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LE OPPORTUNITÀ DELL’HTR:
GRANDI OPERE
E UNA «MINIERA»
DI AMIANTO
DA BONIFICARE




Matteo Bettoja, amministratore unico
della HTR



Il caso dell’azienda
specializzata
nello smaltimento
di rifiuti speciali:
dagli scarti
industriali alle bonifiche,
al risanamento
dei siti contaminati
e ai lavori pubblici.
Un fatturato
di 6 milioni di euro

 

Vincenzo Cozzoli, socio e responsabile
commerciale della società

randi opere pubbliche e bonifica dell’amianto. Sono i due comparti, le due opportunità di mercato che stanno trainando la crescita della HTR, società nata nel 2003 per promuovere la gestione e lo smaltimento dei rifiuti speciali provenienti da imprese farmaceutiche, chimiche e petrolchimiche, ma che oggi sta rapidamente mutando e diversificando la propria specializzazione originaria. «Dall’anno di fondazione, l’azienda si è evoluta molto–spiega l’amministratore unico Matteo Bettoja–, passando da compiti di consulenza alle imprese su come e dove è meglio smaltire i propri rifiuti, ad attività dirette con nostri dipendenti che operano nei cantieri e nei siti da bonificare».
Erede di una famiglia di albergatori romani, con alberghi a Firenze e Roma, Bettoja ha scelto di cambiare decisamente strada creando l’HTR insieme a Vincenzo Cozzoli, socio e responsabile commerciale nonché ispiratore della società, secondo le parole dello stesso Bettoja. Nel giro di pochi anni la diversificazione e il consolidamento dei rapporti con i clienti storici dell’industria spiegano il costante raddoppio, anno per anno, del fatturato, se si eccettua una battuta di arresto registratasi nel biennio 2007-2008. Se l’anno scorso il volume di affari ha raggiunto i 4 milioni di euro, per il 2009 le previsioni delineate dai due soci indicano il traguardo possibile in 6 milioni di euro, in netta controtendenza con tutti gli indicatori di mercato che continuano a pronosticare difficoltà per l’economia italiana.
Il salto è arrivato con lo sviluppo di due nuove linee strategiche: i grandi lavori pubblici e il risanamento dei siti contaminati anche dall’amianto. «Da due anni, abbiamo cominciato a lavorare molto nel settore delle grandi opere, aggiudicandoci appalti per i nodi dell’Alta Velocità di Roma e per le metropolitane di Milano, Roma e Torino», evidenzia Bettoja. I grandi cantieri producono una notevole quantità di terra e di scarti di lavorazione, per cui è necessario trovare adeguate soluzioni di smaltimento, in linea con una normativa che ha classificato le terre da asporto come rifiuti speciali.
Nonostante un’intermittente ma comunque notevole politica sul piano dell’impatto ambientale delle grandi infrastrutture, né le imprese né le stesse stazioni appaltanti pubbliche hanno sviluppato strumenti per gestire in proprio lo smaltimento. Così come pure appare carente, nonostante l’Italia abbia ancora un ragguardevole patrimonio industriale, l’attenzione per gli scarti delle varie lavorazioni. «Le imprese sono molto concentrate sulla produzione, mentre per lo smaltimento finale preferiscono affidarsi a ditte specializzate come la nostra», sottolinea l’amministratore unico.
Il vero boom delll’HTR è storia degli ultimi 6 mesi. «Ottenuta l’autorizzazione per realizzare progettazione di attività di bonifica di siti contenenti amianto e assunto del personale addetto ai cantieri, abbiamo vinto rilevanti appalti in un settore che non conoscevamo e che in pochissimo tempo è diventato un grande affare». Di amianto, in Italia, ve n’è una quantità all’apparenza inesauribile.
Nonostante se ne parli poco da anni e la normativa sia stringente, questo materiale nocivo per la salute è ancora presente in un’infinità di luoghi. «Lavoriamo nei piccoli condomini, come nei grandi insediamenti industriali o civili, che rappresentano gran parte del nostro fatturato: a Roma abbiamo eseguito la bonifica di circa 700 cassoni in eternit del Policlinico Umberto I e ci è stata assegnata la ripulitura di tutti i corridoi interrati. A Segrate abbiamo avviato il risanamento di un capannone industriale della superficie di 3 mila metri quadrati appartenente a una società editrice e in luglio abbiamo avviato i lavori in un vecchio stabilimento della Magneti Marelli; così pure, in agosto a Fiumicino, nei 48 mila metri quadrati di un immobile di proprietà di un Fondo immobiliare. A Torino, infine, sta per essere avviato un cantiere nel Parco Dora che una società romana, nostra committente, è incaricata di riqualificare».
La professionalità necessaria in questo settore è notevole: ottima conoscenza di una normativa complessa e in continua evoluzione, grande preparazione sui processi che generano i rifiuti, studio sui macchinari e sulle strutture degli impianti. Per rispondere a queste esigenze, l’HTR si è dotata di un ufficio tecnico che, dopo aver analizzato caso per caso gli incarichi, propone un ventaglio di soluzioni che vanno dal trasporto nei cosiddetti centri di recupero dei materiali alla discarica specializzata nell’accoglienza dei rifiuti industriali. Dipende, in genere, dal tipo, oltre che dalle scelte dei committenti.
«L’azienda committente non conosce quali impianti usare, dove sono collocati e a quale trattamento vanno sottoposti i rifiuti. Il nostro lavoro è organizzare tutta la fase di conferimento del rifiuto: dal carico al trasporto, allo smaltimento in discarica, negli inceneritori, o negli impianti di compostaggio e di recupero–evidenzia Cozzoli–. Lo studio eseguito per individuare quale impianto è preferibile è sostenuto da analisi chimiche sui componenti del rifiuto e da un’attenta valutazione logistica e autorizzativa».
Ma come è messa l’Italia, nella gestione integrata dei rifiuti? «Il Paese è abbastanza carente–spiega–. Non è mai stata attuata una programmazione nazionale di smaltimento a medio-lungo termine, che è affidata più che altro alle Province, alle Regioni, ai Comuni, più virtuosi, che hanno sviluppato sistemi efficaci dal punto di vista tecnologico».
Il discorso è valido sia per i rifiuti urbani che per quelli industriali, per i quali l’approssimazione della pianificazione pubblica è anche più accentuata e dove sono i privati ad avere una maggiore iniziativa nella creazione di discariche e nella realizzazione di impianti. Sono in particolare le regioni del Centro-Nord ad aver affrontato meglio il problema, dotandosi di una raccolta differenziata più efficiente e di un sistema di smaltimento più adeguato. Nel Lazio, ad esempio, mancano discariche per i rifiuti speciali, nonostante esista un considerevole apparato manifatturiero. «Questa situazione ci ha costretti a trasportarli nel Nord, con un aggravio di costi per le imprese», spiega il responsabile commerciale della società.
E neppure ha migliorato la situazione, una normativa del 2003 che include nella stessa categoria le discariche per i rifiuti urbani e quelle per i rifiuti speciali non pericolosi, rendendo in teoria disponibili siti di conferimento più vicini. «Quella legge, in effetti, non è ancora del tutto in vigore: la scadenza dell’ultima proroga era alla fine dello scorso giugno e già molte Regioni hanno provveduto a spostarla a fine anno», chiosa Cozzoli. Ma quali impianti dovrebbero essere incentivati con maggiore convinzione? «Sicuramente quelli che effettuano la selezione e il recupero: ve ne sono pochi in Italia, anche perchè continua a costare meno il conferimento in discarica dei rifiuti, nonostante da tempo venga tassato dalle Regioni, che spendono poi queste risorse per bonificare siti inquinati», osserva.
In alternativa, le aziende potrebbero puntare a ridurre i rifiuti speciali già durante il processo produttivo. È possibile? Vi sono imprese che praticano questa soluzione? «È indubbio che con una maggiore attenzione ai materiali impiegati nella realizzazione di prodotti, chi fa impresa può comprimere i costi–precisa l’imprenditore–. La nostra società offre una consulenza globale volta anche ad analizzare e offrire alternative di processo che possono salvaguardare allo stesso tempo l’ambiente e condurre a risparmi sostanziosi. Un esempio: in molti casi, si accantonano negli stessi contenitori normali scarti di lavorazione insieme a quelli pericolosi, con il risultato di dover inviare alla fine necessariamente nelle discariche speciali tutti questi rifiuti, facendo lievitare vertiginosamente i prezzi».
Nel complesso le aziende più attente alla destinazione finale dei rifiuti sono le multinazionali statunitensi, che spesso continuano ad osservare la legislazione del Paese di origine, in genere più restrittiva della nostra. Ovviamente, pesa anche il ritorno di immagine: in questo modo possono affermare di tutelare l’ambiente, mostrando bilanci sostenibili che indicano il loro impegno per riciclare i materiali usati nella produzione. A queste aziende proponiamo molto di più soluzioni di recupero degli scarti». Secondo alcune stime, nel settore industriale si potrebbe puntare a una raccolta differenziata superiore al 50 per cento; oggi invece circa il 50 per cento dei rifiuti finisce nelle discariche o negli inceneritori.
Una quota molto bassa che denota la mancanza di strutture. Bettoja indica il caso virtuoso di un impianto del Settentrione, con cui l’HTR collabora, «che ricicla quasi per intero i resti dei prodotti alimentari: recupera da un lato gli imballaggi di carta, cartone e plastica e dall’altro sottopone a trattamento i residui di cibo, trasformandoli in compost, cioè in fertilizzante per l’agricoltura». Caso raro, purtroppo. Nelle grandi opere, l’azienda ha moltiplicato i propri introiti. Le grandi infrastrutture sono diventate una ghiotta opportunità, da quando anche le terre da riporto e gli inerti devono essere considerati alla stregua dei rifiuti e quindi essere trattati di conseguenza.
A dispetto delle regole, in questo campo è però arduo tentare di regolare le attività con una robusta vigilanza e una maggiore partecipazione degli operatori alla salvaguardia dell’ambiente. «Le imprese tendono a non prendere in seria considerazione la gestione dei rifiuti–dice Cozzoli–, e questo è dovuto anche al fatto che fino a cinque o sei anni fa nel settore i costi per lo smaltimento erano vicini allo zero».
In altre parole, i costruttori erano abituati a non preoccuparsi della destinazione finale dei detriti provenienti dai lavori di scavo. Ma non solo le imprese sono poco vigili. «Le stazioni appaltanti spesso non sono aggiornate sugli sviluppi di una legislazione ambientale che dovrebbe essere chiara ed invece appare troppo complessa». Risultato: gli enti pubblici non realizzano la progettazione ambientale. Nei capitolati d’appalto delle gare quasi mai è incluso il costo di smaltimento. «Le società pubbliche che affidano i lavori dovrebbero avere a cuore l’interesse generale alla conservazione dell’ambiente. Anche per questo è necessario che negli appalti la tutela dei luoghi abbia lo stesso rilievo riservato alla sicurezza, con il divieto assoluto di procedere a un ribasso dei costi», conclude Cozzoli.

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