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ECONOMIA GLOBALIZZATA
E DISEGUAGLIANZA DIFFUSA

di IVANO BARBERINI
presidente dell’Alleanza
Cooperativa Internazionale
e dell’Archivio Disarmo

ineguaglianza è uno dei mali più evidenti e dolorosi della nostra epoca. È un fenomeno che danneggia la diffusione della democrazia e contrasta con il bisogno acutamente avvertito di pace e di benessere, in ogni parte del mondo. La globalizzazione ha portato indubbi benefici in molti campi, dall’arte alla circolazione delle informazioni; ha creato condizioni favorevoli per uno sviluppo economico che ha cambiato lo scenario mondiale, ha fatto emergere nuovi attori e uscire dall’indigenza decine di milioni di persone, soprattutto in Asia. Il problema non è la globalizzazione in sé, ma la disuguaglianza nella partecipazione ai suoi benefici tra i vari Paesi e all’interno dei Paesi stessi. È questo che pone l’esigenza di una globalizzazione più equa e responsabile per il futuro del pianeta.

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), il 18 per cento della popolazione mondiale (un miliardo di persone) dispone dell’83 per cento della ricchezza mondiale. L’82 per cento (5 miliardi di persone) si divide il restante 17 per cento. I Paesi ricchi usano il 50 per cento di energia, il 75 per cento del metallo e l’85 per cento del legno disponibile in tutto il pianeta. «L’estrema povertà–afferma il Programma citato–potrebbe essere sradicata con una spesa di 80 miliardi di dollari annui, meno del patrimonio netto accumulato dalle sette persone più ricche del mondo».
Particolarmente dolorosa è l’ineguaglianza nella tutela della salute. Secondo una stima di alcuni anni fa, i Paesi in via di sviluppo nei quali vive l’85 per cento della popolazione mondiale rappresentano solo il 25 per cento del mercato farmaceutico. La tendenza a ridurre gli aiuti ai Paesi poveri da parte dei più fortunati rischia di peggiorare a causa della crisi economica in atto che fa emergere livelli di povertà e di ineguaglianze interne ai Paesi ricchi generanti gravi tensioni sociali. Le politiche adottate in questi decenni non sono riuscite e in taluni casi non sono state orientate a contenere il progredire di questi fenomeni.

La discussione su questi temi è particolarmente acuta negli Stati Uniti, in una fase di rischio più che probabile di recessione e di aspri confronti tra i candidati alla Presidenza soprattutto all’interno del Partito Democratico. Secondo l’UNDP, l’uno per cento della popolazione statunitense detiene il 40 per cento della ricchezza; il 20 per cento un altro 40 per cento; il 79 per cento possiede il restante 20 per cento. Il livello di fiducia dei consumatori è sceso drammaticamente mentre il deficit, il debito pubblico e la crisi immobiliare indeboliscono il dollaro e gettano ombre pesanti sulle potenzialità di crescita economica globale.
Secondo il sondaggio condotto dall’Istituto Gallup nel giugno del 2007, solo il 24 per cento della popolazione degli Stati Uniti si ritiene soddisfatto di come vanno le cose; il 74 per cento si dichiara insoddisfatto. Solo un terzo degli intervistati stima le condizioni economiche nel Paese eccellenti o buone, con un netto calo rispetto ai risultati di un analogo sondaggio condotto circa 10 anni fa.

Il Fondo Monetario Internazionale ha stimato in quasi mille miliardi di dollari le perdite potenziali causate dalla crisi dei mutui ipotecari e dalle sue implicazioni nel mercato immobiliare. Di fronte a questo rischio sembra che le banche abbiano svalutato i crediti per circa 100-150 miliardi di dollari: una situazione che lascia aperti scenari imprevedibili. Il deficit pubblico degli Stati Uniti, influenzato soprattutto dal deficit commerciale, è cresciuto rapidamente. Negli anni 80 era pari al 3,7 per cento del prodotto interno; attualmente è pari al 5,7: un livello considerato pericoloso dal Fondo Monetario Internazionale. La recessione potrebbe essere molto più pesante di quelle precedenti e durare almeno fino alla metà del 2010.

La scarsa efficacia della politica fiscale dell’Amministrazione Bush e soprattutto la scarsa attenzione a problemi di primaria importanza per l’economia e la società - dalla riforma della Previdenza sociale al deficit di bilancio, dalla persistente disoccupazione all’ineguaglianza economica - hanno peggiorato la situazione. Nel tempo, la rilevante disparità nel reddito determina inevitabilmente una diffusa ineguaglianza sociale, con effetti negativi sulla democrazia e sulla coesione sociale. A tutto ciò si aggiunge il dramma della guerra in Iraq delle ingenti perdite di vite umane, che alimenta un vasto, pubblico disgusto e si pone al centro della politica americana. L’economista Joseph Stiglitz stima il costo complessivo della guerra in 3 mila miliardi di dollari, causa principale della crescita dell’indebitamento. Anche per la più grande economia del mondo rappresenta un onere insopportabile.
Gli americani sono preoccupati per l’andamento dell’economia e per il rischio che l’arretramento degli standard di vita perduri anche dopo il superamento della crisi. Il ceto medio si è progressivamente indebolito con un effetto corrosivo sulle relazioni sociali e politiche. L’economista Paul Krugman, nel proprio libro più recente «The Conscience of a Liberal», paragona la situazione attuale alla cosiddetta «Gilded Age» - Epoca dell’alta società - che va dal 1870 al 1900. In realtà si tratta di un periodo oscuro, caratterizzato da livelli estremi di fanatismo, corruzione, ineguaglianza.

Negli Usa uno degli aspetti che rendono più dolorosa la disparità di reddito è l’accesso all’assistenza sanitaria. Sono l’unico Paese, tra quelli economicamente avanzati, nel quale circa il 15 per cento della popolazione, pari a 45 milioni di persone, non ha alcuna assicurazione per le cure mediche. La spesa sanitaria pro capite è circa il doppio rispetto a Canadà, Francia e Germania. La maggiore spesa non corrisponde tuttavia a una migliore assistenza sanitaria. L’Organizzazione mondiale della Sanità colloca il sistema sanitario degli Usa al 37esimo posto nella graduatoria mondiale.
Rimane insoddisfatto il bisogno di un’assistenza sanitaria universale, come quella dei cittadini di altri Paesi sviluppati. Il Governo sostiene che il problema non è di propria competenza; d’altronde un significativo numero di cittadini ritiene che esso non debba usare il denaro dei contribuenti per aiutare gli sfortunati. Il nuovo presidente che entrerà alla Casa Bianca nel gennaio prossimo dovrà affrontare questi problemi.

Fino a poco tempo fa appariva scontata l’elezione di un democratico; oggi la situazione appare molto più incerta. Tra Barak Obama e Hillary Clinton potrebbe vincere il repubblicano Jonh McCain. In quel caso è probabile una continuità con la politica di George Bush, anche se le dichiarazioni attuali del candidato sono diverse. Resta il fatto che ciò non corrisponderebbe alle attese dal sistema economico e dai cittadini americani. «Il nuovo Presidente dovrà andare oltre i tagli alle tasse e adottare politiche dirette a stimolare l’economia con investimenti pubblici di cui c’è gran bisogno, ad esempio riparare le fatiscenti infrastrutture del Paese», sostiene Krugman. Sembrano parole indirizzate all’Italia di oggi e ai tanti problemi che il nuovo Governo dovrà affrontare con urgenza.

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