo, oltre ogni ragionevole soglia di tolleranza, il momento della verità e dell’ineludibile emersione di responsabilità ad ogni livello e in ogni ambito istituzionale.
Di fronte a un quadro così sconcertante che coinvolge responsabilità e professionalità apicali che operavano nel mondo Parmalat, si distinguono l’opera e il giudizio dei giudici che hanno ricostruito il difficile confine tra l’essere e l’apparire, tra ciò che è lecito e ciò che va condannato. Purtroppo non in via preventiva ma, si sa, il giudizio è sempre postumo, viene emesso quando il delitto è stato consumato e le vittime sono state sacrificate.

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