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ANTIQUARIATO

Bruno Veneziani:
Tutela sì, ma senza
danneggiare l’Italia

a cura di
ROMINA CIUFFA


Bruno Veneziani, antiquario
di Via Margutta


I n Italia la normativa
troppo restrittiva
e antiquata in vigore
impedisce
all’arte di essere
valorizzata, alle case
d’asta di competere
con l’estero
frenando il mercato
delll’antiquariato


l mercato dell’antiquariato si divide in due fasce: quella di coloro che «giocano» collezionando, scambiando pezzi Luigi XVI come figurine Panini e creando un sottomercato al di fuori di Via dei Coronari e di Via Margutta - le via romane dell’antico per eccellenza -, e che, come forsennati, acquistano riviste e leggono tutto avidamente; e quello di coloro che lo considerano un «business», vi compiono investimenti qualificati e sicuri, attenti solo a un impiego proficuo di capitale. In generale non è un mercato facile in Italia: non lo è per i primi, i collezionisti, perché spesso si incappa in operatori inaffidabili, per dolo ma anche per colpa; e perché non tutti conoscono questo settore e spesso è difficile distinguere il vero dal falso e le attribuzioni di qualità o di prezzo sono errate.

Ma non è facile nemmeno per i secondi, gli investitori, che non sono i mecenati o i grandi committenti del tempo che fu, bensì affaristi che tengono alla cultura, ma di più alle tasche. È quasi meglio, allora, sapere che le banche e le istituzioni si muovono in un senso, quello della grande collezione, della ricerca delle opere, dello studio ed anche, ultima ma non per importanza, della conservazione di grandi pezzi d’antiquariato e d’arte. Perché questi due ultimi beni sono estremamente legati e, come i quadri divengono spesso oggetto di arredamenti d’interni, una panca di un certo periodo può essere, in un’ottica moderna, quasi appesa al muro. Si parla allora di minimalismo, minimizzando quando si fa finta di non capire che la qualità di un’opera non è proprietà del suo autore ma della moda, che può definire uno strano cubetto trasparente oggetto di valore, o una sedia a due gambe un’ottima spesa.
Accostiamo a questo le mosse eclatanti dei fondi di investimento esteri che, sin dal secolo scorso, hanno compiuto sul mercato acquisti rilevanti per rivendere poi con enormi margini di guadagno; quelle dei gruppi economici multinazionali che fissano di volta in volta nuovi record dei soliti pezzi; e infine una normativa, quella italiana, che penalizza l’antiquariato. A queste condizioni e con la disinformazione che distrugge la vera arte - mentre l’informazione ne crea una nuova -, bisogna augurarsi che il grande collezionismo smetta di avere paura e si fidi: perché un pezzo d’antiquariato resta tale per sempre.

E questo conferma Bruno Veneziani, uno degli storici antiquari romani con atelier in Via Margutta, la cui famiglia dal 1883 opera tra pezzi più unici che rari. «L’antiquariato costituisce un investimento sotto tre aspetti. Innanzitutto quello culturale, perché si parla di storia e di quanto è legato a un oggetto, a un mobile, a un’opera d’arte; non c’è solo il prezzo dietro, ma secoli di cultura. In secondo luogo si tratta di un investimento «emozionale», perché l’oggetto suscita emozione, si può guardarlo e goderlo tutti i giorni, permanentemente. Infine, strettamente legato ai primi due aspetti, c’è l’investimento finanziario, che non è da sottovalutare», afferma Veneziani. In realtà non è un mestiere facile il suo, perché impegna tutta la persona e richiede gusto, cultura e istinto.

Domanda. Che cosa mette lei nell’antiquariato?
Risposta. Tutto. È un lavoro personale, che può fare solo l’antiquario con il proprio istinto e la propria attidudine. Che non può essere trasmessa ad altri senza che mutino le scelte, il gusti, le occasioni. L’impronta della mia galleria è personale, ogni oggetto è stato scelto da me.

D. Come si riesce allora a diventare antiquario se, oltre alla conoscenza della storia e dell’arte, occorre l’esperienza individuale?
R. La conoscenza viene prima di tutto, saper distinguere uno stile dall’altro è fondamentale. Nell’Ottocento, ad esempio, furono riprodotti gli stili di moda nel Settecento e il Luigi XV. I prodotti dei due secoli appaiono oggi uguali, ma non lo sono; tutt’al più sono simili; pur essendo una copia «quasi» perfetta, quelli dell’Ottocento hanno una curva leggermente diversa. Ma questo si impara solo con l’esperienza. È in base ad essa che posso distinguere i vari stili riprodotti in cataloghi di tutto il mondo, nelle aste, tra le migliaia di oggetti tutti diversi che vedo. Fare l’antiquario è come fare l’architetto, bisogna possedere un gusto praticamente innato, o formatosi vivendo in una casa in cui esso regna e si è abituati a guardare pezzi pregiati. Quando ero giovane invidiavo le stanze dei miei amici, con i poster appesi alle pareti bianche, mentre a casa mia non potevo toccare niente; ma intanto, senza accorgermene, mi abituavo a vedere e ad apprezzare gli oggetti belli e di valore e, quando ho cominciato a lavorare, mi è stato tutto molto più facile, lo studio e l’abitudine al bello mi avevano aperto la strada all’eredità di mio padre.

D. Lei è partito avvantaggiato perché la storia della sua famiglia è centenaria?
R. La mia famiglia ha fatto questo lavoro dal 1883, anno in cui ottenne la licenza per l’esercizio di una casa di aste situata in Via dei Due Macelli a Roma: i miei bisnonni e nonni hanno svolto questo lavoro ad alto livello, anche internazionale. La casa d’asta è stata chiusa una quindicina di anni fa, avendo perduto lo scopo iniziale, come è avvenuto per tutte le altre case d’asta. Prima le aste si svolgevano su mobili e arredi di interi palazzi e su collezioni anche notevoli; poi le abitazioni si sono svuotate ed è divenuto più difficile trovare oggetti belli e adattarli. Per questo abbiamo deciso di abbandonare quel lavoro e di continuare quello più tradizionale, ossia la vendita di oggetti dell’antichità, che prima si svolgeva insieme alle aste. Si tratta di un’attività che soddisfa sia coloro che intendono vendere tutti gli oggetti di un palazzo o di un’abitazione, sia quanti desiderano acquistare singoli pezzi, non volendo o non potendo rilevate tutto il complesso dei beni. In tale maniera abbiamo evitato anche il rischio di restare con una parte invenduti dei beni d’asta.

D. Le case d’asta funzionano bene oggi in Italia?
R. Funzionano poco e male, perché paradossalmente manca l’offerta. Per la propria natura l’antiquariato ha per oggetto beni che non si possono costruire. Ciò crea una certa rivalità tra gli antiquari e uno scambio tra chi aliena determinate merci e chi ne ne entra in possesso. Il valore lo stabilisce chi ha la clientela adatta. Posso trovare e acquistare un grande vaso cinese, ma solo chi si occupa di arte orientale può venderlo al prezzo adeguato e, soprattutto, a chi sappia veramente apprezzarlo.

D. Perché sono scomparse dal mercato le case d’asta italiane?
R. Purtroppo queste non sono più in grado di resistere a quelle internazionali a causa di leggi antiquate che le costringono letteralmente a chiudere. In Francia, in Inghilterra e negli altri Paesi europei non esistono le limitazioni vigenti in Italia, non c’è quella normativa restrittiva che richiede molte carte, permessi di esportazione, interventi delle Belle Arti in ogni fase, «notifiche» sui pezzi a ogni passaggio di mano, anche contro la libera circolazione delle merci. Questo comporta che gli stessi oggetti a Londra valgano il doppio proprio perché non vi sono barriere che si ripercuotono sul prezzo.

D. Ci sono ancora oggetti in Italia?
R. Abbiamo case e musei pieni di oggetti di grande pregio, ed è anacronistico limitare in tale misura un mercato che acquista valore proprio grazie alla circolazione dei beni. Si pensi che tutto ciò che è uscito dall’Italia nel Settecento e Ottocento - quando i nobili stranieri, a partire dal re Gustavo di Svezia appassionato archeologo, venivano a comprare in Italia, anzi a fare incetta di pitture e di mobili, di Canaletto, Guardi, e Tiepolo -, è rientrato dal dopoguerra ad oggi proprio attraverso i viaggi degli antiquari italiani come mio padre, che hanno ricondotto in Italia camion di capolavori.

D. Non è un bene che i capolavori italiani siano tornati in patria?
R. Fino a un certo punto, perché ora sono qui e vi restano, e questa non è una buona cosa. John Huston collezionava «cocci», ossia vasi etruschi, la cui importanza è nata proprio dalla moda e dalla loro circolazione; prima i tombaroli che scavavano tombe per impossessarsi di gioielli e bronzi rompevano i vasi che li contenevano. Questo dimostra che l’arte non deve avere frontiere, che gli oggetti devono circolare per acquisire un valore ed essere commercializzati, così come i nostri pittori giravano le corti per essere conosciuti. Le restrizioni bloccano anche le importazioni: chi ha interesse ad acquistare a un prezzo maggiore all’estero per rivendere a un prezzo inferiore in Italia?

D. Quale interesse hanno gli americani verso l’antiquariato italiano?
R. L’alto rapporto di cambio tra l’euro e il dollaro sta influenzando negativamente le abitudini degli americani che prima erano grandi compratori. È un peccato, perché sono un popolo di collezionisti e in questo campo hanno leggi favorevoli. Se è vero che l’europeo ha più cultura e più storia alle spalle, è altrettanto vero che l’americano studia di più l’arte, ne è appassionato. L’Italia oggi soffre di una grande mancanza di cultura, c’è poca passione sia a scuola sia fuori di questa. Vicino a noi abbiamo dei grandi esempi: fra i tanti l’Ungheria, dove la musica classica, patrimonio locale, viene insegnata nelle scuole sin dalla più giovane età. L’arte in Italia meriterebbe più impegno e attenzione delle gite delle scolaresche effettuate nell’orario delle lezioni. In Francia e in Inghilterra i giovani sono molto più acculturati ed è diffusa la passione per l’arte, nei musei è consentito a tutti di introdurvi cavalletti, sedersi e copiare le grandi opere; signore in pensione svolgono gratuitamente la funzione di guide o di custodi non per passare il tempo, ma con una conoscenza perfetta degli argomenti.

D. Quanto la sovravalutazione subita in questi ultimi anni dall’euro ha frenato il mercato dell’antiquariato?
R. Moltissimo. L’arredamento moderno ha minato il gusto, che ora è dominato dall’economicità. Ma per arredare una casa non è necessario un oggetto museale, è sufficiente una cultura applicata. Invece si diffonde il minimal, indubbiamente funzionale per i bassi redditi dei nostri giovani. Il modo di pensare è cambiato nel mondo: oggi si ricorre all’arredatore, mentre una volta si realizzava una bella casa perché si riceveva. Mio padre vendette a rate un pezzo antico a una coppia di signori, due professori in pensione che erano venuti ripetutamente ad ammirarlo senza decidersi mai ad acquistarlo, perché non avevano sufficienti disponibilità finanziarie; per lui, antiquario, non era conveniente vendere, ma era tanta la passione dimostrata dai richiedenti che la soddisfazione di mio padre andò oltre il mero commercio.

D. A chi si vende ora l’antiquariato?
R. Nel nostro campo si lavora più con la provincia, che ha un gusto più classico, che con la città. Le mode tornano, la gente getta via tutto e ricomincia, ma un pezzo d’antiquariato non si butta mai. Le case moderne piacciono al primo istante, poi non si ricordano più, nemmeno si distinguono. Non rimangono impresse per sempre. Oggi i mobili sono costruiti con sistemi industriale e, quando invecchiano, non offrono la stessa sensazione di un pezzo antico. Un ingegnere mi diceva: «L’essenza della sedia sono tre gambe, non di più». Perché bastano; quindi cosa c’è da inventare? Nell’ambito dello stile Luigi XVI invece, anche se l’Europa si è uniformata, lo stile mosso e bombato è stato interpretato in una miriade di modi diversi da tutti i Paesi e, all’interno di questi, da città e da correnti che hanno reso i prodotti ben riconoscibili, infondendo loro una personalità. E poi chi desidera vivere in una casa al neon?

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