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IL DESTINO DEI LAVORATORI

ED ORA SI VEDRÀ
SE IL SINDACATO SARÀ
CAPACE DI RINNOVARSI


di
LUCA D'ELBA

Scioperi e manifestazioni d’altri tempi

La drammaticità della crisi
impone di uscire dai vecchi schemi
della politica e dalle ritualità
del sindacalismo nostrano:
le parole d’ordine
che ieri gonfiavano le bandiere
di un’idealità solidale
appaiono esauste e incapaci
di orientare l’azione verso
una ripresa in grado di sostenere
i livelli del welfare


a stagione sociale ed economica che sta caratterizzando questa assai delicata fase della vita italiana impone al sindacato di ripensare in profondità i modelli della propria azione. Le opportunità di esercitare un ruolo incisivo, in qualità di corpo intermedio fondamentale per contribuire a disegnare una società civile meno frantumata, esposta agli squilibri e alle incursioni della finanza, caratterizzata da diseguaglianze crescenti come pure da una pauperizzazione strisciante ma ancor più insidiosa, rischiano di evaporare se non si scelgono strumenti moderni e innovativi per fronteggiare la crisi e avviare nuovi modelli di sviluppo.
È sin troppo evidente come risultino frusti, in questo crinale della vita italiana, gli armamentari ideologici e culturali sui quali per decenni si è costruita e consolidata la prassi sindacale italiana caratterizzata, è bene sottolinearlo, da un radicamento diffuso, da una solidarietà forte, da una penetrazione ancora rilevante nel mondo del lavoro, come non se ne trova traccia nel resto d’Europa, fatta eccezione per la Germania dove il modello di capitalismo renano affida al sindacato compiti cruciali, al di fuori di ogni antagonismo.
La globalizzazione dell’economia e negli ultimi anni quella della crisi finanziaria diffusa sono stati il viatico per una rilettura dell’operare sindacale, soprattutto nel nostro Paese. Ciò ha determinato una crescente polarizzazione tra i maggiori sindacati italiani: da un lato, quanti hanno, pur con buona volontà, intrapreso vie nuove, insondate per taluni versi scivolose, dall’altro, chi ha optato, invece, per una tetragona riproposizione di principi e stili sindacali legati all’antagonismo, al confronto se non al conflitto con il mondo datoriale. Un’impostazione che respinge di fatto ogni mutazione culturale, necessaria per interpretare i bisogni nuovi della società e dei lavoratori, in uno scenario in rapida evoluzione che non offre più punti di riferimento, meno che mai quelli tradizionali.
Possiamo rintracciare così, a grandi linee, la demarcazione che in questi anni ha caratterizzato il profilo attivo di Cisl e Uil, da quello marcatamente conservatore della Cgil, sempre più arroccata entro un recinto di opposizione che inevitabilmente ne ha condizionato in modo pesante l’attività, disegnando un reticolo di costante indisponibilità agli accordi e di sostanziale irrilevanza sociale e politica sia nel mondo produttivo sia sullo scenario sociale. Chi si ricorda oggi della miriade diffusa di scioperi generali proclamati dalla Cgil di Guglielmo Epifani a livello sia regionale sia nazionale? Per non dire di quali esiti concreti essi abbiano avuto: nessuno, se non rinsaldare apparentemente le fila interne dell’organizzazione, trascurando gli obiettivi strategici come di breve periodo dei lavoratori e dei propri iscritti, evidenziando una scarsa rilevanza che indebolisce la forza solidaristica della componente sindacale.
L’obiettivo perseguito negli ultimi tre anni da Raffaele Bonanno e Luigi Angeletti si rilegge in trasparenza: assicurare ove possibile, nelle migliori condizioni, uno spazio ai diritti dei lavoratori, muovendo dalla difesa dell’Associazione reale, non assistita, e del salario. Un indirizzo di grande pragmatismo commisurato alla complessità della crisi economica e finanziaria, alle scelte divergenti del Governo Berlusconi-Tremonti, al ridotto spazio di manovra concesso al sindacato, non tanto dalla Confindustria o dalle imprese, quanto dalle condizioni asfittiche di un’economia nazionale e mondiale piegata dalla più grave crisi del capitalismo.
Cisl e Uil hanno anteposto le necessità contingenti, la ricerca del dialogo tra parti sociali, il negoziato, raramente la partecipazione quando è stato possibile spuntarla, ad una difesa acritica di ipotetici valori sindacali, di fatto inesigibili. Questa differenza culturale e di valutazione ha prodotto una divergenza sempre più acuita del movimento sindacale. Ciò richiama nella sostanza la dicotomia storica del ‘900 tra massimalismo e riformismo. Un dissidio mai risolto, né all’interno del movimento politico progressista né in quello sindacale, con il risultato di infiacchire le istanze sociali, diluendole con un «protestassimo» destinato all’inefficacia, capace di alimentare contrasti striscianti tra le Confederazioni, senza produrre effetti efficaci in termini di politica economica come di tutela dei lavoratori.
La stagione che stiamo vivendo appare contrassegnata da una dicotomia di fondo: capire il senso e il rilievo che il movimento sindacale può incarnare in una fase contingente così perigliosa, oppure schierare le proprie forze su una linea di resistenza, pressoché passiva e di retroguardia, in attesa di sviluppi futuri, rigidamente orientati agli schemi culturali del ‘900. Porre al centro il valore del lavoro su un piano di negoziazione aperta significa superare ogni tipo di santuario ideologico. Ciò impone di saper intercettare il cambiamento, le metamorfosi produttive contingenti nel segno di un percorso culturale che muove dai valori del solidarismo e dell’etica del lavoro sino ad approdare a lidi nuovi, più fragili ed esposti del passato, tuttavia in grado di proporre il lavoro come elemento costituente di una moderna società di diritto, volta alla coesione sociale, allo sviluppo sostenibile, al riequilibrio sociale ed economico.
Una linea accidentata e scabrosa, irta di ostacoli come di aguzze contraddizioni, percorsa forse per necessità, senza aver maturato un apparato culturale e politico-sindacale in grado di sostenerla. Eppure una necessità storica, pena il rischio di una marginalità progressiva dell’intera componente sindacale, come provano le mobilitazioni europee dalla Grecia, al Portogallo, dalla Francia alla Gran Bretagna, che non sono riuscite ad andare oltre il dar voce ad una condivisibile protesta, a dire il vero scarsamente efficace.
La Cgil è attraversata, da troppo tempo, da un dualismo inconciliabile tra due diverse anime: quella del pragmatismo e quella dogmatica ed intransigente di un’ortodossia sindacale di stampo fordista, esplicitata al suo interno dalla Fiom, una sorta di quarta componente capace di risucchiare ogni timido segnale di dialogo sociale entro i rigidi steccati di un antagonismo che non trova ragioni di concretezza, ma che nella conflittualità esprime la strenua difesa di modelli produttivi sempre più labili ed evanescenti in un’economia globalizzata, come testimonia la vicenda della Fiat.
Le prime mosse del Governo presieduto da Mario Monti hanno plasticamente messo a nudo la fragilità del sistema culturale che sottende l’azione del sindacato. La drammaticità della crisi impone di uscire dai vecchi schemi della politica, così come dalle ritualità del sindacalismo nostrano. Le parole d’ordine che ieri gonfiavano le bandiere di un’idealità solidale appaiono esauste ed incapaci di orientare l’attuale azione verso una ripresa e uno sviluppo economico in grado di sostenere i livelli di welfare e di sicurezza sociale conquistati negli ultimi decenni del ‘900.
È necessario attingere ad un’originalità di pensiero, a un sindacalismo rinnovato, a una coesione multilaterale se il movimento dei lavoratori nelle sue diverse componenti intende rilanciare il proprio ruolo in modo cruciale, come lo è stato negli anni 70, nella stagione del terrorismo o con il modello della concertazione proposto da Carlo Azeglio Ciampi negli anni 90. Perseguire una dottrina conservativa appare, per altro verso, un rischio grande, quello di confinare l’azione sindacale nell’alveo di un rivendicazionismo di diritti legittimi, senza la capacità di renderli esigibili, allontanando di fatto la rappresentanza del lavoro dal cuore dei sistemi produttivi.
I prossimi mesi diranno se il movimento dei lavoratori, o parte di esso, sarà in grado di affrontare le ardue sfide della storia con il dinamismo e con il vigore necessario, percorrendo quel crinale dell’innovazione che sovente richiamano, ma che stentano a mettere in pratica, liberandosi di ogni sovrastruttura culturale o militante che ne infiacchisce l’azione.

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