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COSÌ TELECOM ITALIA
NAVIGA IN UN MARE
DI PROBLEMI

a cura di GIOVANNI BOLLINI



Franco Bernabè,
amministratore
delegato della
Telecom Italia



Ad oltre dieci anni
dalla privatizzazione,
tuttora alla ricerca
di un assetto
stabile, il Gruppo
telefonico si dibatte
in numerosi problemi,
a partire dalla massa
dei debiti che,
nei tanti passaggi
di mano, non hanno
fatto che aumentare.
Tanto che l’attuale
amministratore
delegato Bernabè,
da due anni al timone
dell’azienda, ha posto
al primo posto, fra
le priorità, proprio
la riduzione
del monte-debiti,
pari a una ventina
di miliardi di euro

elecom Italia è ancora oggi, a più di dieci anni dalla privatizzazione, alla ricerca di un assetto stabile. I problemi principali sono ancora in piedi, a partire dalla massa dei debiti che attraverso i tanti passaggi di mano, dallo Stato ai privati, poi dal «nocciolino duro» a Roberto Colaninno, quindi da questi a Marco Tronchetti Provera, infine alla Newco con gli spagnoli di Telefonica come azionisti di riferimento (anche se di fatto hanno meno del 10 per cento), non ha fatto che aumentare. Tanto che l’attuale amministratore delegato Franco Bernabè, che in questi giorni compie due anni al timone del gruppo telefonico, ha messo proprio la riduzione del monte-debiti, pari a una ventina di miliardi di euro, al primo posto fra le priorità.
Ma non è certo solo questo problema a turbare i sonni del numero uno dell’azienda. Però tutte le altre questioni sono strettamente connesse. È connesso anche lo scorporo della rete, di cui si discute ormai da anni e su cui sono stati versati fiumi di inchiostro da commissioni tecniche, comitati consultivi, consulenti più o meno ufficiali: si ricorderà il caso di Attilio Rovati, consulente economico dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi, che tre anni fa finì con il dimettersi dopo che Tronchetti Provera in persona, a sua volta in difficoltà proprio per l’insostenibilità del debito e per le accuse di carenze gestionali, aveva rivelato un proprio «piano» che prevedeva, appunto, lo scorporo. Ma di che cosa si tratta? Il nodo è costituito dal «monopolio naturale» -definizione che però a Bernabè non piace - che Telecom si trova ad avere sull’ultimo miglio. Cioè con quella parte finale della rete telefonica che, dalla centralina telefonica di quartiere o di città, porta fino all’utenza domestica finale.
Per le grandi dorsali, per le reti maggiori, in questi ultimi anni la molteplicità è diventata un fatto: ne hanno create, più o meno vaste e articolate, varie società. Tutte accomunate, ed è un aspetto di non secondaria importanza, dal fatto di essere a capitale straniero: la Wind-Infostrada del magnate egiziano Naguib Sawiris, la britannica Vodafone, l’israeliana Interoute. E poi c’è la Telecom Italia. Fin qui per le «grandi» reti. Ma Telecom Italia diventa di colpo monopolista quando si parla delle capillare rete di interconnessione finale.
Significa che tutte le società sopra citate convogliano il traffico telefonico in giro per tutto il Paese, ma quando vogliono allacciarsi alle utenze domestiche devono necessariamente affittare «spazi» di rete in quella rete Telecom Italia, che deve concederli secondo le norme fissate dall’Autorità garante delle telecomunicazioni. Un attacco concorrenziale poderoso: non per nulla questi concorrenti, oltreché sull’abolizione del canone e ovviamente sui prezzi, puntano sul servizio alla clientela, uno storico nervo scoperto per la Telecom Italia.
Sta di fatto, però, che chi detiene la rete ha ancora un potere considerevole, ed è per questo che da più parti e con regolare periodicità si affaccia l’ipotesi di ripubblicizzare la rete dell’ultimo miglio. Nell’era-Tronchetti Provera, Attilio Rovati si era espresso in questi termini nel proprio «famigerato» piano. Di possibile separazione della rete tornò a parlare Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità garante per le telecomunicazioni, nella propria relazione generale al Parlamento del 2006, quando si stava consumando il passaggio da Tronchetti-Provera alla gestione attuale.
Ancora: una commissione presieduta, per conto dell’attuale Governo Berlusconi, dal superesperto Francesco Caio ha invece suggerito di creare una società mista, che comprenda tutti gli operatori citati che insieme dovrebbero avere il 49 per cento, lasciando alla Telecom Italia il 51 per cento. Nella quota di minoranza del 49 dovrebbero entrare anche soci esterni quali le Ferrovie dello Stato e le Poste Italiane, che possiedono a loro volta delle reti «dedicate» con le quali si potrebbero studiare sinergie con quella telefonica, e anche le banche a partire da Intesa Sanpaolo.
Niente di tutto questo, almeno per il momento. Anche le banche, diventate importanti azionisti della Telecom dopo il passaggio delle azioni di Tronchetti-Provera, a partire dai due colossi Mediobanca e Intesa, premono per lo scorporo, ma Bernabè ha ripetutamente escluso che sia intenzione della società scorporare la rete. «Non l’ha fatto alcun grande operatore telefonico del mondo», ha ribadito a Lucia Annunziata che l’intervistava nella trasmissione «In mezz’ora» sulla Rete Tre della Rai a metà dello scorso dicembre.
Era la prima intervista televisiva, in questi due anni, dell’amministratore delegato: Bernabè l’ha concessa per due motivi, l’antica amicizia con l’intervistatrice che risaliva ai tempi dell’Eni di cui l’Annunziata è consulente per l’editoria, e poi perché voleva lanciare questo messaggio forte e chiaro, appunto la propria non disponibilità a scorporare la rete. «Non credo che i problemi dell’indebitamento della Telecom Italia si risolvano con operazioni finanziarie astruse e complesse», ha scandito Bernabè.
Operazioni finanziarie appunto, perché contribuirebbero a ridurre il carico debitorio sulla società che è tuttora pesante e mette lo stesso amministratore delegato sotto pressioni che lui stesso ha definito «analoghe» a quelle che subiva già il precedente azionista di controllo Roberto Colaninno. Intendendo ovviamente le pressioni politiche, ma probabilmente anche quelle che gli arrivano dalle banche, naturalmente interessate a una riduzione del peso debitorio, a partire da Mediobanca e da Intesa. Non si dimentichi che il presidente della Telecom è Gabriele Galateri di Genola, amministratore delegato di Mediobanca.
In effetti, in nessuno dei principali Paesi industrializzati è stato effettuato uno scorporo della rete. Ci è andata vicina l’Inghilterra, ma la rete «scorporata», chiamata Open Reach, in realtà non è che una divisione della British Telecom, che era stata la prima delle grandi «telecom» ad essere privatizzata, ed era stata anche la prima delle grandi privatizzazioni di Margaret Thatcher, nel 1984. Oggi Bernabè, per allentare la morsa debitoria, preferisce puntare sull’efficienza aziendale e sul continuo recupero di produttività.
Del resto diventa sempre più difficile continuare nella lunghissima teoria delle vendite che il Gruppo avviò praticamente all’indomani della privatizzazione: nel 2000 infatti vendette all’Unipol la compagnia di assicurazione Meie, e nello stesso anno cedette l’80 per cento dell’Italtel al fondo Clayton, Dubilier & Rice, oltre che alla Cisco Systems. Ancora del 2000 è la vendita della Sirti, l’azienda del Gruppo che lavorava nell’impiantistica per le telecomunicazioni, ceduta a un gruppo di investitori italiani riuniti nella società Wiretel.
Nel 2001 venne ceduto il 26 per cento dell’operatore spagnolo di telecomunicazioni Auna Telecomunicaciones all’Endesa and Union Fenosa e alla Santander Central Hispano; l’anno dopo la Telecom Italia cedette la Telespazio a Finmeccanica; nel 2003 fu ceduto il ramo d’azienda della Seat che si occupa delle Pagine Gialle a una cordata di investitori italiani raggruppati nella Silver; nel 2004 l’operatore mobile venezuelano Digitel alla Cantv; nel 2005 la Finsiel, maggiore azienda italiana nel campo del software e della consulenza informatica, fu venduta al Gruppo Cos di Alberto Tripi che l’ha incorporata nell’Almaviva. Ancora cessioni: nello stesso 2005 la Telecom Italia ha venduto la Tim Hellas ai fondi Apax Partners e Texas Pacific Group; nel 2008 l’Alice France all’operatore transalpino Free.
In tutti questi anni, di fronte a queste cessioni, la Telecom Italia ha dovuto fronteggiare innanzitutto l’avanzata di internet. Per la verità, in questo caso si è trovata a fare i conti con un passato glorioso. La vecchia Stet, ancora prima della privatizzazione, era stata la prima in Europa a lanciare un progetto di estensione della fibra ottica, il Piano Socrate di Ernesto Pascale. E anche nell’Adsl aveva conseguito avanzamenti tecnologici di rilievo.
Oggi per internet veloce la Telecom dispone di un’infrastruttura da 20 mega, che però lo stesso Bernabè lamenta essere utilizzata solo dal 10 per cento dei potenziali clienti. Ma per il completamento dell’infrastruttura a banda larga, per arrivare a colmare il digital divide che ancora taglia fuori dal web diverse parti del Paese, chiede nuovi interventi dello Stato, entro tre anni, a sostegno di un piano di investimenti che supera i 5 miliardi di euro.
Nel potenziamento della rete internet è compreso un significativo aspetto internazionale: potenziare la rete in Italia renderebbe il nostro Paese uno snodo rilevante per il resto d’Europa, un po’ come avviene per gli hub nel traffico aereo. Ma poi, strettamente connesso con il broadband e anzi sempre più integrato, c’è il problema televisivo, un’altra delle incompiute di Telecom: presente nel settore dal lontano 2000 quando la Seat Pagine Gialle comperò TMC e TMC2 dalla Cecchi Gori Communications sulla via del fallimento, poi trasformata in LA7, alla quale si aggiunge la rete televisiva MTV, l’azienda è stata tentata a più riprese dalla possibilità di creare un vero terzo polo nel Paese, anzi, ormai un quarto visto che il terzo è costituito da Sky.
Ma, pur puntando sulla qualità, Telecom Italia non sembra ancora intenzionata a impegnarsi a fondo nella tv, anzi negli ultimi tempi a più riprese Bernabè ha introdotto nel dibattito una serie di distinguo fra chi offre l’infrastruttura e chi la riempie di contenuti che, secondo alcuni, lasciano poche possibilità. Fin qui il quadro a luci ed ombre delle attività della Telecom Italia, un’azienda esposta, quant’altre mai, a pressioni e condizionamenti. Di fronte ai quali non sempre ha risposto in modo perfetto: è di pochi mesi fa una vera e propria battaglia che combatté a proposito delle tariffe dell’unblunding, cioè del complesso quadro sulla base del quale è obbligata a concedere tratti della propria rete «naturale» agli altri operatori.
L’azienda chiedeva un aumento delle tariffe stesse, adducendo il fatto che sarebbero le più basse d’Europa. Il problema è che questa richiesta arrivava in un quadro di tariffe tendenzialmente in calo appunto in tutto il resto del continente. La situazione insomma è complessa. È simile a quella esistente in altri settori strategici, come quello dell’energia e del gas, nei quali la società proprietaria della rete di trasmissione elettrica, cioè Terna, è controllata dell’Enel, e la proprietaria della rete di distribuzione del gas, la Snam, è una controllata dell’Eni. Anche in questi casi il proprietario della rete affitta la capacità a diversi operatori e tende a favorire, a scapito della concorrenza, il fornitore di energia o di gas dello stesso Gruppo.
I sostenitori della necessità dello scorporo fanno notare che proprio da questi settori arrivano segnali interessanti. Sul fronte energetico, per esempio, la società Terna è stata scorporata dall’Enel e accorpata al GRTN, Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale, dando luogo alla nascita del GSE, il Gestore dei Servizi Energetici, proprietario e gestore della rete elettrica, nonché responsabile della sua manutenzione e di tutte le politiche di sviluppo della medesima. Ma, intendiamoci, non è che in quest’ultimo campo siano rose e fiori: anche il mercato libero energetico stenta a decollare, tanto che l’Autorità per l’Energia ha già avviato una serie di verifiche dirette a stabilire le motivazioni che sono alla base di questa situazione di stasi.

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