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BANCHE E BANCHIERI

NEL MIRINO PER L'AVIDITÀ DI GUADAGNO,
LA FINANZA CREATIVA, L'ELUSIONE FISCALE

di UGO NALDI

 

L'attuale scenario è impietoso:
sono state piazzate ingenti masse
di derivati tra i piccoli risparmiatori e parte degli amministratori
locali; sono stati
raggirati con titoli
tossici gli anziani,
polverizzando i loro
risparmi di una vita;
si sono concessi mutui a chi non può
rimborsarli e negati prestiti a chi svolge attività imprenditoriali.
Gli «indignati»
hanno qualche ragione

onorè de Balzac scrive nel libro «César Birotteau»: «Lo sguardo del banchiere ha qualcosa di quello degli avvoltoi e degli avvocati: è avido ed indifferente, chiaro e scuro, brillante e cupo». Banche e banchieri sono oggi al centro di critiche e di attacchi per la loro avidità di guadagno e per essere stati protagonisti dell'incauto e maldestro processo di finanziarizzazione dell'economia. Gli «indignati» hanno qualche ragione. Con i soldi dei risparmiatori le banche ne hanno fatte di tutti i colori. Si sono moltiplicate le operazioni volte all'elusione fiscale per utilizzare a proprio vantaggio le complessità e le differenze dei sistemi di tassazione presenti nei vari Paesi.
Tipico e non isolato è il recente caso dell'Unicredit. I giudici hanno ipotizzato il reato di «dichiarazione fiscale fraudolenta» riferita ad operazioni finanziarie compiute nel periodo 2007-2009. Assieme alla Barclays si sono realizzate complesse operazioni al fine di evadere le tasse (cosiddetto «Brontos»): Unicredit avrebbe depositato soldi presso Barclays come se fossero contratti pronti contro termine, per pagare le tasse solo sul 5 per cento dei dividendi. Invece, sulla base di alcuni appunti sequestrati dalla Guardia di Finanza, si sarebbe trattato di un deposito bancario sul quale incide una tax rate del 40 per cento. In sostanza, se dimostrata, si tratta di un'elusione fiscale di 245 milioni di euro (la differenza tra il 5 per cento pagato e il 40 per cento dovuto).
Va sottolineato che Unicredit Barclays ha avuto un parere positivo dallo Studio Tremonti, Vitali, Romagnoli, Piccardi. Massimo Mucchetti in un editoriale sul Corriere della Sera si domanda: «Come può Profumo invocare la patrimoniale pesante e Tremonti fare il Robin Hood contro le banche italiane e la City e, poi, ricorrere nel proprio lavoro a tali furbizie, rifiutate ad esempio da Intesa San Paolo e Monte dei Paschi?».
A queste operazioni dubbie si accompagnano altre che hanno contribuito fortemente al precipitare della crisi economica. Lo scenario è impietoso. Sono state piazzate ingenti masse di derivati tra i piccoli risparmiatori e la gran parte degli amministratori locali. È stata raggirata con titoli tossici (bond argentini, titoli della Lehman Brothers ecc.) la popolazione più anziana, polverizzando risparmi di una vita. Sono stati concessi mutui a chi non li può rimborsare e sono stati negati prestiti a chi svolge attività imprenditoriali: piccole imprese, servizi, artigianato, commercio ecc.
La finanza creativa ha fatto sì che il sistema bancario non si sia dotato di capitali sufficienti per tenersi in piedi. Secondo gli analisti di Bloomberg, sono necessari mille miliardi di dollari su scala mondiale. Non si sa dove trovarli. Quindi si metteranno le mani nelle tasche dei risparmiatori. La ricapitalizzazione forzata è una necessità. Ma non è la soluzione. È una condizione che va accompagnata dall'aumento della domanda per far ripartire l'economia, perché la crescita è l'unica medicina che funziona. Occorre andare oltre la denuncia e la protesta. Ci vogliono scelte razionali e responsabili.
In campo internazionale ci sono undici autorità finanziarie non coordinate, una vera e propria Babele: il Comitato per la stabilità finanziaria (FSB); la Banca per i regolamenti internazionali (BRI); il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (CbvB); il Comitato sul sistema finanziario globale; il Comitato sul sistema dei pagamenti e dei regolamenti; l'Associazione internazionale degli organi di vigilanza del settore assicurativo; l'Organismo internazionale di normalizzazione contabile (IASB); l'Organizzazione internazionale delle commissioni sui valori mobiliari (IOSCO); l'Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (OCSE); il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca Mondiale.
Tutte queste istituzioni non sono riuscite a tenere il passo delle trasformazioni geografiche della finanza globale. Sono figlie del ventesimo secolo, quando gli attori principali erano gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone. Ora il mondo della finanza è cambiato: le economie emergenti pesano più dell'Europa. Tre delle prime cinque banche del mondo per valore di mercato sono cinesi. C'è una discrepanza sempre più forte tra la realtà della finanza globale e le autorità che dovrebbero vigilare su di essa. E l'Italia?
Come sono lontani i tempi nei quali ci si vantava di essere nella graduatoria dei Paesi più industrializzati e sviluppati del mondo, al quarto posto, ad un passo dal superare persino l'Inghilterra. Il declino è stato ed è inarrestabile. Vi ha concorso la cattiva e inconcludente politica del Governo. Ha influito la spericolata politica creditizia delle banche. Non si è riusciti a realizzare nessuna riforma. Il Paese è invecchiato e sclerotizzato. Non esce dal pantano nel quale è finito. Non c'è stata una seria politica economica. Non sono state sfruttate le potenzialità esistenti in tanti settori e in diverse aree geografiche. Si sono perse occasioni e opportunità, in attesa dell'arrivo del mitico ed improbabile Monsieur Godot.
E che dire del credito? La politica del Governo nei confronti delle banche è stata schizofrenica. È passata dal corteggiamento alla demonizzazione. Si è aumentato a dismisura il carico fiscale su banche e assicurazioni (con l'Irap e la Robin Tax) per poi ricorrere a complicate forme di finanziamento con i «Tremonti Bond». Il sistema bancario ha dissipato quell'autorevolezza che aveva conquistato con la riforma bancaria di Amato, con il Testo Unico della Finanza, con la valorizzazione delle fondazioni bancarie. Si è fatto tentare dalla finanza facile, dal guadagno a tutti i costi. Si è affermata una categoria di banchieri spericolati e imprudenti.
E così ci siamo ritrovati con banche sottopatrimonializzate, incapaci ed impossibilitate oggi a svolgere un ruolo nell'azione di sostegno e di sviluppo della nostra economia. È giunta l'ora di restituire i diritti ai risparmiatori, agli investitori, ai clienti. Il riconoscimento dato all'Italia con la nomina di Mario Draghi a governatore della Banca Centrale Europea deve essere accompagnato da un profondo cambiamento di regole, di procedure, di priorità anche in Italia.
È importante che nelle vicende della nostra Autorità di vigilanza si siano affermati i valori della continuità e si sia sconfitta l'ingerenza della politica. Sistemata la Banca d'Italia con la nomina del nuovo governatore, è importante ora che la stessa eserciti la moral suasion per concrete e sollecite iniziative che abbiano al primo posto i giovani e lo sviluppo. È fondamentale un'energica iniziativa per scoraggiare la finanziarizzazione dell'economia rilanciando una politica intelligente nella concessione del credito.
Il rafforzamento dell'autonomia della Banca d'Italia deve consentire di rafforzare la vigilanza per evitare che nel nostro Paese rimangano e permangano «santuari» inaccessibili. Le sollecitazioni alla trasparenza e all'efficienza delle forme di governance nelle aziende del credito che la Banca d'Italia ha rivolto con determinazione in prevalenza alle banche popolari, deve essere estesa con forza e determinazione anche alle grandi banche. La deriva presidenziale ha fatto e fa molto male al nostro Paese. Occorre un gioco di squadra e un grande coinvolgimento di tutti gli operatori.
La Banca d'Italia deve promuovere un cambiamento di mentalità e di cultura. La strada dello sviluppo e della crescita non può essere indicata da spericolati banchieri di «successo» che, come predatori, hanno puntato e puntano tutto sulla finanza speculativa che genera benefici solo per una ristretta cerchia di persone, non certo per i risparmiatori. Non pagano pegno. Alla fine, mal che vada, cadono in piedi con ingenti e ricche «liquidazioni». L'uscita dalla crisi per il Paese non può che utilizzare il credito per investire, per tutelare e per remunerare in modo equo il risparmio, per favorire chi rischia, chi intraprende, chi produce ricchezza.
Il credito va concesso a gente di invenzioni, di avventura, di rischio, di coraggio, che è capace di esportare ed investire del suo. Parlando di finanza creativa si può parafrasare Luigi Einaudi: «Nel ragionamento economico quel che si vede non ha quasi nessun valore; vale tutto quello che non si vede». Guardando a quello che si vede, i finanzieri e i banchieri continueranno a dire, come dicono da quindici anni, che gli economisti non capiscono, perché sono gelosi della loro intraprendenza. Gli economisti risponderanno con Cavour ed Einaudi che «la scienza economica è la scienza del bene comune».

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