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GIUSTIZIA 1

INFORTUNI
SUL LAVORO:
RESPONSABILITÀ
OGGETTIVA DELL'IMPRESA

GIUSTIZIA 2

PROTEZIONI MANOMESSE:
NON COLPEVOLI
I LAVORATORI

di Antonio Marini

 


INFORTUNI SUL LAVORO: RESPONSABILITÀ
OGGETTIVA DELL'IMPRESA

Il fatto è di quelli che, purtroppo, accadono con una certa frequenza negli ambienti di lavoro. Mentre esegue lavori di manutenzione su un autocarro provvisto di cassone ribaltabile, a causa dell’improvvisa chiusura del cassone un operaio resta schiacciato e muore. Gli accertamenti compiuti dai Carabinieri, dall’Ispettorato del lavoro e dalla Regione dicono che il lavoratore aveva manomesso gli spinotti siti sul carrello e non aveva utilizzato i puntelli di sostegno del cassone durante l’esecuzione dei lavori. Pertanto il procedimento penale per omicidio colposo, avviato dalla Procura della Repubblica di Foggia nei confronti del datore di lavoro, viene archiviato.
Gli eredi della vittima - la moglie e i due figli - non si danno però per vinti e citano in giudizio l’impresa davanti al Tribunale civile di Foggia per sentirla condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa della morte del loro congiunto. La società resiste, affermando che l’incidente è solo da iscriversi alla colpa esclusiva del lavoratore; ma il Tribunale è di avviso contrario, e attribuisce la responsabilità dell’incidente al datore di lavoro, condannandolo al pagamento di una cospicua somma di denaro a titolo di risarcimento a favore dei congiunti della vittima.
Il provvedimento viene confermato dalla Corte di Appello di Bari e successivamente dalla Corte di Cassazione. La quale, nella sentenza del 25 febbraio 2008 numero 4.718, ha stabilito che configura una responsabilità anche oggettiva del datore di lavoro l’inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro contenute nel decreto del presidente della Repubblica del 27 aprile 1955 numero 547, coordinate con i principi generali enunciati dall’articolo 2.087 del Codice civile. In base a quest’ultimo l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Grava pertanto sull’impresa, e non sui lavoratori o sui terzi danneggiati, il rischio inerente all’eventuale pericolosità dei macchinari di cui questa si avvale per l’esercizio della propria attività e nel proprio interesse.
Solo la responsabilità oggettiva, infatti, garantisce una certa efficacia dissuasiva dell’uso di mezzi o di attrezzature pericolose, in quanto fa gravare i costi degli incidenti sull’impresa che tali mezzi usa, anziché sui lavoratori o sui terzi danneggiati. Al riguardo va ricordato che già nella sentenza n. 7.010 del 1994 la Corte aveva avuto modo di distinguere le misure previste dall’articolo 82 del citato decreto, riguardanti il blocco assoluto delle macchine durante le operazioni di pulizia, manutenzione e simili, dalle misure protettive prescritte dall’articolo 68 dello stesso decreto, in base alle quali gli organi delle macchine e le relative zone di operazioni, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono, per quanto possibile, essere protetti o segregati, oppure provvisti di dispositivi di sicurezza. La finalità di quest’ultima disposizione, richiamata nella sentenza 4.718 del 2008, è quella di imporre all’imprenditore l’adozione di macchine industriali nelle quali la presenza di ripari o di dispositivi di sicurezza renda materialmente impossibile al lavoratore inserire le mani nelle parti mobili del macchinario in funzione, seppure per imprudenza, disattenzione o temerarietà.
Nel caso di specie si è accertato che l’automezzo non era dotato di alcun dispositivo di sicurezza, né di alcun mezzo idoneo ad impedirne il ribaltamento; che tali non si potevano considerare i puntelli, i quali non costituiscono di per sé soli un adeguato sistema di sicurezza; che accanto alla vittima erano stati trovati dei pezzi di semiasse, per cui non si poteva escludere che il puntello posto a sostegno del ribaltabile si sia spezzato in due, provocando la caduta del cassone; che non vi era prova che il lavoratore infortunato avesse posto mano ai lavori di manutenzione di sua iniziativa e senza averne ricevuto l’incarico dal datore di lavoro.
Ma, soprattutto, non vi era prova che il datore di lavoro avesse impartito al dipendente l’espresso divieto di provvedere di persona ai lavori di manutenzione del cassone; di averlo istruito circa le modalità con cui provvedere a detti lavori; di avergli illustrato i pericoli insiti nel lavorare sotto il cassone rialzato, rendendolo edotto della mancanza di mezzi tecnici idonei a garantire il fermo assoluto della macchina, come prescritto dall’articolo 4 del citato decreto secondo il quale il datore di lavoro deve rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti, e portare a loro conoscenza le norme essenziali di prevenzione degli infortuni sul lavoro, disponendo ed esigendo che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza e usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione.
D’altra parte, se è vero che i mezzi tecnici dell’epoca non consentivano di garantire l’adozione delle misure di sicurezza previste dalla legge, particolarmente accurate avrebbero dovute essere le disposizioni del datore di lavoro circa il divieto per il dipendente di intraprendere quella determinata attività di manutenzione, o le istruzioni impartite al fine di renderlo edotto dei rischi cui era esposto e dei mezzi per evitarli.


PROTEZIONI MANOMESSE: NON COLPEVOLI
I LAVORATORI


Con la recente sentenza n. 4.718 del 2008 in tema di infortuni sul lavoro, la Corte di Cassazione ha anche affermato che non sussiste concorso di colpa a carico del lavoratore che abbia subito l’infortunio per aver manomesso gli apparati di protezione, ove il datore di lavoro non fornisca la prova di avergli impartito idonee istruzioni e di averlo diffidato da tale comportamento.
Secondo la Corte, la circostanza secondo cui la stessa vittima avrebbe manomesso i pistoni di aggancio del cassone al carrello, creando la situazione di pericolo, non ha alcuna rilevanza in mancanza della prova che il lavoratore sia stato debitamente istruito circa il funzionamento della macchina e delle sue diverse parti, e circa i pericoli che essa poteva presentare; oppure che sia stato espressamente diffidato dall’eseguire il lavoro o dal compiere le manovre che hanno creato quella situazione di pericolo.
Ne consegue che la colpa o la negligenza del lavoratore non necessariamente possono considerarsi concausa dell’evento dannoso ove abbiano potuto esplicare efficacia causale solo in seguito agli inadempimenti del datore di lavoro, soprattutto per la mancata adozione delle cautele e della vigilanza prescritte per l’impiego delle macchine. È infatti interpretazione costante che la responsabilità civile dell’imprenditore per la mancata adozione di misure di sicurezza generiche e specifiche - che siano idonee, in relazione alla concreta pericolosità dell’attività lavorativa, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore -, è esclusa solamente nel caso di dolo di quest’ultimo e nel caso di rischio elettivo, generato cioè da una manovra non avente alcun rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa ed esorbitante dai limiti di essa.
Pertanto la colpa del lavoratore dovuta a imprudenza, imperizia e negligenza non elimina quella del datore di lavoro; il quale è obbligato ad assicurargli la sicurezza sul posto di lavoro tenendo anche conto delle sue eventuali imprudenze; l’osservanza delle prescrizioni predisposte dalle norme antinfortunistiche non è lasciata alla discrezionalità del datore di lavoro, che è esonerato da responsabilità unicamente in caso di assoluta impossibilità di adottare tali prescrizioni, nel senso che tale impossibilità deve riguardare non solo la macchina o l’attrezzatura in concreto impiegata dal lavoratore, ma la produzione stessa di un’attrezzatura conforme alle prescrizioni di legge.
D’altra parte la responsabilità civile del datore di lavoro è correttamente esclusa nell’ipotesi in cui venga accertata la volontaria disattivazione, da parte del lavoratore, delle misure di sicurezza, a meno che tale disattivazione configuri una violazione anche da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di assicurare al dipendente la sicurezza; è ugualmente esclusa nel caso in cui è imprevedibile l’elusione cosciente delle norme di sicurezza da parte di un lavoratore esperto, per il quale non si richieda una sorveglianza costante e assidua. In questo contesto va ricordato, in particolare, il disposto dell’articolo 6 del decreto del presidente della Repubblica numero 547 del 27 aprile 1955, secondo il quale il lavoratore, oltre alle norme del decreto stesso, deve osservare le misure disposte dal datore di lavoro ai fini della sicurezza individuale e collettiva; usare con cura i dispositivi di sicurezza e gli altri mezzi di protezione predisposti o forniti dal datore di lavoro; segnalare immediatamente, al titolare dell’azienda e ai dirigenti preposti, le deficienze dei dispostivi dei mezzi di sicurezza e protezione nonché le eventuali condizioni di pericolo di cui viene a conoscenza. Deve inoltre adoperarsi direttamente, in caso di urgenza e nell’ambito delle proprie competenze e possibilità, per eliminare o ridurre tali deficienze o pericoli; non deve rimuovere o modificare i dispositivi e gli altri mezzi di protezione senza aver ottenuto l’autorizzazione; né compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non siano di propria competenza e che possano compromettere la sicurezza propria o di altre persone.
Nel bilanciamento delle responsabilità occorre dunque tener conto anche degli obblighi imposti al lavoratore dalla normativa antinfortunistica che, proprio a tale scopo, prevede apposite precauzioni da osservare da entrambe le parti. D’altronde, sia pure ai diversi fini della responsabilità extra contrattuale, l’articolo 2.050 del Codice civile pone la regola generale in base alla quale chiunque cagiona danni ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Nella sentenza la Corte di Cassazione ha avuto anche modo di ribadire che la domanda di risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente la richiesta volta ad ottenere il risarcimento del danno biologico anche quando essa non contiene alcuna precisazione in tal senso, in quanto la domanda, per la sua onnicomprensibilità, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno.
Si tratta di un principio ormai pacifico, riferendosi la domanda risarcitoria a ogni tipo di danno subito e non essendo, per converso, ammissibile che taluno agisca in giudizio per risarcimento del danno esponendo determinate voci e poi, definito il giudizio con il giudicato, agisca di nuovo per il risarcimento di altri danni derivanti dallo stesso fatto.

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