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a grande attenzione e l’estremo interesse mostrato dai politici per la riforma della magistratura e attualmente anche per le elezioni regionali hanno eliminato dal dibattito pubblico il vero, principale argomento che sta a cuore di tutti indistintamente gli italiani, quello sulla crisi economica e soprattutto sulle prospettive cui va incontro ogni singola famiglia e impresa. Lettori di giornali e telespettatori sono sommersi di notizie di tutt’altro genere: episodi di corruzione e di immoralità di cui sono protagonisti personaggi di primo piano della politica e della burocrazia; raffiche di iniziative governative e parlamentari riguardanti l’ordinamento giudiziario; rivoluzionarie riforme delle massime istituzioni dello Stato e addirittura della Costituzione; accesa competizione elettorale in atto per la conquista o il mantenimento del governo delle Regioni.

Ma nulla sull’immediato futuro dei portafogli della massa. Di economia si parla solo citando il debito pubblico che aumenterebbe in continuazione, argomento sempre usato per spaventare i digiuni di politica economica e monetaria. Un tempo esisteva una Banca d’Italia che, indipendente dal potere politico tanto che il Governatore veniva nominato a vita, doveva tutelare con la «leva monetaria» l’andamento dell’economia e i destini delle famiglie e delle imprese. Oggi non è più così: chi ha voluto l’attuale tipo di adesione dell’Italia all’Unione Europea, ha tradito i principi che spinsero l’Italia a fondare la Comunità Europea e ha tolto ogni potere alla Banca d’Italia, la cui influenza sull’andamento dell’economia oggi è pressoché nulla; non potendo più agire sulla quantità e sulle modalità di circolazione della moneta, può solo fare periodici predicozzi impotenti come quelli domenicali dei buoni curati di campagna.

Per la ripresa dell’economia la classe politica non fa nulla; niente investimenti puliti ed efficaci in infrastrutture ed opere pubbliche, solo incitamenti verbali a famiglie e imprese ad aumentare i consumi, a ricominciare a spendere spensieratamente e pericolosamente, il che tra l’altro per buona parte di famiglie e imprese è impossibile. In tal modo, si dice superficialmente e artatamente, aumenterebbe la produzione e quindi l’occupazione. Tutti felici e contenti quindi? No. A mio giudizio, della prospettiva di una tale ripresa dei consumi e quindi dello sviluppo economico dovrebbero invece essere tutti infelici e scontenti.
E spiego il mio parere. Ricordiamo quello che è avvenuto nell’ultimo decennio con l’introduzione dell’euro voluta dalla nostra classe politica, e più recentemente con l’inarrestabile aumento del prezzo del petrolio trasferitosi a cascata su tutte le operazioni di produzione, distribuzione, commercializzazione dei prodotti: una vigorosa scalata dell’inflazione, una forte riduzione del potere di acquisto della moneta e conseguentemente di stipendi, salari, redditi e rendite varie. Ma anche un notevole ridimensionamento, in termini reali, del debito pubblico.

Un conto è, ad esempio, un debito pubblico di 1.750 miliardi di euro, quale è all’incirca quello attuale, quando con uno stipendio di mille euro una famiglia di 4 persone riesce a vivere un mese; un altro conto è lo stesso debito quando, per l’aumento dei prezzi, quella famiglia riesce a camparci solo 20 giorni. In termini reali, a causa dell’inflazione lo Stato deve restituire a chi gli ha prestato i capitali - ossia a risparmiatori, possessori di Bot e Cct - solo due terzi del debito.
Lo Stato quindi beneficia di un super-sconto di cui i suoi creditori non si rendono neppure conto, continuando a fidarsi del Tesoro che comunque è sempre più affidabile e solvibile di tanti banchieri e faccendieri della finanza e della Borsa. Lo Stato, infatti, non inganna deliberatamente, ma si avvantaggia di un fenomeno, l’inflazione, del quale sono tanti i responsabili: le stesse istituzioni pubbliche che periodicamente aumentano imposte, tasse e tariffe dei servizi pubblici; il sistema bancario; alcune categorie che stabiliscono autonomamente i propri compensi, come commercianti, artigiani e professionisti.

Ma l’inflazione arreca allo Stato anche un altro grande beneficio: l’incontrollato aumento dell’introito fiscale. Perché più aumentano i prezzi, più il Fisco incassa per l’Iva e per le altre imposte su redditi, cresciuti nominalmente ma non sostanzialmente. La riduzione sostanziale del debito pubblico e l’aumento del gettito fiscale forniscono pertanto maggiori risorse da spendere allo Stato, e più precisamente alla classe politica a tutti i livelli, statale, regionale e comunale. Se ne avvantaggiano solo parzialmente le spese correnti, ossia quelle per stipendi e salari che cresceranno molto più lentamente e a distanza; ma soprattutto quelle in conto capitale, destinate ad opere pubbliche, appalti, consulenze.
Ma al sopraggungere di una crisi come quella recentissima, che impone a famiglie e imprese una drastica riduzione dei consumi, l’erosione del debito pubblico dovuta all’inflazione si arresta, il gettito delle imposte non aumenta, i politici hanno meno capitali da spendere appunto in opere pubbliche, appalti, consulenze; conseguentemente si riduce la parte destinata alla corruzione, alle tangenti, alle illegittimità.

In un certo senso la crisi comporta un parziale, temporanea e forzata moralizzazione del sistema. Ma di fronte agli illeciti messi in luce dalle inchieste della magistratura, dobbiamo vedere sotto vari aspetti gli inviti ad aumentare i consumi rivolti alla massa dai politici, alcuni dei quali sono interessati magari solo ad attribuirsi il merito della ripresa economica; altri, invece, ad aumentare le disponibilità finanziarie pubbliche per opere e appalti su cui imbastire oscure e illecite operazioni.

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