NATALE FORLANI:
IL MERCATO DEL LAVORO
NON SARÀ PIÙ LO STESSO
a cura di Serena Purarelli
Natale Forlani, presidente
e amministratore delegato
di Italia Lavoro

Italia Lavoro s.p.a. è l'Agenzia
del Ministero del Lavoro istituita
in base a una direttiva
del presidente del Consiglio
dei ministri del 13 maggio 1997 per la promozione, progettazione, realizzazione e gestione di attività
e interventi finalizzati allo sviluppo dell'occupazione nel territorio nazionale, con particolare riguardo alle aree depresse e ai soggetti svantaggiati del mercato
del lavoro. Alla sua guida da quasi 10 anni è Natale Forlani, la cui carriera professionale sembra coincidere con il processo
di trasformazione sociale, economica e culturale del Paese.
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talia Lavoro s.p.a. è l’Agenzia del Ministero del Lavoro istituita in base a una direttiva del presidente del Consiglio dei ministri del 13 maggio 1997 per la promozione, progettazione, realizzazione e gestione di attività e interventi finalizzati allo sviluppo dell’occupazione nel territorio nazionale, con particolare riguardo alle aree depresse e ai soggetti svantaggiati del mercato del lavoro. Alla sua guida da quasi 10 anni è Natale Forlani, la cui carriera professionale sembra coincidere con il processo di trasformazione sociale, economica e culturale del Paese.
Nato ad Osio Sopra, piccolo centro a circa 10 chilometri da Bergamo, Forlani comincia a lavorare, giovanissimo, già alla fine degli anni 60. A 17 anni è carpentiere saldatore specializzato nella Montubi Dalmine, ma studia per conseguire un diploma di disegnatore particolarista; non ancora ventenne, è già segretario provinciale del sindacato edili Filca aderente alla Cisl di Bergamo. L'unione di studio e lavoro resta la sua linea guida nei decenni successivi e tuttora, come testimonia la partecipazione a progetti diretti a superare lo scollamento tra formazione e lavoro. Costante è anche il suo impegno sindacale, sempre all'interno della Cisl di cui è segretario confederale nazionale dal 1991 al 1998. Nel 1999 è consigliere di amministrazione di Italia Lavoro, di cui diventa amministratore delegato nel 2000, e negli stessi anni collabora all'elaborazione del Libro bianco del lavoro di Marco Biagi, al quale lo legava un'antica amicizia: «Un uomo di cultura che apparteneva al mondo cattolico, un riformatore vero, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo che rendesse il disegno di libertà compatibile con la difesa delle garanzie sociali». Nel recente congresso nazionale del Movimento Cristiano Lavoratori, a proposito dei cassaintegrati che hanno esaurito il periodo, Forlani ha dichiarato che nel 2010 occorrerà un intervento selettivo per adeguare competenze e persone alla nuova domanda di lavoro ed evitare sacche di assistenzialismo.
Domanda. Come si concilia questa posizione con quanto indicato nel rapporto dell'ISAE dello scorso novembre sulla necessità di tutelare tutti coloro che perdono il lavoro?
Risposta. La domanda che mi era stata posta era come affrontare il rischio della disoccupazione di ritorno dopo la Cassa integrazione, rischio che ovviamente si esprimerà in maniera più concreta all'uscita dalla Cassa stessa. Parliamo di un bacino potenziale di circa 400 mila persone, in buona parte dai 45 anni in su, finora rimaste formalmente all'interno del ciclo produttivo grazie agli strumenti ordinari e in deroga. Per queste persone si incontrano oggettive difficoltà di ricollocamento in relazione non alle caratteristiche della nuova domanda, ma ai problemi anche psicologici che questo processo induce; questo perché buona parte di queste persone, provenienti dal settore manifatturiero, andranno invece ricollocate nei servizi, dove le professionalità si disarticolano molto di più. Ho voluto sottolineare che, dati i costi elevati, la spinta a prolungare la permanenza di sostegni al reddito può determinare effetti distorsivi sia nell'uso delle risorse finanziarie sia nello spreco di personale. Già in settembre e ottobre domanda e offerta, assunzioni e dismissioni hanno registrato un'inversione di tendenza passando, dopo un anno negativo, al segno positivo. Ma occorre che la straordinaria mobilità del lavoro messa in moto sia accompagnata da aggiornamento di competenze, orientamento, e agevolazioni alle imprese che assumono. È la priorità del 2010, non l'unica, ma la più importante.
D. Se difficoltà di collocamento degli ultra 45enni sono dovute non a scarsa richiesta ma a problemi psicologici, quali sono?
R. Forse è più preciso parlare di difficoltà psicologiche inerenti alla professionalità di queste persone, perché dipendono dal fatto che si devono impegnare in lavori diversi da quelli passati. La domanda esiste ed è frequente. È un dato sostenuto anche dai numeri, perché negli ultimi 15 anni la fascia di lavoratori cresciuta di più è quella dei 50-55enni; in parte influisce l'invecchiamento della popolazione in età da lavoro, che è fisiologico. Ma il sistema dimostra che, pur in presenza di un allungamento sensibile dell'età pensionabile, questa fascia di lavoratori regge e aumenta, negli ultimi 10 anni, di 800 mila unità. È un dato spesso ignorato da chi non conosce il problema del lavoro, e la cui percezione in Italia è parziale, soprattutto da parte di chi deve decidere, istituzioni, partiti politici, rappresentanze centrali e periferiche. Un mix tra rappresentanze consolidate e mass media che invece dà rilevanza a fenomeni strutturalmente in diminuzione.
D. Che cosa intende dire?
R. Fa notizia una fabbrica che chiude dismettendo 80 lavoratori, ma non le decine o centinaia di piccole imprese che contemporaneamente assumono un dipendente a testa, che restano invisibili nella percezione collettiva. Fa notizia il lavoro che ha una rappresentanza organizzata e che avanza domande politiche; chi decide guarda a questa domanda perché essa ha visibilità pubblica. Proviamo a chiedere a un politico o a uno che ha compiti di decisione, quanti posti in Italia cambiano ogni anno. Io l'ho fatto e nessuna risposta ha mai superato il milione, al massimo si parla di 700 o 800 mila persone, molti citano cifre intorno ai 400 mila posti di lavoro.
D. Qual'è la realtà?
R. Sono 4 milioni e mezzo negli anni 2000. Ogni anno un terzo del mercato del lavoro dipendente si rinnova. Con punte ancora superiori in agricoltura e nel campo dei servizi, dove si arriva anche al 50 per cento. E questo prescinde dal fatto che siano lavoratori a tempo determinato o indeterminato. È un'autentica rivoluzione. Un esercito di persone ogni anno si interroga su cosa fare, dove andare, se conviene o se occorre cambiare. Un altro dato sottovalutato riguarda le fasce di persone che lavorano non perché debbano farlo per forza, ma per contribuire al reddito familiare. «Studio però lavoro, ho famiglia e lavoro part time, sono pensionato ma ho una collaborazione perché voglio rimanere attivo o integrare il mio reddito». Le forme del lavoro oggi non sono più quelle di un tempo, la rappresentanza e la politica hanno difficoltà a cogliere questo mutamento. Questo determina una percezione distorta, secondo la quale c'è la crisi perché alcune fattispecie del lavoro sono in crisi. Siamo in una fase drammatica che però nella storia sarà letta come un puntino incidentale. I grafici rappresenteranno non un tracollo del sistema ma una recessione cui seguirà una ripresa in cui il lavoro non sarà scarso ma sarà più complicato farlo incontrare.
D. Se il lavoro è più abbondante ma è più difficile farlo incontrare, può internet facilitare questo incontro tramite l'invio dei curricula in rete?
R. In teoria sì. Ma la realtà è un po' più complessa. Ad esempio, ogni anno in Italia, fuoriescono per pensionamento circa 850 mila persone, mentre entrano nel mercato del lavoro 400-450 mila giovani. Eppure la disoccupazione giovanile non diminuisce; in parte perché concentrata nel Mezzogiorno, ma anche perché i giovani non si rendono disponibili verso tutte le forme del lavoro richiesto, soprattutto quello percepito come disagiato o faticoso. Fino a 30 anni fa sarebbe stato inconcepibile per un adulto consumare senza lavorare; oggi non più. Se si ritiene che i laureati o i diplomati non debbano svolgere attività lavorative che comportano manualità, ovvero si sottovaluta la crescita delle conoscenze necessarie per fare lavori esecutivi, si fornisce una visione distorta del lavoro stesso. Significativo è l'esempio delle badanti, una professione dedicata prevalentemente ai non autosufficienti, delicatissima per la nostra qualità della vita, ma ormai relegata al lavoro degli immigrati, non di rado clandestini. Negli altri Paesi al settore dei servizi alla persona vengono rivolte importanti politiche fiscali e di qualificazione del lavoro.
D. Non è un effetto della mancanza di sostegni alle famiglie per l'acquisto dei servizi?
R. Non c'è dubbio, e vorrei ricordare che è il settore in maggiore espansione nel mondo sviluppato. In Francia negli ultimi 4 anni, con detrazioni alle famiglie e semplificazioni nei rapporti di lavoro, nei servizi alla persona si sono creati 500 mila posti in 32 tipi di prestazioni. Per questo insisto sull'importanza di capire come produrre lavoro sia divenuto complesso. È necessario generare nuovi imprenditori, qualificare la domanda, renderne sostenibili i costi, qualificare le persone. L'impresa oggi è soprattutto un luogo di relazioni, di esercizio di valori e di fiducia. Essi stessi sono parte della qualità del lavoro, sono gli elementi fondanti del nuovo rapporto di lavoro, la cui varietà è prodotta dalla realtà economica, non dalla norma. La flessibilità e la varietà dei rapporti di lavoro sono un dato irreversibile; pertanto diventa fondamentale intervenire per aumentare l'occupabilità delle persone, adeguando sistematicamente le competenze e il reimpiego di chi perde il lavoro, tutelando provvisoriamente il reddito ma incentivando nello stesso tempo l'intraprendenza delle persone stesse e le imprese che riassumono i disoccupati.
D. Quale il fine del recente convegno di Italia Lavoro sul Piano per l'occupabilità dei giovani?
R. Abbiamo cominciato a tradurre in azioni l'accordo Sacconi-Gelmini finalizzato a migliorare l'occupabilità delle giovani generazioni. Obiettivo del Piano è preparare i giovani ai mercati del lavoro di domani, ricomponendo la frattura tra istruzione e mondo del lavoro. Non servono i piagnistei, il futuro non sarà peggiore del passato, salvo forse che in materia previdenziale. Non siamo condannati a un destino di precarietà, i giovani non hanno meno opportunità di un tempo. Il problema è come la scuola possa sostituire la famiglia nell'educare e nell'orientare al lavoro. Non basta insegnare l'articolo 1 della Costituzione, accreditando una concezione del diritto come qualcosa di prestabilito e acquisito, ma come il frutto e il risultato di una serie di comportamenti. Occorre porsi seriamente il tema del sistema culturale e della contaminazione tra sistema formativo e dinamiche del lavoro. Con il programma cui lavoriamo da circa tre anni, abbiamo raddoppiato il numero di tirocini per i laureati italiani, creato oltre 50 servizi di orientamento e di inserimento nel lavoro, avviato percorsi per l'alta qualificazione, d'intesa con Università e imprese. Ma siamo ancora lontani da risultati accettabili che possano ridurre il divario con il resto d'Europa. L'importante è che le buone pratiche producano un effetto di innovazione, che si affermi l'esigenza di portare nelle scuole secondarie e nelle università l'orientamento al lavoro. E che i risultati occupazionali in uscita dai corsi scolastici diventino parte del sistema di valutazione degli istituti della formazione. Non è possibile assistere passivamente ai ritardi del nostro Paese, per quel che riguarda l'ingresso al lavoro dei giovani, senza reagire.
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