ALBERTO DE SANTIS: AVANTI O INDIETRO NELL'ASSISTENZA
ALLA TERZA ETÀ?
Il prof. Alberto De Santis,
presidente dell’Anaste,
Associazione Nazionale
Strutture per la Terza Età

Le imprese sanitarie,
in particolare le RSA,
sono sulla via del
fallimento
perché le Asl non pagano
e per erogare gli stipendi
e saldare
i fornitori
l’imprenditore deve finanziarsi
dalle
banche ma non versa
le imposte perché
non
dispone di denaro,
l’Inps lo comunica
ad Equitalia che emette un atto
ingiuntivo bloccandogli
i finanziamenti |
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attesa di vita è molto aumentata negli ultimi decenni e solo di recente il fenomeno ha rallentato per le donne, che però presentano ancora nei confronti degli uomini una differenza di 6 anni. Il periodo di non autosufficienza non si è allungato, ma i bisogni sanitari e sociali della popolazione crescono con l’aumento dell’età e continueranno a svilupparsi. Aumenta invece la spesa per l’assistenza prestata agli anziani dai familiari. In passato si è manifestato un boom di badanti, favorito dal Governo nel disciplinare le immigrazioni per i valori connessi a questa preziosa presenza. A favore della Terza Età e soprattutto dei soggetti non autosufficienti sono tutti capaci di pronunciarsi, ma pochi di sacrificarsi, anche tra i congiunti. C’è chi combatte invece giornalmente una battaglia per migliorare la qualità della vita di tanti anziani, spesso soli, abbandonati, tristi, malati. Per farlo deve affrontare grandi difficoltà addirittura di «sistema». Tra i benemeriti di quest’azione figura ai primi posti il prof. Alberto De Santis, presidente dell’Anaste, Associazione che rappresenta le strutture private e private accreditate con il Servizio Sanitario Nazionale per assistere anche chi ha trascorso una vita per la famiglia e per il prossimo, e si ritrova solo.
Domanda. Si va indietro con l’assistenza alla terza età?
Risposta. Visto che nell’attuale situazione le risorse finanziarie per il welfare non ci sono quasi più, come rappresentante dell’Anaste, che riunisce le strutture per la terza età, ho avanzato la proposta di ampliare il concetto di Fondo unico per la non autosufficienza, tanto più che il disegno di legge governativo di delega fiscale e assistenziale prevede di ridurre, nel 2012, di 4 miliardi di euro la spesa in questo settore e di altri 20 miliardi nel 2013, su un budget di 62 miliardi. Un taglio che penalizzerà assegni di accompagnamento, pensioni di reversibilità, rette che già oggi le Asl non si riescono a pagare a tutte le strutture, e domani sarà anche peggio. In una serie di riunioni lo scorso anno, con i Fondi sanitari integrativi, ho concluso un accordo quadro nazionale con la Federsalute affinché tutte le aziende, circa 14 mila con 150 mila dipendenti, aderiscano al Fondo Est, che ha lo scopo di garantire ai lavoratori un’assistenza sanitaria integrativa del SSN. Alcune, per esempio l’Amplifon e la Federottica, già vi aderiscono; anche le altre aziende dovranno farlo perché nei contratti di lavoro è prevista l’adesione ai Fondi sanitari integrativi, non obbligatoria ma facoltativa ad ogni rinnovo.
D. Come far fronte alle difficoltà?
R. Nel corso delle riunioni con i rappresentanti dei Fondi sanitari integrativi più rappresentativi, svoltesi al Censis e coordinate dalle dott.sse Carla Colicelli e Isabella Mastrobuono e dalla prof.ssa Grazia Labate, ho sintetizzato quanto emergeva e poiché ormai il welfare è insufficiente, ho formulato un’ipotesi sostenibile: la costituzione di un Fondo Unico per la non autosufficienza, consistente innanzitutto nell’adesione obbligatoria da parte delle aziende ai Fondi sanitari integrativi, ciascuna al proprio, perché ne esistono oltre 300 in anagrafe ma anche molti non registrati. Il primo obiettivo è creare una direzione che li gestisca a livello tecnico-politico, lasciando le competenze ad ognuno di essi secondo la propria identità; il secondo è conoscere il loro patrimonio, perché si tratterebbe di miliardi di euro. Se consideriamo che per ogni dipendente gli imprenditori versano 10 euro al mese ai Fondi, e i dipendenti contribuiscono con una sia pur minima percentuale, ogni anno si accumulano ingenti somme. Partendo dal presupposto dell’adesione obbligatoria da parte delle aziende ai Fondi sanitari integrativi, andrà rimodulata l’indennità di accompagnamento che oggi viene elargita a tutti; non mi sembra corretto che soggetti in grado di vivere agiatamente ricevano 482 o 497 euro al mese dall’Inps per tale indennità.
D. Vi sono altre proposte?
R. Andrebbe posto un tetto da quantificare, per ipotesi dai 1.500 ai 1.700 euro mensili, in modo da calcolare la spesa annua. Ma non è questo l’aspetto più importante. L’indennità integrativa andrebbe rimodulata in tre scaglioni, perché oggi è uguale per tutti; in Germania esistono scaglioni da 300, 600 e 1.200 euro, perché nell’ambito del sistema pensionistico non presentano tutti le stesse necessità, c’è chi ha più e chi meno bisogno. All’adesione obbligatoria ai Fondi e alla rimodulazione dell’indennità di accompagnamento andrebbe aggiunta la rinuncia, da parte di dipendenti pubblici e privati, a un giorno di ferie, per versarne il corrispettivo in un Fondo unico. Parte di questa somma verrebbe dai lavoratori, mentre le imprese verserebbero solo la quota «fiscale», non potendole gravare di ulteriori oneri; per esse andrebbe studiato un meccanismo di defiscalizzazione grazie al quale costituire un Fondo unico. Questo meccanismo darebbe, tra i 12 e i 24 mesi, circa 12 miliardi di euro che consentirebbero innanzitutto di pagare nel termine di 30 giorni, come prevede il Parlamento europeo, le rette alle strutture, rimettendo in moto il welfare. Non tutta la somma andrebbe infatti usata; una parte andrebbe destinata alla costruzione di circa 250 mila posti letto necessari in Italia per arrivare alle medie minime europee, consistenti nella riserva del 6 per cento a favore degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti. Questi nuovi posti letto comporterebbero 350 mila posti di lavoro per giovani da formare; tutte queste strutture non potrebbero essere costruite in un anno ma gradualmente, partendo dal Sud che registra una carenza cronica di esse.
D. Chi investirebbe tanti capitali?
R. Gli imprenditori privati, che mi onoro di rappresentare nell’Anaste, sono disponibili ad investire in questo senso, sono pronti a costruire queste strutture attraverso imprese di loro fiducia; non tutti questi posti letto debbono essere gestiti dai privati, ma questi ultimi sono disponibili a costruirli e a metterli a disposizione del terzo settore, che ha partecipato con interesse al nostro convegno del 17 novembre scorso presso la Confcommercio sul tema «Un grande patto di solidarietà per un nuovo welfare fra tutti gli attori del sistema». Convegno che ha avuto un grande riscontro e le cui proposte fatte dall’Anaste sono state riportate al VI Forum Risk Management in Sanità svoltosi in Arezzo la settimana successiva. Ed è proprio questo il concetto basilare, ma è evidente che, se si vuole che i privati investano ingenti risorse finanziarie, è necessario evitare la trafila burocratica oggi esistente e predisporre, con il Ministero, le Asl ecc., un meccanismo in cui un rappresentante della Regione controlli i progetti e i lavori e, conclusa la costruzione, esegua immediatamente i collaudi, ne autorizzi il funzionamento, consenta il ricovero delle persone in lista d’attesa e il pagamento delle rette.
D. Un’operazione idonea a contribuire alla ripresa economica?
R. Andrebbe oltre la funzione di ammortizzatore sociale, perché rimetterebbe in moto un volano costituito da edilizia sanitaria, posti di lavoro, introiti fiscalizzati per lo Stato. Oggi invece si fanno fallire le imprese perché le Asl non pagano, o lo fanno con 24 e più mesi di ritardo; per erogare gli stipendi ai dipendenti e pagare i fornitori l’imprenditore deve finanziarsi presso le banche; presenta gli F24 per pagare imposte e contributi ma, non disponendo di risorse finanziarie, non paga; per cui l’Inps comunica ad Equitalia il mancato pagamento e questa emana un atto ingiuntivo che blocca automaticamente la possibilità di ottenere finanziamenti bancari. L’imprenditore è quindi «costretto» a fallire e si perdono posti di lavoro.
D. Oltre ai ritardati pagamenti, da che cosa dipende questa situazione?
R. C’è sempre una sorta di vessazione nei confronti del privato. Nel convegno dello scorso novembre ho detto che in un momento di crisi occorre avere idee, investire, abbandonare contrapposizioni ideologiche, favorire collaborazioni tra i settori pubblico e privato sia nel welfare che nella sanità. Al VI Forum Risk Management in Sanità di Arezzo su «Dalle esperienze ai nuovi modelli di integrazione», qualcuno ha osservato che vengono sempre eliminati posti in ospedali pubblici e non in strutture private, ma questo non è vero; almeno per le RSA accreditate, ho fatto presente quante vessazioni vengono perpetrate nei confronti degli erogatori privati accreditati, consistenti in riduzioni improvvise e unilaterali dei compensi concordati al momento della firma dei contratti, e dopo che l’imprenditore ha compiuto gli investimenti; non si può pretendere dallo stesso il rispetto di un Piano sanitario regionale contenente standard abitativi e di pianta organica, se poi la Regione non dispone l’ingresso delle persone in lista d’attesa; in tal modo si fanno fallire le strutture che, in numerose regioni, sono in serie difficoltà. In una tavola rotonda successiva, «Un patto di solidarietà per la tutela della non autosufficienza dell’anziano», coordinata dall’on. Mirella Ricci, vicepresidente della Provincia di Arezzo e dal dott. Massimo Giannone del Ministero della Salute, ho ripreso la proposta dell’Anaste presentata al Convegno del 17 novembre, condivisa dalla prof.ssa Labate, dal dott. Lino del Favero presidente della Federsanità dell’Anci, da Augusto Battaglia e dal prof. Carlo Hanau; la proposta, ripresa anche dal Sole 24Ore Sanità, ha riscosso notevole successo.
D. Dove, in modo particolare?
R. In Lombardia, come in Emilia Romagna, si assiste a una riduzione periodica del 3 per cento delle rette, anno dopo anno; gli imprenditori sono invitati a «prendere o lasciare», e la riduzione è economica ma anche qualitativa. Da parte nostra cerchiamo di mantenere la qualità del servizio sempre ai massimi livelli, perché è uno dei nostri obiettivi fondamentali insieme all’economicità della gestione; parlo di quella qualità apprezzata dagli ospiti, non di quella generica.
D. A che punto sono i Piani regionali di rientro dei deficit?
R. I Piani incontrano difficoltà e, per far rientrare i deficit, le Regioni riducono le rette; inoltre non si parla mai dei «liveas», o livelli di assistenza sociale, rimasti fermi da tempi immemorabili. Nella sanità è possibile tagliare posti letto perché oggi una delle spese maggiori è costituita dai ricoveri impropri, relativi a persone anziane che vivono con i propri familiari, e che in caso di crisi di senilità o di acuzie sono condotte nei pronto soccorso perché nelle case di riposo e nelle RSA non vi sono posti, mentre c’è una nutrita lista di attesa. L’ospedale è costretto a ricoverarli, per questo si vedono sostare nelle corsie molti anziani in barella; devono poi essere ricoverati nei reparti di medicina, nei quali un posto letto costa circa 700 euro, uno di chirurgia mille, uno di RSA 129 euro.
D. Non si arriverà mai alla quadratura del cerchio?
R. No al momento, perché un taglio di 24 miliardi in due anni comporta l’ulteriore riduzione di tutta l’assistenza. Eravamo arrivati in un punto in cui si dovevano garantire non solo l’assistenza e la cura, ma anche la prevenzione, necessaria anche per la terza età tanto che il Parlamento europeo ha proclamato il 2012 l’anno dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra generazioni. Questo progetto mira a far rimanere a lungo gli anziani nei posti di lavoro o ad inserirli nel volontariato, anche con un rimborso, per farle sentire attive, perché se abbandonate a se stesse si deprimono e possono essere colpite da malattie degenerative. Questa situazione consente di migliorare la qualità e allungare la vita delle persone anziane, evitando la necessità di ospitarle anzitempo in una struttura.
D. La situazione dell’Inps è disastrosa?
R. Il costo delle pensioni è ingente, la Corte dei Conti ha richiamato l’attenzione sulla grave situazione della previdenza ma il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua ha sostenuto che non è proprio così, che i fondi esistono, occorre razionalizzare alcuni comparti. Spesso si sente dire che le pensioni di oggi sono pagate con i contributi versati dai lavoratori giovani pure di oggi. Se questo è vero, dove sono stati impiegati i contributi versati dai lavoratori di ieri? Ecco perché sarebbe opportuno attuare la mia proposta del giorno di ferie diretta a reperire denaro fresco e a metterlo in circolazione per creare un’economia sana e a costo zero per lo Stato. Con questo patto di solidarietà cittadini e imprenditori potrebbero rimettere in moto un meccanismo di risparmio che noi proponiamo sia gestito dall’Inps.
D. Come si è arrivati a questa situazione dalle iniziali mutue?
R. Ogni categoria di lavoratori aveva la propria mutua, ed oggi si sta tornando a quel sistema. Quello che noi proponiamo è di non sovrapporre i servizi erogati dal Servizio Sanitario Nazionale e dai Fondi sanitari integrativi, ma realizzare un’integrazione tra il primo, che eroga il servizio, e i Fondi stessi. Questo è fondamentale perché, se si fanno le stesse cose, si crea confusione. Per esempio, nei Fondi sanitari integrativi un 20 per cento è dedicato all’odontoiatria e all’oftalmia per chi non è autosufficiente, ma limitatamente a un anno: se una persona che lavora è colta da ictus, viene assistita per un anno ma, compiuta la riabilitazione, o rientra in servizio o va in pensione. Questo è il concetto del 20 per cento. Noi vorremmo ampliarlo in modo che la parte eccedente questa percentuale vada al Fondo unico per la non autosufficienza, per costituire quei 12 miliardi di euro.
D. Riuscirà la riforma delle pensioni del Governo Monti?
R. Rispetto al retributivo, il sistema contributivo abbassa notevolmente la pensione. Introdurlo in corso d’opera è doloroso, ma spero che anche il mondo politico prenda coscienza e dia l’esempio, non perché la riduzione di reddito imposta ai parlamentari sia significativa, ma perché costituisce un esempio.
D. Con il sistema contributivo non si dirottano ingenti somme dalla previdenza pubblica alle assicurazioni private?
R. Non hanno avuto un grande successo in questo settore, forse perché il sistema contributivo non era obbligatorio. Nel primo e secondo Governo Berlusconi fu avanzata la proposta di rendere obbligatoria l’assicurazione per la non autosufficienza; partecipai all’audizione nella Commissione parlamentare, per conoscere il testo bipartisan la cui relatrice era l’on. Katia Zanotti del PD. La proposta di legge era ben fatta, prevedeva il pagamento tramite prelievo fiscale diretto sull’Irpef. Tutte le parti sociali la definirono accettabile, il Governo promise che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani, e per questo non fu inviata all’esame in Aula. Avrebbe risolto tutti i problemi con un prelievo dello 0,75 per cento. L’anomalia italiana è un’elevata spesa sanitaria «out of pocket», non intermediata da altri soggetti profit o non profit, che esce direttamente dalle tasche dei cittadini. Recenti studi indicano che circa l’82,4 per cento è direttamente sostenuta dai cittadini, il 13,9 è coperto da Fondi sanitari negoziali, Casse e mutualità, il 3,7 per cento da assicurazioni for profit, ramo malattie e ramo vita. Vanno aggiunte le spese per le 800 mila badanti che hanno difficoltà di linguaggio e non sono preparate per gestire l’anziano nella movimentazione e nella conoscenza dei problemi geriatrici, oltre alla scarsità di infermieri, personale in genere, operatori socio-sanitari. Noi abbiamo un ente di formazione, l’Anaste Campus, istituito con la Link Campus University of Malta. Abbiamo organizzato un corso di laurea triennale per responsabili di strutture socio-assistenziali e socio-sanitarie. Inoltre abbiamo progettato corsi online per operatori socio-sanitari sia di qualificazione che di riqualificazione mettendo a disposizione le strutture associate per il tirocinio. Il costo è modesto rispetto a quelli in aula ma, pur avendone fatto richiesta alle Regioni, nessuna di esse li ha autorizzati. Gran parte delle strutture operano con personale non riqualificato per mancanza di corsi, e per questa carenza giustamente i Carabinieri dei Nas continuano ad elevare verbali.
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