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AMERICA AMERICA.
EUROMESS:
POVERA SPAGNA,
SE SOLO FOSSE AMERICANA

di ROMINA CIUFFA



un’immagine di Miami, in Florida

Il premio Nobel Paul Krugman



Euromess, letteralmente «eurocasino». Così lo definisce l’economista Paul Krugman nel proprio editoriale («op-ed») sul New York Times giusto il giorno di San Valentino. Mentre gli innamorati si schieravano in due opposte fazioni - consacrare il consumismo con baci Perugina ovvero rendere il santo un santo qualunque in un’Italia laica - Krugman, premio Nobel 2008 per l’Economia «per la sua analisi degli andamenti commerciali e dell’attività economica», rifletteva: «Pessima fotografia. Ma è importante capire la natura della fatale tara europea. Taluni Governi non hanno responsabilità; il problema fondamentale è stata la tracotanza, arrogantemente credere che l’Europa potesse creare un solo conio sebbene tutto lasciasse pensare che non fosse pronta».
Traduco con «tracotanza» il termine scelto, «hubris», parola greca che spiega tutti i poemi omerici e metà delle opere greche di quel tempo e attorno alla quale si stringono ancor oggi opere di pregio, come «Il cacciatore di aquiloni» di Khaled Hosseini. Un’arroganza onorevole, che maschera l’egoismo delle gesta, nociva per l’uomo in quanto diretta sfida alla superiorità degli dei: se ne macchiò Ulisse andando oltre i limiti fissati per gli uomini, se ne macchia l’Europa alle colonne d’Ercole. Krugman con «hubris» chiude l’articolo.
L’apre con «profligacy». Dal vocabolario: spreco, sciupo, sregolatezza, dissipazione, dissolutezza, corruzione. A scelta. L’op-ed, che sembra seccato dal dover scrivere quasi esclusivamente dei deficit europei, si è fatto un’impressione - «profligacy» è nel testo riferito a «government», ossia corruzione dei governanti -, ma soprattutto ne trae una morale: prendere quella greca come una lezione. La carenza di disciplina non è il principale problema per l’Europa e non lo è nemmeno per la Grecia, per di più non responsabile (anzi: i greci hanno coperto il bilancio «con contabilità creativa»). L’«euromess» nasce non tanto dalla corruzione dei nostri politici quanto da quell’arroganza delle élites, in particolare di quelle che hanno spinto l’Europa verso l’adozione di una moneta comune, un esperimento privo di fondamenta.
È citato con esemplarità il caso della Spagna, epicentro del terremoto continentale, che sulla cresta di una crisi europea si era dimostrata modello di fiscalità: debito non elevato - il 43 per cento del Pil nel 2007 contro il 66 per cento tedesco - e surplus di budget, con imitabile regolazione bancaria. Sarà stato merito di un nuovo presidente, Luis Zapatero, allora quasi un profeta dell’ambizione (quella di superare la Gran Bretagna, almeno), o dell’ottimismo spagnolo: l’America di Krugman lo nota proprio ora che si sta trasformando in pessimismo. Ma per lo studioso la Spagna, «con il suo caldo clima e le spiagge», era una Florida europea e, come tale, ha goduto del boom immobiliare, portando capitali dal resto dell’Europa. Il risultato: una rapida crescita e la significativa inflazione che, tra il 2000 e il 2008, ha fatto lievitare il prezzo di beni e servizi prodotti in Spagna del 35 per cento contro il 10 per cento della Germania. Ciò avrebbe reso le esportazioni spagnole poco competitive ma mantenuto il mercato del lavoro sostenendolo con l’industria immobiliare. Poi la bolla - via libera alla «burbuja», la speculazione edilizia -. Poi la disoccupazione. Poi il deficit. Un’«inondazione di inchiostro rosso» che è l’effetto, si badi, non la causa dei problemi spagnoli, uno strillo di immobili non sorretto da una solida base industriale, che è divenuto urlo non appena Wall Street è crollata.
E «non c’è niente che il Governo spagnolo possa fare per migliorare la situazione»: è stata oltrepassata la linea delle colonne di Ercole. Ed ecco qui il sillogismo contenuto nell’articolo: se la Spagna avesse ancora la peseta, potrebbe rimediare velocemente attraverso la svalutazione, riducendone il valore del 20 per cento rispetto alle altre monete europee. Ciò non è più possibile e alla Florida europea si richiede un lento, opprimente processo deflattivo.
Povera Spagna, che è europea: se solo fosse stata americana! Lo dichiara apertamente l’editorialista: «(...) le cose non sarebbero andate così male». Perché prezzi e costi non sarebbero fuoriusciti in tal misura dalla linea di confine crisi-non crisi: la Florida, in grado di attrarre i lavoratori dagli altri Stati e mantenerne i costi bassi, non ha mai sperimentato la situazione iberica. Ma, soprattutto, una Spagna americana sarebbe stata ricoperta di sostegni automatici: infatti, da quando è scoppiata in Florida la bolla immobiliare, Washington invia assegni d’assistenza sociale e sanitaria.
Non vuol essere uno Stato americano? Ne paga le conseguenze. La Spagna crolla, il debito delle familias è tra i più alti d’Europa in un periodo in cui i rubinetti sono chiusi al credito con prevedibile crollo dei consumi (ricorda l’Italia dal momento dell’entrata dell’euro sino ad ora senza soluzione di continuità). E la Grecia - lo sostiene Krugman - è in problemi anche maggiori, perché in un piccolo sistema economico si stanno stillando problemi da grandi sistemi. Questo dice. La risposta ateniese, non a lui ma al mondo che vuole il Paese ormai perduto, giunge dal ministro delle Finanze George Papaconstantinou: la Grecia è in anticipo sul programma di riduzione del deficit e non ha bisogno di alcun salvataggio da parte dell’Unione europea. Avrà convinto gli americani?
E per il neo-keynesiano non è stata una grande sorpresa il fallimento dell’euro: molto prima che fosse introdotto il nuovo conio, spiega, gli economisti erano stati veggenti, l’Europa non era pronta. Affinché l’euro torni a funzionare è necessario andare avanti (tornare a più monete creerebbe «la madre di tutte le crisi»), lavorare sull’unione politica. Fare in modo che gli Stati europei si considerino più come Stati americani, uniti. In Italia si direbbe «olio di gomiti». Ma Krugman ci lascia con una pessimistica considerazione: ciò che accadrà negli anni a venire sarà un doloroso disordine, salvataggi volti alla ricerca di una bruta austerità, accompagnati da alti livelli di disoccupazione e una deflazione stringente.
Si va in vacanza in Grecia e in Spagna, gli italiani ballano nelle spiagge di Mykonos e mangiano tapas sulle Ramblas catalane. Il film «Avatar» ha superato in incassi «Titanic» e tutti gli altri film mai prodotti finora, e se prima con Titanic veniva da dire: «ballano mentre la nave affonda», per aggiornarci useremo una metafora fresca. Avatar in sanscrito vuol dire «disceso» - dio che discende in un corpo fisico - e oggi è anche la rappresentazione di se stessi in un ambiente virtuale. Quello di un’Europa unita, appunto, la discesa di un dio tracotante nel corpo di un homo oeconomicus.

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