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Attualità della concertazione

MARIO MONTI NON DEVE METTERE IN SOFFITTA
IL METODO SEGUITO
DA CIAMPI NEL 1994

di GIORGIO BENVENUTO
presidente della fondazione
Bruno Buozzi

el Paese sta crescendo un vento di protesta; prima era solo la rassegnazione. Tutti sono convinti che viviamo una situazione economica e sociale complessa che richiede una svolta per sciogliere i nodi che impoveriscono ed impediscono all’Italia la ripresa della crescita e dello sviluppo. Sappiamo che si è perso molto, troppo tempo. È stata sprecata la legislatura. In tre anni non si è fatto nulla. La crisi e la polverizzazione della maggioranza uscita dalle urne nel 2008 ha avuto effetti dirompenti. Le scelte di carattere economico sono state tardive, contraddittorie, inadeguate, confuse. Nell’ultimo anno il Paese è stato sottoposto a un’overdose di provvedimenti congiunturali per tamponare i buchi di bilancio e per affermare alla meno peggio la credibilità dell’Italia in Europa e nello scenario internazionale.
L’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha delle pesanti responsabilità. Ha prima teorizzato l’inesistenza della crisi economica, ha aggredito il sistema del credito, ha predisposto spezzoni di riforme come quelle sul federalismo fiscale, che hanno indebolito la coesione sociale ed hanno portato a spinte corporative territoriali. Il Paese si è così bloccato. Non è cresciuto. È entrato in una cronica stagnazione. Il debito pubblico è tornato a crescere. La maldestra e improvvisata politica di rigore praticata è stata una medicina letale. Si può dire che si è determinata per la nostra economia una sorta di «rigor mortis».
Le dimissioni del Governo Berlusconi sono così divenute inevitabili. Il presidente della Repubblica ha svolto un ruolo attento, positivo, lungimirante, per evitare che il declino del Paese diventasse irreversibile. È stato così varato, con un forte consenso di opinione, il Governo Monti, composto da quanto di meglio potesse esprimere il Paese nel campo dell’economia e della finanza. Il Governo Monti ha ottenuto anche in Parlamento un appoggio e una delega molto ampia per operare con rapidità, con decisione, con efficacia, con equità. Non si trova ora ad operare in una situazione chiara. A sostegno del Governo non c’è una coalizione organica di partiti come in Germania. Non c’è nemmeno il fair-play che ha caratterizzato i cambiamenti politici in Spagna e in Grecia.
Monti è tirato per la giacca a destra, a sinistra, al centro. Deve ogni volta trovare dei punti di convergenza che spesso, per la presenza delle pregiudiziali dei singoli schieramenti, rendono deboli e inique le decisioni adottate. Il nuovo Governo ha parlato con chiarezza al Paese, ha indicato con precisione quali debbano essere le cure da praticare, ha stimolato gli italiani ad agire per convinzione e non per costrizione. Ha sollecitato l’orgoglio degli italiani ad accettare la sfida dei mercati per riprendere la crescita e costruire il futuro per le nostre ragazze e per i nostri ragazzi.
Il piano per salvare l’Italia ha bisogno di consensi, di convinzione, di mobilitazione, di partecipazione. Si vince se si convincono e se si avvincono i cittadini in un disegno di ricostruzione, di ripresa, di sviluppo. Il Paese ha tanti, troppi difetti. Ma ha un pregio: quando cade in acqua impara a nuotare. È capitato nel dopoguerra e poi con il miracolo economico, con il primo centrosinistra degli anni 60, con la lotta all’inflazione, con la sconfitta del terrorismo.
Monti deve agire come fece a suo tempo Carlo Azeglio Ciampi. È debole in Parlamento e con i partiti, perché non è appoggiato da un’organica e coesa maggioranza; è forte nel Paese che, più del sistema politico, è in sintonia con il suo Governo perché ha compreso la gravità e la drammaticità della crisi. Ecco perché ha commesso un errore limitando il confronto sul decreto «Salva Italia» ai soli partiti. Deve sentire anche la società. La politica di concertazione non è una fastidiosa perdita di tempo. Le forze sociali vanno organicamente coinvolte nell’azione di risanamento e di sviluppo.
Le organizzazioni sindacali hanno una forte e radicata presenza nel territorio. Possono svolgere un ruolo fondamentale per convincere i lavoratori sulla necessità di uno scambio tra i sacrifici di oggi e la crescita di domani. Possono aiutare a superare la rassegnazione. Possono trasformare la protesta in proposta. Possono impedire che la coesione del Paese si spappoli in una miriade di spinte di carattere corporativo. Sarebbe un grave errore sottovalutare o ignorare le proposte delle parti sociali, soprattutto nei prossimi mesi quando si dovranno affrontare i temi delle liberalizzazioni, del mercato del lavoro, della tenuta dei conti economici, dello sviluppo.
Va recuperato il dialogo. Se non si agisce così l’equità diventa una foglia di fico che nasconde l’intangibilità degli sprechi della politica e delle corporazioni, com’è avvenuto ad esempio nei processi di liberalizzazione per i taxi, per le farmacie, per gli ordini professionali ecc. Giuliano Amato e poi Ciampi, in una delle fasi tra le più buie della storia della Repubblica, si avvalsero della sponda delle forze economiche e sociali. Nella vita del Paese, quando il mondo del lavoro è stato chiamato al confronto, ha svolto sempre un ruolo costruttivo e responsabile. Ci sono, certo, divisioni nel sindacato, ma mai - dico mai - ha prevalso la linea della contrapposizione radicale. È sempre stata vincente la linea riformatrice.
È avvenuto in occasione del referendum sulla scala mobile. Gli operai delle zone industriali furono allora decisivi nella vittoria del No all’abrogazione del patto contro l’inflazione. È avvenuto con Ciampi sulle nuove regole contrattuali. È avvenuto con Lamberto Dini quando, con un generale consenso, si è cambiato il sistema previdenziale. Il problema del coinvolgimento del sindacato non è di metodo. È un problema di sostanza.
Oggi la manovra di Monti per i veti incrociati dei partiti è diventata asimmetrica, squilibrata, iniqua. Questi aspetti si sono accentuati dopo la discussione parlamentare. Mi spiego. Le tasse sono troppe. Incidono in prevalenza sui pensionati, sui lavoratori, sulle famiglie, sulle piccole imprese. Le nuove misure fiscali violano i principi fondamentali dello Statuto del Contribuente. Si sta accentuando il carattere vessatorio ed inquisitorio dello Stato.
Sono stati riposti in soffitta i principi della «moral suasion» e della collaborazione tra contribuente e Amministrazione Pubblica. La giusta e sacrosanta lotta alla evasione fiscale sta diventando una specie di criminalizzazione generale dei cittadini. Non ci sono più regole. Vengono violati i principi della retroattività. C’è un crescente abuso di sanzioni penali ed economiche gestite non sempre con duttilità e con intelligenza, come sta avvenendo nei settori dell’accertamento e della riscossione. Si aprono crepe insidiose che lasciano spazi, per l’esercizio di provvedimenti unilaterali, alla corruzione e al malaffare. Si sta sfiorando il ridicolo con la tracciabilità obbligando milioni di pensionati, titolari di pensioni inferiori al minimo, a dover aprire costosi conti correnti bancari o a dover essere utilizzatori di carte di credito.
Come spesso è avvenuto nel passato, le leggi si applicano ai nemici, si interpretano per gli amici. Non vorrei essere frainteso. Siamo in un periodo di vacche magre. Rinunce e sacrifici sono inevitabili. Ma non a senso unico, non come sempre sui soliti «noti». È stato detto che la patrimoniale sulle grandi ricchezze richiede due anni per essere attuata. Non è vero, anzi è una bugia. Gli strumenti di cui possono disporre l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza sono efficaci e risolutivi. Non ci sono più santuari inviolabili. Il segreto bancario è stato intaccato. Le banche dati forniscono informazioni e notizie precise che possono essere decisive nella lotta all’evasione fiscale, al riciclaggio del denaro, alla criminalità economica.
È vero che vi sono delle resistenze e dei veti politici. È stata abolita la super Irperf per i grandissimi redditi e per le incredibili liquidazioni dei manager delle imprese e delle banche. È stata invece inventata una nuova addizionale a favore delle Regioni che, retroattivamente dal 1° gennaio 2011, riguarda tutti i redditi, in modo proporzionale e non progressivo. La manovra è squilibrata dal lato delle entrate perché si fa poco sul fronte delle spese. A me non piace parlare di costi della politica. È un termine pericoloso e qualunquistico che appartiene alla cultura antiparlamentare del nostro Paese («Piove, governo ladro!»). Preferisco parlare di sprechi della politica.
Monti è stato costretto a far marcia indietro o a procrastinare nel tempo le coraggiose iniziative che erano contenute nella prima stesura del decreto «Salva Italia». L’abolizione delle Province è stata rinviata al 2013. Non se ne farà nulla. Giungerà puntualmente in soccorso uno dei tanti decreti «milleproroghe» che rinvierà a ulteriori scadenze la realizzazione di quell’obiettivo. Con ironia possiamo amaramente ricordare che la prima proposta di legge per abolire le Province è stata depositata in Parlamento all’inizio del 1900. Dopo di allora le richieste di abolizione sono state innumerevoli. Senza esito. Anzi nel corso del tempo le Province si sono moltiplicate.
È stata rinviata alle prossime elezioni la soppressione degli emolumenti vigenti per gli incarichi politici ricoperti nelle Comunità montane e nelle Circoscrizioni. La riduzione dei costi delle assemblee elettive è stata condizionata agli esiti dei lavori di apposite Commissioni che dovrebbero studiare, verificare, riferire, proporre e via dicendo. «Campa cavallo che l’erba cresce!». Non si riesce ad attuare completamente la sentenza della Corte Costituzionale che impone la fine dei doppi incarichi in Parlamento (più di 70 parlamentari che sono anche sindaci, presidenti di Provincia, presidenti di Regione). Insomma non si riescono a realizzare in maniera incisiva tagli agli sprechi della politica. I partiti sono, ahimè, diventati una fabbrica di poltrone, un gigantesco e costoso «poltronificio».
Se ci si confronta solo con i partiti, non si riuscirà mai a ridurre le spese di un apparato che appesantisce e ritarda la politica economica e sociale nel nostro Paese. Nessuno chiede di ignorare i partiti. Tutti vogliono che ci sia equità. L’unico taglio strutturale alle spese non può essere ancora una volta solo quello che riguarda in termini molto, molto pesanti il nostro sistema previdenziale. È necessario un impegno molto forte, come sollecita il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Occorre che in Europa si smentisca quello che Wolfgang Goethe diceva del nostro Paese: «Ecco l’Italia. Sempre polverose le strade, sempre spennato lo straniero qualunque cosa faccia... C’è vita ed animazione...non ordine e disciplina. Ognuno pensa solo a sé e diffida degli altri, e i reggitori dello Stato, anche loro, pensano a sé soli». L’Italia è un Paese che può farcela. Esistono potenzialità che vanno usate. L’augurio a noi e a Monti che non venga archiviata, ma valorizzata, la politica della concertazione con le parti sociali che consentì a Carlo Azeglio Ciampi di far uscire il Paese dal pantano nel quale era precipitato con la fine della prima Repubblica.

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