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L'ACQUA
È DI PROPRIETÀ PUBBLICA
MA PER GESTIRLA
NON BASTANO
I CAPITALI PUBBLICI

 

di Giancarlo Cremonesi
presidente della Confservizi



«L’acqua è un bene
pubblico e primario,
su questo non ci sono
dubbi, ma per gestirla
affinché tutti possano
fruirne, sia di qualità
e soddisfi le esigenze
dei cittadini occorrono
ingenti investimenti
che, soprattutto
nell’attuale situazione
economica, gli enti
pubblici non hanno»


acqua è un bene pubblico e, soprattutto, primario. Su questo non ci sono dubbi. Bisogna, quindi, gestirla perché tutti ne possano fruire. Il servizio di distribuzione della preziosa risorsa tuttavia è un altro discorso, deve essere di qualità e deve soddisfare le esigenze dei cittadini. È questo uno dei temi che, nelle ultime settimane, stanno tenendo viva una discussione importante che coinvolge la politica, le aziende e la società civile del nostro Paese.
In Italia infatti, per rilanciare il settore servono, entro il 2020, oltre 60 miliardi di euro, il 45 per cento per investimenti negli acquedotti e il restante 55 per cento per la raccolta e il trattamento delle acque reflue. A mio avviso, l’ottimizzazione del servizio si può e si deve attuare seguendo tre direttrici: maggiori investimenti, più concorrenza e l’istituzione di un’Autorità dell’acqua.
Il dibattito in corso su acqua pubblica o privata è, secondo me, un falso problema. Da sempre le risorse idriche sono demaniali, così come le relative infrastrutture sono pubbliche e quindi non alienabili per legge. In Italia, in nessun provvedimento passato o attuale, come il decreto Ronchi, è messa in discussione la proprietà pubblica del bene acqua o delle infrastrutture.
Questione differente è invece il tema della proprietà delle società a cui è delegato il compito di gestire il servizio. Nel nostro Paese la gestione è stata affidata storicamente ad aziende comunali, trasformate in società per azioni, in alcuni casi anche quotate in Borsa. In seguito alla legge Galli del 1994, emanata dunque 16 anni fa, si è provveduto all’organizzazione del cosiddetto Servizio Idrico Integrato, non più gestione della sola acqua, ma anche di reti fognarie e depurazione.
I magri risultati prodotti dall’attuazione della Galli impongono una riflessione e alcune energiche correzioni se si intende dotare il Paese di infrastrutture adeguate e dare vita a una solida industria del settore. Sono di tutta evidenza i limiti: si pensi che solo poco più di un terzo della popolazione ha visto concretamente avviato il Servizio Idrico Integrato; dei 68 affidamenti, di cui circa 30 attraverso contratti di gestione con società quotate o a capitale misto pubblico-privato, solo 5 sono stati finanziati dal sistema bancario. E, particolare di notevole rilevanza, è stato realizzato appena il 50 per cento degli investimenti previsti.
Fa eccezione il Servizio Idrico Integrato dell’Ato 2 centrale del Lazio, (che include Roma e 111 Comuni), dove l’estensione del servizio è garantita al 94 per cento della popolazione ivi residente. L’esempio dell’Ato 2 è particolarmente calzante: nel 2008 è stato siglato un accordo tra Acea, Prefettura, Provincia, Regione e Segreteria Tecnica dell’Ato per ribadire con forza l’emergenza scaturita dalla presa in carico, da parte dell’Acea, degli impianti dei singoli Comuni. La maggioranza di questi non era a norma, e di conseguenza la responsabilità degli investimenti per la riqualificazione è a carico del solo gestore.
Anche in altri ambiti gli obiettivi di riforma contenuti nella legge Galli non sono andati dispersi. L’esperienza del modello Toscana rappresenta un successo nel quadro nazionale per investimenti realizzati e servizio reso. Occorre sottolineare che già prima del decreto Ronchi si sono sviluppate partnership tra pubblico e privato che hanno portato significativi risultati.
In Italia, sia ben chiaro, il Servizio Idrico Integrato è un settore regolato, nel quale è un soggetto pubblico a stabilire le tariffe in base ai piani di investimento e a un metodo normalizzato definito con decreto ministeriale. Anche la discussione acqua pubblica o privata, in merito al tema «tariffa», è, a mio parere, un falso problema. La tariffa non dipende dalle caratteristiche del gestore, pubblico, privato o misto, ma dalle necessità infrastrutturali del territorio e dalla densità abitativa.
Nel settore c’è una situazione di stallo e gli impianti e le reti in Italia sono tra i peggiori in Europa. C’è da chiedersi in quale misura il decreto Ronchi cambierà le cose. Il provvedimento, in definitiva, scommette sul motore dell’impresa e sull’industrializzazione del settore, imponendo ai Comuni un passo indietro nella gestione. Spesso, malgrado regole che l’imponevano, quando si è trattato d’incrementare le tariffe o di riorganizzare le aziende per una maggiore efficienza si è finito per rinviare i problemi alle generazioni future contraendo spesa e investimenti. La tariffa dell’acqua, infatti, è tra le più basse d’Europa e quella di Roma, nel confronto con le altre capitali, è in assoluto la più bassa.
Il provvedimento impone che i Comuni diminuiscano le proprie partecipazioni sotto il 30 per cento nelle grandi imprese quotate, come Acea, Hera e A2A, e che in quelle interamente pubbliche sia ceduto almeno il 40 per cento a un partner industriale responsabile della conduzione dell’azienda. Si spera così che il settore possa divenire appetibile per quegli investitori interessati a rendimenti stabili, al punto che si possa innescare un ciclo finanziario che si traduca in concreti investimenti, servizi di qualità e più lavori pubblici con conseguente occupazione.
Resta da rafforzare il sistema di regolazione. È auspicabile la creazione di un’Autorità dell’Acqua: un soggetto terzo rispetto al territorio che fissi le tariffe in relazione agli investimenti fatti, e che disponga del potere sanzionatorio. L’attuale meccanismo regolatorio non garantisce sia la realizzazione di quanto pianificato, sia la corrispondenza tra la tariffa applicata e gli investimenti previsti.
In conclusione, sarebbe bene che il dibattito facesse un salto di qualità e che i diversi soggetti coinvolti si concentrassero, piuttosto, su come assicurare al sistema una capacità pubblica di compiere scelte strategiche di pianificazione in maniera efficace e tempestiva. È necessario garantire un sistema di regolazione pubblica autorevole e capace e, infine, il sostegno allo sviluppo di una grande industria italiana dell’acqua in grado di vincere le sfide tecnologiche, finanziarie ed economiche che la attendono.

CHE COSA È LA CONFSERVIZI

Confservizi è il sindacato d’impresa che rappresenta, promuove e tutela aziende ed enti che gestiscono i servizi di pubblica utilità. Soggetti decisivi per lo sviluppo produttivo locale, la cui tutela è per Confservizi una tradizione che dura da quasi un secolo. Attraversando diverse denominazioni, Confservizi ha contribuito a raccogliere le forze e le potenzialità di quante realtà operano nella pubblica utilità. Settori a rilevanza industriale come acqua, gas, energia elettrica, igiene ambientale, trasporti locali. Pertanto azzerate le distinzioni di forma societaria e assetto istituzionale, Confservizi vuole porre l’accento sulla qualificazione e l’evoluzione delle imprese, ma ancor di più sull’esigenza di rendere disponibili, accessibili ed efficaci i servizi rivolti alla qualità della vita.

 

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