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GIUSTIZIA
L’attuazione
della direttiva
europea
sugli appalti
pubblici

TERRORISMO

Bomba
sul davanzale
di un ufficio
elettorale


di Antonio Marini


L’attuazione della direttiva europea
sugli appalti pubblici

La realizzazione delle opere pubbliche non può rimanere bloccata fino al passaggio in giudicato delle sentenze, riguardanti eventuali controversie insorte sulle procedure di gara, che mirano al ripristino della legalità violata, ossia al rispetto della normativa sull’evidenza pubblica

on il Codice dei contratti pubblici del 2006 e i successivi decreti correlati sono state poste le basi per una normativa in materia di appalti pubblici volta a rendere più concorrenziale e trasparente un settore del mercato che ha un valore economico elevatissimo. Questo obiettivo può dirsi raggiunto con il decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 con il quale, sia pure con qualche ritardo sulla scadenza prevista (20 dicembre 2009), è stata recepita la direttiva comunitaria n. 66 del 2007, riguardante il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici.
Già le prime direttive n. 665 del 1989 (procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori), e n. 13 del 1992 (procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto, nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni), integrate poi con modificazioni nella direttiva del 2007, chiarivano che le norme comunitarie tendono ad assicurare una tutela soprattutto per quelle violazioni che possono essere ancora corrette, cioè prima che si verifichino effetti irreversibili.
L’obiettivo di ripristinare la concorrenza e creare nuove opportunità commerciali per gli operatori economici costituisce uno dei punti più rilevanti di tale direttiva, che introduce regole volte a garantire ai soggetti interessati la possibilità di esperire un rimedio prima che si arrivi alla stipula del contratto. La direttiva europea considera due esigenze fondamentali in posizione fra di loro antitetiche. La prima mira a salvaguardare il principio della certezza dei rapporti giuridici e a conservare gli effetti del contratto stipulato da una stazione appaltante pubblica, assicurando così la stabilità e il buon funzionamento delle relazioni economiche. La seconda tende a garantire, in presenza di violazioni considerate gravi, una tutela effettiva a chi venga escluso illegittimamente da una gara pubblica.
Per tutela effettiva si intende la possibilità, per il partecipante alla gara, di conseguire, grazie ai rimedi processuali, non solo il risarcimento dei danni per equivalente, ma l’aggiudicazione stessa del contratto affidato illegittimamente ad altro concorrente. La normativa europea è diretta quindi a conciliare le ragioni economiche dell’efficienza e del profitto con quelle del diritto.
Problema questo di non facile soluzione, essendo evidente che la realizzazione delle opere pubbliche non può rimanere bloccata fino al passaggio in giudicato delle sentenze riguardanti eventuali controversie insorte sulle procedure di gara, le quali mirano al ripristino delle regole violate, ossia al rispetto della normativa europea sull’evidenza pubblica.
La stessa direttiva è, però, neutrale con riguardo a una serie di punti sui quali il legislatore nazionale è chiamato a decidere in via autonoma: affidamento dei rimedi a un giudice o a un organo amministrativo indipendente; pregiudizialità tra azione di annullamento degli atti di gara e azione risarcitoria; potere più o meno ampio di discrezionalità attribuito all’organo per decidere se dichiarare o meno inefficace il contratto e applicare sanzioni alternative; privazione degli effetti del contratto con efficacia retroattiva oppure no e conseguenze sul piano del diritto sostanziale di una siffatta privazione.
Alcune delle questioni lasciate aperte dalla direttiva sono state già definite dalla stessa legge delega n. 88 del 2009, che si ispira a un criterio che la dottrina ha definito «giudicentrico»: laddove la direttiva comunitaria ha lasciato aperte alternative, la legge delega le ha tradotte in soluzioni a disposizione del giudice. Tale legge ha, cioè, concentrato nel giudice amministrativo tutti i poteri previsti dalla direttiva, anche quelli che, come il potere sanzionatorio, sembrava più appropriato attribuire ad organi amministrativi, come ad esempio l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
Così, nei casi di illegittimità dell’aggiudicazione, la legge delega ha rimesso sempre al giudice amministrativo la scelta tra il risarcimento del danno e la privazione degli effetti del contratto.
A questo riguardo vale la pena di ricordare che fino a qualche mese fa in Italia esistevano due giurisdizioni sulle procedure di gara, divise in due fasi: la prima pubblicistica, dalla pubblicazione del bando all’aggiudicazione, affidata alla cognizione del giudice amministrativo; la seconda privatistica, dalla stipulazione del contratto alla sua esecuzione, di pertinenza del giudice ordinario. Con l’ordinanza del 10 febbraio 2010 n. 2906, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno ribaltato il proprio orientamento, ritenendo sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo anche relativamente alla sorte del contratto eventualmente stipulato.
La Corte Suprema ha giustificato il cambiamento di opinione richiamando proprio le disposizioni della direttiva europea in questione, immediatamente applicabili, a prescindere dal loro recepimento da parte dell’ordinamento italiano. Da parte sua il Governo, per attuare la legge delega su citata, ha predisposto un primo schema di decreto legislativo, che ha poi sottoposto al parere del Consiglio di Stato. Il quale il 25 gennaio 2010, ha suggerito una serie di semplificazioni e riformulazioni del testo, nonché di indicazioni volte a rendere più chiara la distinzione tra le forme di tutela, anche al fine di evitare di vincolare eccessivamente la facoltà del ricorrente di articolare la propria domanda. In parallelo con il recepimento della direttiva comunitaria, si è portato avanti il progetto di adozione di un Codice del processo amministrativo, che dovrebbe incorporare le norme di recente emanate in attuazione della direttiva europea


Bomba sul davanzale
di un ufficio elettorale


Costituisce atto terroristico collocare un ordigno esplosivo,
anche se resta inesploso, sul davanzale di una finestra dell’ufficio elettorale di un candidato alle elezioni per il Parlamento

onfigura il delitto di «atto di terrorismo», previsto e punito dall’articolo 280 bis del Codice penale, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordine costituzionale, la collocazione di un ordigno micidiale sul davanzale di una finestra dell’ufficio elettorale del candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento della Repubblica. L’ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8.069 dell’11 febbraio 2010, accogliendo il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Sassari avverso la sentenza emessa il 26 gennaio 2009 dalla Corte di Assise di Appello della stessa città.
Tale sentenza, in parziale riforma di quella di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Nuoro il 13 febbraio 2008, aveva riqualificato il fatto contestato come tentata strage in atto di terrorismo, escludendo l’aggravante ad effetto speciale della finalità di eversione dell’ordinamento costituzionale. Nel corso del giudizio di merito era rimasto accertato che i due imputati avevano confezionato un ordigno esplosivo, costituito da un involucro di un estintore di alluminio, riempito con 1.300 grammi di gelatina, a contatto di due detonatori collegati ad altrettanti spezzoni di miccia detonante e tappato, in corrispondenza della imboccatura, con carta e gommapiuma. Quindi, avevano collocato la bomba sul davanzale della finestra dell’ufficio elettorale del candidato di Alleanza Nazionale, locale situato nel pieno centro di Nuoro, e avevano dato fuoco alle micce, senza tuttavia produrre deflagrazione in quanto la combustione dell’innesco, pur avendo interessato la gommapiuma posta all’imboccatura del recipiente, si era arrestata.
In particolare, uno degli imputati aveva materialmente innescato l’ordigno, dopo averlo trasportato sul luogo con la macchina, mentre l’altro nella fase ideativa dell’attentato aveva collaborato alla redazione di un volantino per la rivendicazione a nome dei sedicenti Nuclei Proletari Combattenti. Già il giudice di merito aveva ritenuto che il rilievo dell’inappropriato impiego della miccia detonante, al posto di quella a lenta combustione, causa precipua del fallimento dell’attentato, non suffragava la prognosi postuma dell’inidoneità dell’azione che rende impossibile l’evento dannoso. Dal responso peritale risultava, infatti, che in difetto di condizioni climatiche (pioggia e grandine) che contribuirono allo spegnimento della fiamma la quale si era propagata fino all’imboccatura dell’involucro metallico, interessando la gommapiuma, il calore generato dalla completa combustione della stessa se non fosse stata umida (o bagnata), avrebbe potuto determinare l’innesco dei detonatori o, almeno di uno di essi e quindi l’esplosione. Sicché, l’evento non ebbe luogo per circostanze accidentali.
Peraltro, la situazione di oggettivo pericolo si era protratta per tutta la notte e la mattina successiva, dopo il rinvenimento della bomba inesplosa. Gli artificieri dovettero, infatti, mediante indagine radiografica, accertare preliminarmente che all’interno del contenitore non si fosse formata nitroglicerina allo stato liquido, suscettibile di deflagrare, per la estrema instabilità della sostanza, in dipendenza di ogni minima sollecitazione.
La Corte di Appello, pur ritenendo sussistente l’aggravante ad effetto speciale del terrorismo, aveva escluso quella ulteriore della finalità eversiva, che postula l’intento di sovvertire l’ordinamento costituzionale e di travolgere l’assetto pluralistico e democratico dello Stato disarticolandone le strutture, impedendone il funzionamento o deviandolo dai principi fondamentali che costituiscono l’essenza dell’ordinamento costituzionale.
Nel suo ricorso contro la sentenza il Procuratore generale aveva invece sostenuto che l’attentato dinamitardo alla sede elettorale di un candidato al Parlamento, anche alla luce dei motivi della rivendicazione enunciati nel volantino sequestrato, si connetteva alla finalità eversiva dell’ordinamento costituzionale, oggetto giuridico della tutela della norma incriminatrice alla stregua della disposizione di interpretazione autentica della legge n. 304 del 1982. Lo scopo dimostrativo, per la sua valenza propagandistica, non contraddiceva la finalità eversiva.
Accogliendo il ricorso, la Corte di Cassazione ha innanzitutto posto in evidenza come l’indiscriminata esclusione dell’aggravante della finalità eversiva si ponesse in contrasto col tenore della motivazione della sentenza impugnata. Inoltre, ha evidenziato l’errore di diritto in cui è incorsa la Corte di Assise di Appello di Sassari nell’escludere la finalità eversiva, sovrapponendo e confondendo il piano metodologico della condotta con il profilo teleologico della azione. Che l’attentato avesse valenza dimostrativa è, secondo la Corte Suprema, circostanza affatto irrilevante ai fini della esclusione della finalità in questione, ben potendo la medesima essere perseguita anche mediante azioni dimostrative e non necessariamente cruente.
Ciò a prescindere dal rilievo della manifesta illogicità dell’attribuzione del carattere dimostrativo alla condotta di attivazione di un ordigno micidiale collocato presso un edificio nel centro urbano di Nuoro. Per quanto riguarda il delitto di «atto di terrorismo» di cui al citato articolo 280-bis del Codice penale, non sono seriamente confutabili, alla stregua dei parametri indicati nell’articolo 270-sexies dello stesso Codice, sia lo scopo di intimidazione della popolazione insito nell’attentato, sia la gravità del danno arrecato al Paese in relazione alla turbativa dell’ordine democratico e costituzionale per la messa in pericolo, mediante la collocazione dell’ordigno micidiale, di un ufficio politico-elettorale 20 giorni prima delle votazioni.
In definitiva, il preteso carattere dimostrativo dell’azione (che pur sarebbe sostenibile solo se la concorsuale condotta degli imputati si fosse limitata alla pura e semplice collocazione dell’ordigno senza l’attivazione dell’innesco) non ha alcun fondamento logico e giuridico, in quanto la rappresentazione evocata dal gesto implica analogo effetto intimidatorio della popolazione e analoga turbativa dei comizi elettorali.

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