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IL PUZZLE
DELLE TRE EMME:
MARCEGAGLIA,
MARCHIONNE, MONTEZEMOLO

a cura di
LUIGI LOCATELLI


Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria

Sergio Marchionne

Luca Cordero di Montezemolo

Chi ha interesse,
e con quali obiettivi,
a creare un'area antagonista
specializzata in «azione diretta»?
Ed un secondo
interrogativo riguarda
la disattenzione
degli organi di stampa
verso determinati
avvenimenti

a mattina del 4 ottobre scorso la prima pagina dei quattro principali quotidiani nazionali aveva come apertura un titolo a tutta pagina sulle lacrime della giovane americana Amanda Knox assolta insieme al coimputato Raffaele Sollecito nel processo dinanzi alla Corte d'Appello di Perugia dall'accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher. Così anche i telegiornali Rai e Mediaset. Un'eccezione dopo mesi di titoli e articoli di stampa urlati, prodotti dal più esasperato pessimismo soprattutto per le notizie riguardanti le vicende economiche di casa. Titoli e articoli allarmanti, che facevano ricordare il lamento dell'abate di Tournai, Gilles Li Muisis: «In fatto di monete, le cose sono molto oscure. Esse crescono e diminuiscono di valore e non si sa cosa fare; quando si pensa di guadagnare si trova il contrario».
Solo i quotidiani economici quel martedì avevano in prima pagina come titolo più importante lo strappo dalla Confindustria deciso dalla Fiat, la maggiore impresa nazionale. Nello stesso giorno in cui il suo amministratore delegato Sergio Marchionne annunciava ufficialmente, con una doppia lettera alla presidentessa degli industriali Emma Marcegaglia, l'evento destinato a sconvolgere i rapporti tra la Fiat, il sindacato degli imprenditori e le tre organizzazioni di categoria dei lavoratori, non mancavano altri titoli robusti, senza ricorrere alla cronaca di Perugia.
Quel lunedì la capitale era bloccata da uno sciopero dei taxi romani per una questione di tariffe, sostenuto dalla solidarietà, con astensione totale dal lavoro, anche dei mezzi pubblici di Atac, Roma Tpl, Cotral e Roma Servizi Mobilità, ossia della totalità delle aziende di trasporto pubblico romano. Alle agitazioni romane si aggiungevano quelle di Genova con lo sciopero dei dipendenti della Fincantieri per protestare contro l'azienda a causa della mancanza di commesse di navi da costruire, e quelle di Torino con 4 ore di sospensione del lavoro e corteo dei dipendenti dell'Alenia Aeronautica contro un possibile trasferimento nel Nord del centinaio di impiegati della sede romana.
A Termini Imerese, allo sciopero per l'intero turno del giorno precedente venivano aggiunte altre otto ore di blocco del lavoro. In Val di Susa quel giorno cominciava il carotaggio, ossia la perforazione della montagna per lo scavo del tunnel sotterraneo di Chiavenna, con il consueto stato di allerta delle forze dell'ordine per tenere a bada i manifestanti, che apparivano pochi ed eccezionalmente tranquilli. Era già accaduto in luglio che un corteo pacifico di residenti si concludesse con un centinaio di agenti feriti. «Infiltrati» fu la giustificazione, senza spiegare perché nessuno aveva provveduto a isolare i non residenti sospettati di amare «l'azione diretta».
CHI SONO QUESTI NO-TAV? Questa esperienza non attenuava le preoccupazioni dei responsabili dell'ordine pubblico, degli agenti in particolare, vittime di apparenti gitanti. Chi sono questi violenti no-Tav, abili nelle aggressioni e nelle azioni di contrasto malgrado l'assetto anti-sommossa degli agenti? Non sanno nulla del Corridoio 5 che con la quota di finanziamenti europei dovrà attraversare la vallata contribuendo alla riduzione dell'83 per cento del trasporto merci su strada a favore di quello su ferro. Non sanno quanto l'opera sia necessaria per ridurre i 731 autocarri per chilometro che ingombrano le autostrade, soprattutto in un Paese lungo e stretto come la Penisola. Non conoscono il significato degli indici sempre peggiori segnati dalle Borse, da Wall Street a Milano. Non sanno di scioperi, di salari bassi, di lavoro delicato e faticoso, di bilanci delle imprese, di tasse da pagare, di modernizzazione del Paese, di crisi finanziaria globale, di bilancio pubblico da riassestare comunque e a costo di gravi sacrifici, di disoccupazione, di lavori saltuari, di maggioranze o di minoranze politiche. Sanno soltanto, e molto bene, che debbono ostacolare con qualsiasi mezzo, in Val di Susa e dovunque sia necessaria, la realizzazione delle opere di utilità generale, e che debbono creare disordini, demolire sbarramenti, danneggiare strade e negozi. Non sanno quali danni producono e chi colpiscono. Non sanno neppure a vantaggio di chi vanno le loro violenze. Purché violenza sia. Da chi e con quali obiettivi sono stati reclutati e addestrati alla guerriglia urbana, con la grande capacità di mimetizzarsi, scomparire, ripresentarsi tra le vittime incolpevoli dell'asprezza delle forze di polizia. Basta essere passati una sola volta nella Val di Susa per vedere come non sia facile organizzare gruppi di violenti senza una tolleranza locale e per chiedersi come sia stato consentito a costoro di mimetizzarsi all'interno dei cortei dall'apparenza pacifica per poi assalire all'improvviso gli agenti.
Qui torna l'interrogativo principale: chi ha interesse, e con quali obiettivi, a creare un'area antagonista specializzata in «azione diretta»? E il secondo interrogativo riguarda la disattenzione degli organi di stampa verso determinati avvenimenti. La risposta potrebbe essere rintracciata nella composizione dei consigli di amministrazione dei gruppi editoriali: imprenditori, finanzieri, azionisti di altri importanti gruppi. In nessun caso figura un editore puro, ossia un uomo d'impresa che lavora e ricava redditi nell'editoria, ma editori di giornali che costituiscono il ceto dominante, che proclamano la necessità di profondi cambiamenti ma nei fatti non vogliono cambiare alcunché perché qualsiasi riforma in senso autenticamente liberale non può che disturbare i loro interessi.
LE COLPE DEGLI EDITORI. Una situazione unica nel mondo occidentale, considerata di tutta normalità. Mai viene svolta un'inchiesta documentata, accompagnata da una serie di interrogativi e di analisi approfondite. A questo quadro di non conoscenza fa riscontro la mancanza di motivazioni, di logica politica ed economica, e la grande capacità di autopromozione dei sindacati, in particolare della Cgil, il cui massimo obiettivo è organizzare e proclamare scioperi e sit-in davanti ai Ministeri.
Nata nel 1965 a Gazoldo degli Ippoliti, piccolo centro agricolo residenza della sua famiglia a meno di 20 chilometri da Mantova, laureata in Economia aziendale alla Bocconi di Milano e con master in Business Administration alla New York University, Emma Marcegaglia è consigliere di amministrazione e amministratore delegato dell'azienda di famiglia creata dal padre Steno, oggi ottantenne ancora al comando delle imprese e della famiglia, e dedita alla lavorazione dell'acciaio con un giro d'affari di quasi 5 miliardi di euro. Oggi l'azienda è attiva in sette Paesi, dalla Polonia alla Russia, dal Brasile alla Cina, con un programma di investimenti di 410 milioni di euro, di cui 160 milioni impiegati nei 700 mila metri quadrati di stabilimento, sulla costa della Cina orientale, che dovrà produrre a regime 400 mila tonnellate l'anno di tubi di acciaio inossidabile.
Scadrà nel 2012, poco dopo la fine del mandato di Emma alla presidenza della Confindustria, il piano quadriennale di investimenti comprendente anche 150 milioni di euro in Polonia e i rimanenti 100 milioni ripartiti tra Brasile e Russia, e che potrà consentire al Gruppo di superare la riduzione del 10 per cento dei ricavi dovuta alla crisi. Rimarrà aperto invece il problema degli investimenti nel settore turistico-alberghiero, cominciati negli anni 60 con l'isola di Albarella in provincia di Rovigo, e sviluppati in Sardegna con alberghi, 46 suite, 2 ville oltre a ristoranti e negozi del Forte Village resort di Santa Margherita di Pula, con circa 900 addetti.
La Mita Resort, controllata del Gruppo Marcegaglia, dedita allo sviluppo alberghiero e portuale dell'isola, fattura circa 70 milioni l'anno ed è riuscita a contenere la perdita in poco più di 6 milioni di euro, quasi il doppio dell'anno precedente, a carico di un Gruppo con un indebitamento complessivo di 121 milioni di euro di cui 72 milioni verso banche, rispetto a un patrimonio netto costituito da capitale, riserve e utili, di soli 32 milioni. Un altro risultato negativo è stato prodotto dalla nuova struttura dell'ex Arsenale militare della Maddalena in Costa Smeralda, diventato il Maddalena Hotel & Yacht Club, incluso nell'inchiesta dei grandi appalti, con il sequestro dei fondali deciso dal Tribunale di Pausania che ha impedito la creazione dei previsti ormeggi delle imbarcazioni.
I PROGETTI DELLA MARCEGAGLIA. Emma è stata vicepresidente con i presidenti Antonio D'Amato e Luca di Montezemolo, finché nel 2008 è diventata la prima donna e il personaggio più giovane al vertice della Confindustria. Prossima alla scadenza, è difficile intuire i suoi progetti futuri, se preferirà occuparsi del settore turistico alberghiero del proprio Gruppo di famiglia, o dedicarsi all'attività politica, come potrebbero far supporre alcuni atteggiamenti dell'ultimo periodo di presidenza alla Confindustria. L'uscita della Fiat dall'organizzazione comunque non l'aiuta.
La Confindustria è una associazione privata che ha 101 anni di vita e, dicono soci autorevoli, li dimostra con una struttura fuori del tempo, un apparato governato da una burocrazia interna che non consente cambiamenti, con costi alti e lamentele in proporzione, articolato in più livelli non più funzionali. È un conglomerato di 146.046 imprese con 5.439.195 dipendenti, con quote associative in base al numero di questi che, conti alla mano calcolando una media pro capite di 100 euro, dovrebbero far entrare nelle casse oltre 540 milioni l'anno, coprendo il costo attuale del sistema confindustriale costituito da imprese di dimensioni, capacità economica e produttiva diverse, con interessi anche contrastanti, suddiviso in 18 centri regionali, 23 federazioni di settore, 100 associazioni territoriali, 3 federazioni di scopo, 20 soci aggregati, 97 associazioni di categoria, 216 associazioni aggregate.
Lo scorso mese di maggio è stato determinante nelle scelte della Marcegaglia sul proprio futuro. Nella prima settimana nell'assise di Bergamo molti imprenditori hanno parlato apertamente di un'«autoriforma» della Confederazione. Stefano Parisi è un profondo conoscitore sia della Confederazione essendone stato direttore generale, sia dell'apparato pubblico perché è stato city manager del Comune di Milano, nonché per cinque anni alla guida del dipartimento Affari economici di Palazzo Chigi ed ora amministratore delegato della Fastweb. «È finita l'era dei professionisti della rappresentanza, è necessario tornare alla rotazione degli incarichi; la presidenza di un'associazione è un servizio per le imprese, si svolge per un periodo determinato poi si torna in azienda–ha detto nei giorni scorsi–. Per ridare forza alla Confindustria serve far emergere una nuova classe dirigente. In vista di un periodo di instabilità politica, l'associazione deve radicarsi ancora di più e stare vicino alle imprese».
L'ITALIA DI MONTEZEMOLO. Sembrava ritrovata una sintonia tra il presidente in carica e un autorevole ex direttore generale. Una settimana più tardi è emersa, invece, una sintonia tra Emma Marcegaglia e Luca Cordero di Montezemolo, suggerita da un messaggio sul sito di Italia Futura, la fondazione animata da quest'ultimo. Il messaggio metteva a confronto la frase di Montezemolo «È giunto il tempo di salire sul ring. Non ci si può sempre lamentare, bisogna dare anche un contributo perché le cose cambino veramente», e una più recente dichiarazione della presidente: «In un momento così, noi saremo pronti a batterci per l'Italia anche fuori dalle nostre imprese, con tutta la nostra energia, con tutta la nostra passione, con tutto il nostro coraggio». L'annuncio di un ingresso in politica?
Era presente anche John Elkann, presidente della Fiat, impegnato in un lungo colloquio con il vicepresidente Alberto Bombassei sulla possibile uscita definitiva della grande fabbrica di automobili dalla Confindustria. Si diffondeva la surreale impressione di messaggi privi di consistenza fatti piovere dall'alto dal presidente e dall'ex presidente della Confederazione, mentre i vertici della maggiore azienda privata italiana maturavano decisioni destinate a lasciare un profondo segno.
Il 6 settembre si è vissuta un'altra giornata surreale con lo sciopero generale indetto dalla Cgil e manifestazioni in numerose città; doveva segnare il trionfo del segretario generale della grande Confederazione sindacale Susanna Camusso, in testa al corteo di Roma, con berrettino rosso alla Cipputi. Attuata con manifestazioni sparse in varie città, la protesta non ha consentito la conta dei partecipanti e quindi la rituale diffusione di cifre «ufficiali» relative a presenze almeno triple rispetto alla reale capacità di contenimento delle piazze. L'affluenza è stata deludente, comunque si è evitata l'immagine del maggiore sindacato in difficoltà dopo aver annunciato che lo sciopero generale «avrebbe fatto male».
BANDIERE ROSSE IN VACANZA. In realtà esso è stato trasformato in una generica protesta politica contro il Governo e in una giornata di vacanza per i partecipanti al seguito delle bandiere rosse. Non è stato neppure necessario vigilare per evitare le violenze, temute dall'intransigente segretario generale della Fiom Maurizio Landini, capofila dell'aspro confronto con Marchionne. Era previsto che andasse così, si è commentato nella sede del Partito Democratico ricordando la posizione assunta nel suo interno da autorevoli dirigenti poco favorevoli al nuovo corso assunto dalla Confederazione, scioperando mentre il Parlamento era chiamato a discutere della manovra economica.
Convinti dell'inopportunità di uno sciopero solitario mentre si lavorava per una coerente politica di unità sindacale, una quindicina di parlamentari avevano annunciato che non avrebbero preso parte alla protesta: «Non dobbiamo esservi, non è il momento giusto», era la frase che circolava nella sede romana del PD in Via Sant'Andrea delle Fratte. Questo perché avevano lasciato il segno le inchieste di alcuni giornali sulle retribuzioni dei parlamentari, su caste, cricche, guadagni, attività di comodo, favori ottenuti per motivi non sempre chiari, indennità, compensi, retribuzioni, pensioni dei politici più in vista.
E questo mentre gli introiti dei tre sindacati maggiori continuavano ad essere più misteriosi dei tre segreti di Fatima; e che neppure libri come «L'altra casta» del giornalista di Repubblica Stefano Liviadotti, dedicato a «privilegi, carriere, misfatti e fatturato da multinazionale» del sindacato, come indica il sottotitolo di copertina, sono riusciti a superare. «Solo sommando Cgil, Cisl e Uil–vi si legge–, i sindacalisti in servizio permanente effettivo sono oggi circa 20 mila, un numero che fa delle tre Confederazioni l'ottava impresa privata italiana, dopo Fiat, Telecom, Luxottica, Edizione Holding, Pirelli, Riva e Italmobiliare».
Secondo il quotidiano Libero, i tre sindacati incassano ogni anno un miliardo 171 milioni di euro così ripartiti: 300 milioni di contributi dai lavoratori in pensione, 400 milioni dagli iscritti - sono 5 milioni di lavoratori che pagano 50-60 euro di tessera annuale -, 321 milioni per l'assistenza legale e in questo caso a pagare sono Inps, Inpdap, Inail e altre strutture, 100 milioni per l'attività dei Caf, Centri di assistenza fiscale cui i cittadini possono rivolgersi per la dichiarazione dei redditi, e ai quali il Ministero delle Finanze rimborsa 12-15 euro per pratica singola e 29,74 euro per pratica congiunta. Non sono quantificati gli stipendi dei lavoratori che godono di aspettativa sindacale a carico delle aziende private, e dello Stato per i dipendenti pubblici; i corsi di formazione professionale sovvenzionati dallo Stato e dall'Unione Europea; i ricavi delle copie dei nuovi contratti di lavoro che i sindacati inviano agli iscritti al prezzo di 25 euro l'uno.
CHI RICORDA DI VITTORIO? Milanese, figlia di un direttore editoriale della Mondadori, Susanna Camusso intraprese l'attività sindacale nel 1975 coordinando le politiche delle 150 ore e del diritto allo studio per la Federazione dei metalmeccanici di Milano. Alla prima vertenza, nel 1978 gli scritti chiesero che a difenderli fosse incaricato un uomo. Di carattere fermo, ricorda di aver messo il rossetto una sola volta, per andare a una festa di carnevale. Pochi ricordano Giuseppe Di Vittorio, il comunista a capo della Cgil dalla fine della guerra alla morte nel 1957. Nel periodo in cui alla guida della Confindustria era Angelo Costa, altro personaggio di scorza dura, i due si davano appuntamento nella stazione di Bologna, salivano sullo stesso vagone letto per Roma e discutevano nella notte. Alla Stazione Termini si separavano, con l'accordo in tasca. Il giorno dopo i vertici di Cgil e Confindustria ne prendevano atto.

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