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GIORGIO TONINI:

BISOGNA
FAR CRESCERE
LA PRODUTTIVITÀ TOTALE

 


Il senatore Giorgio Tonini,
responsabile del Dipartimento
economico del Partito Democratico


«Una ragione
della debole crescita
dell’economia italiana
consiste nella troppo
bassa produttività
dei fattori di produzione;
pertanto occorre
una cosa sola, farla
crescere, perché
se non c’è
crescita il Paese
ne risente anche
in altri campi, aumentano
le diseguaglianze
e alcune di queste
diventano
povertà, difficoltà
e disagio profondo»


er cause di carattere sia internazionale sia interno, l’inverno 2007-2008 si è rivelato uno dei più problematici per le disponibilità economico-finanziarie delle famiglie. Le cause principali sono lo squilibrato rapporto di cambio tra l’euro e il dollaro e i prezzi crescenti dei carburanti. Ma oltre a queste spinte internazionali, hanno contribuito alle difficoltà anche fattori interni. In questa difficile situazione è venuto a trovarsi il neonato Partito Democratico sul quale tra l’altro, essendo il maggiore della coalizione governativa, grava anche la maggiore responsabilità di Governo: non solo esso si trova alle prese con una serie di problemi spiccioli - vertenze sindacali, proteste, scioperi, aumenti dei prezzi, inflazione, pressione fiscale, agguati parlamentari, emergenza ambientale, immigrazione clandestina, legge elettorale, referendum ecc. -, ma deve assolutamente elaborare un programma e attuare una politica economica e sociale che non solo avvii a soluzione questi problemi, ma stimoli nel Paese una rapida e generale ripresa economica e produttiva a vantaggio sia delle famiglie sia delle imprese. Consapevole di questa urgenza il Partito Democratico si è dotato di una nuova struttura specializzata, un dipartimento economico la cui guida è stata affidata al senatore Giorgio Tonini, già assistente alla Segreteria generale della Cisl con Pierre Carniti, tra i fondatori dei Cristiano sociali, membro della segreteria dei Ds con Walter Veltroni, vicepresidente della Commissione Esteri del Senato.

Domanda. Che cosa può fare il Partito Democratico per avviare la ripresa economica e produttiva in questo quadro di condizionamenti internazionali, europei e nazionali?
Risposta. Secondo la maggioranza degli osservatori la congiuntura internazionale dovrebbe peggiorare, ma ormai siamo abituati a vivere nell’incertezza da anni, per di più le previsioni spesso si rivelano infondate. Stiamo entrando o siamo già entrati in un mondo nuovo, nel quale il mercato internazionale non è più costituito dalle due rive dell’Atlantico, ma da protagonisti entrati prepotentemente nella scena economica e politica mondiale e con i quali bisogna fare i conti: i Paesi produttori di petrolio, diventati attori a livello internazionale, e, soprattutto, i nuovi giganti economici quali Cina, India, Brasile ecc. In questi anni la globalizzazione ha prodotto uno sviluppo straordinario a livello mondiale, l’economia è cresciuta in maniera rigogliosa, quella americana a ritmi sostenuti. Questo mentre l’economia europea cresceva a ritmo dimezzato e, nell’ambito europeo, la situazione italiana era quella più difficile. Ci stiamo avviando verso una fase di incertezza dovuta alle difficoltà dell’economia americana, che non sappiamo se saranno compensate dall’Asia o se innescheranno una reazione negativa a catena. È difficile azzardare previsioni, anche perché non abbiamo validi precedenti.

D. Come vede la situazione italiana?
R. Mentre il mondo ha corso negli ultimi anni, e forse adesso rallenta, noi da un decennio procediamo troppo lentamente. E se un’economia cresce la metà o ancora meno dei Paesi simili e concorrenti, si può cominciare a parlare di declino. Sono d’accordo con chi avverte di non esagerare, ma se un ciclo economico diventa stagnante per un periodo così lungo finisce per diventare quasi insensibile a quanto avviene intorno. Abbiamo visto in campo sia europeo sia mondiale Paesi crescere di più, altri crescere di meno, mentre l’Italia resta sempre indietro, qualunque cosa succeda nel mondo. È evidente che c’è qualcosa di strutturale che non va bene.

D. Cosa può fare la classe politica italiana, che controlla solo pochi fattori?
R. In un contesto globalizzato senza più, per fortuna, neppure la leva monetaria, l’unica cosa che la politica può, e deve fare, è lavorare per rendere competitivo il nostro sistema economico. In altre parole: far crescere nel nostro Paese la produttività totale dei fattori di produzione. Perché, se c’è una ragione di fondo della debole crescita dell’economia italiana, consiste nel fatto che tale produttività è troppo bassa. Questo spiega in gran parte perché abbiamo perso colpi e non c’è crescita. E se non c’è crescita, il Paese ne risente anche in altri campi, aumentano le diseguaglianze e alcune di queste diventano povertà, difficoltà e disagio profondo. Quindi, oltre ai motivi che hanno a che fare con lo sviluppo e la crescita, di per sé già sufficienti per agire in maniera determinata attraverso le politiche della produttività, esistono anche ragioni di equità sociale.

D. Quelle che chiama politiche della produttività riguardano il settore pubblico o quello privato?
R. Parliamo prima del settore privato. Su questo punto il Partito Democratico ha assunto una posizione molto netta e chiara. Sappiamo che nel nostro Paese esiste una questione salariale riguardante l’insieme del lavoro dipendente, che ha visto ridursi la quota di reddito di cui è destinatario a favore dei profitti e, soprattutto, della rendita finanziaria. Occorre compiere uno sforzo redistributivo a favore del lavoro dipendente. Da questo punto di vista la legge finanziaria per il 2008 ha stabilito che tutto l’extra-gettito, al netto della quota destinata al risanamento del debito pubblico, quest’anno dovrà andare al lavoro dipendente attraverso l’aumento delle detrazioni per le spese di produzione del reddito. È una norma che abbiamo appoggiato, votato in Parlamento e condiviso con il Governo. È un intervento da compiere; naturalmente bisognerà accertare quante sono le risorse finanziarie a disposizione. Prima della prossima relazione trimestrale di cassa sarà difficile fare i conti, però la scelta politica in quella direzione è stata compiuta.

D. È una misura sufficiente?
R. Pur essendo significativa e necessaria sul piano sociale, è tutt’altro che risolutiva, perché è difficile redistribuire quello che non si crea. Per questo diciamo che il Governo deve spingere le parti sociali a riformare le relazioni industriali e la contrattazione sindacale. Veniamo da una stagione cominciata con il Governo Ciampi nel 1993 e sostanzialmente conclusasi quasi dieci anni fa con il patto di Natale del Governo D’Alema: la stagione della concertazione, della contrattazione nazionale finalizzata alla stabilità e al risanamento del debito pubblico, alla moderazione salariale per evitare fenomeni di tipo inflattivo e crisi finanziarie. Quella stagione ha dato tutto quello che poteva, oggi la contrattazione nazionale rischia di diventare più un problema che una risorsa, perché centralizzando tutto ha ingessato il sistema. Ha impedito di distribuire incentivi per aumentare la produttività, con un duplice risultato negativo.

D. Qual è questo risultato?
R. Il primo, di carattere sociale, consiste in una minore redistribuzione dei redditi, e questo spiega l’appiattimento dei salari, la loro perdita di potere di acquisto, il rallentamento della dinamica salariale; il secondo si registra sul piano economico, perché è evidente che c’è stato sempre meno interesse a produrre incrementi di produttività per distribuirli ai lavoratori. Allora occorre uno sforzo per ristrutturare il sistema delle relazioni industriali, rimettendo al centro la produttività, rilanciando in maniera decisa la contrattazione di secondo livello. È una questione cruciale per rimettere in moto l’economia del Paese. Naturalmente dobbiamo intendere la produttività in senso moderno, quindi non lavorare più ore e sfruttare di più la manodopera; questa sarebbe la produttività dei poveri. Se vogliamo la produttività dei ricchi, dobbiamo puntare all’innovazione tecnologica e di prodotto, agli investimenti sulla qualità e naturalmente alla rivalutazione del capitale umano. Quindi alla formazione sia dei lavoratori in servizio sia delle nuove leve, agli investimenti nell’istruzione, nell’università, nella ricerca. Questo è l’obiettivo decisivo.

D. E nel settore pubblico?
R. Nel secondo pilastro, costituito dalla finanza pubblica, non registriamo un livello intollerabilmente alto della spesa né della pressione fiscale, che sono sostanzialmente in linea con il resto dell’Europa. Il problema è costituito dal fatto che la pressione fiscale è mal distribuita. Vi sono contribuenti leali che pagano troppo e contribuenti non leali abituati all’evasione. Questo Governo, tramite il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa e il viceministro Vincenzo Visco, sta compiendo un grande lavoro per eliminare questo sbilancio; passata la fase di emergenza, bisognerà raggiungere un’invarianza della pressione fiscale complessiva, e ciò che si recupererà dall’evasione dovrà andare a beneficio dei contribuenti leali. Quella parte di extra-gettito dovrà andare, per esempio, al lavoro dipendente, ma poi in prospettiva, con la riforma delle aliquote, anche al lavoro autonomo, alle imprese, a tutti i settori. La lotta all’evasione, al sommerso, al nero produce un incremento della pressione fiscale; man mano che emergeranno, questa andrà ridotta e redistribuita. In tale direzione mi sembra che il Governo stia lavorando bene.

D. Ma nel contenimento della spesa pubblica che cosa ha fatto il Governo di centrosinistra?
R. A me non piace dividere il mondo in buoni e cattivi: tutti possono compiere errori che a volte scavalcano le legislature, per cui i Governi successivi devono gestire quelli compiuti dai Governi precedenti; non mi piace la politica settaria, ma credo di poter dire che sul terreno delle entrate siamo più bravi, che nel controllo della spesa il Governo di centrosinistra ha mostrato maggiori capacità di quello di centrodestra. Durante il Governo Berlusconi la spesa è cresciuta sia in cifra assoluta sia in relazione al prodotto interno lordo, e questo sembra un paradosso perché di solito si sente dire che la destra taglia la spesa e riduce le tasse; invece ha mantenuto invariata la pressione fiscale mentre non è riuscita a frenare la spesa, anzi l’ha aumentata.

D. Qual è la prospettiva attuale?
R. Adesso dobbiamo riuscire noi a contenerla, possibilmente a ridurla e, soprattutto, a qualificarla e a renderla produttiva. Il vero problema della spesa pubblica non è tanto il livello quanto la qualità. Se la disaggreghiamo, ci rendiamo conto che la Sanità è sostanzialmente sotto controllo, anche se in alcune Regioni va ancora rimessa in linea. Ma nel complesso produce qualità, non perché lo dice l’attuale ministro che pure sta lavorando bene; ma perché, secondo quanto dimostrano i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, siamo tra i Paesi che spendono meno e hanno i migliori risultati, anche se il sistema è comunque perfettibile.

D. E gli altri settori?
R. Abbiamo messo a regime la riforma Dini con la quale avevamo già riordinato la previdenza. In altri settori tuttavia il sistema ancora non funziona. Per la giustizia spendiamo come gli altri Paesi europei, ma per avere giustizia impieghiamo un tempo dieci volte superiore a loro; e una giustizia che arriva tardi non è più giustizia, riduce la competitività, frena gli investimenti. Il sistema formativo è invecchiato, in alcuni campi raggiunge risultati eccellenti ma il livello di alfabetizzazione dei giovani è insoddisfacente. Sono due esempi, ma potrebbero farsene molti altri.

D. Come si può intervenire?
R. Bisogna riqualificare tutti i settori ma bisogna anche risparmiare sui costi dello Stato. Il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa sta facendo molto in questa direzione, ma noi lo spingiamo a fare sempre di più e meglio. Pensiamo a quanto costa la presenza dello Stato in tutte le provincie ove ogni Ministero ha il proprio ufficio periferico; la Banca d’Italia li ha chiusi, lasciandoli solo a livello regionale, lo Stato potrebbe accorparli in un'unica sede provinciale. Naturalmente è un’impresa difficile, alla Camera non siamo riusciti a far passare la proposta del ministro Pier Luigi Bersani di eliminare il Pubblico Registro Automobilistico; siamo l’unico Paese in cui un bene di consumo come l’auto deve essere registrato in due uffici pubblici, Motorizzazione e Pra.

D. I privati non investono, gli stranieri non si fidano, l’Unione europea impedisce allo Stato di realizzare opere per non aumentare il debito pubblico; gli sprechi restano l’unico sostegno dell’economia?
R. Vi sono settori in cui si lavora scavando buche e riempiendole, mentre abbiamo dei fronti sguarniti. Per la sicurezza e le forze dell’Ordine spendiamo più della media europea, ma poliziotti e carabinieri non hanno benzina per le auto, che tra l’altro sono vecchie; però abbiamo troppi corpi di polizia mal coordinati, e troppi poliziotti negli uffici; se mettessimo il personale del Pra a rilasciare i passaporti in Questura e i poliziotti in strada, aumenterebbe la produttività del settore pubblico.

D. Sono terminate le liberalizzazioni avviate dal ministro Bersani?
R. Sono piccole vittorie ma richiedono una grande fatica perché le resistenze sono enormi, ognuno le considera un sopruso. Abbiamo dovuto concedere l’indulto, una delle misure più impopolari di questa legislatura, perché le carceri scoppiavano; un anno dopo scoppiano di nuovo, manca un piano di edilizia carceraria, non ci sono i soldi. Ma quanto valgono sul mercato immobiliare le aree dei centri storici in cui sono situate le carceri? Dovremmo dedicare i prossimi anni a valorizzare il patrimonio e a qualificare la spesa pubblica, senza di questo non aumenta la produttività del sistema.

D. Cosa può fare un Governo privo di una forte maggioranza ?
R. La ragione per la quale il Partito Democratico è così impegnato sul tema delle riforme elettorale e istituzionale è perché vogliamo un sistema politico simile a quello degli altri Paesi europei, capace di creare una leadership che derivi dal popolo, abbia una durata certa, sia accompagnata da contrappesi ma abbia unità di direzione e di comando. Nel nostro Paese abbiamo forti contrappesi e poteri di veto, ma manca il peso dell’autorità di Governo. È stato costruito un bipolarismo a favore o contro Berlusconi che non può funzionare, è un’anomalia. Dobbiamo introdurre nella Costituzione modifiche circoscritte, minime ma essenziali per avere una leadership democratica che, vinte le elezioni, sia in grado di governare, alla testa di una coalizione di pochi partiti fortemente omogenei e non di coalizioni sterminate allestite per vincere le elezioni, non per governare.

D. Non c’è da rimpiangere il sistema politico in atto nella prima Repubblica?
R. Nella prima Repubblica in Parlamento c’erano meno partitini ma tanti franchi tiratori e il voto segreto. Del passato si ricordano solo le cose buone. Un debito pubblico pari al 110 per cento del prodotto interno è l’eredità lasciataci da quella stagione. Oggi dobbiamo puntare a un bipolarismo basato su due coalizioni che competano per governare, non solo per battere l’avversario; per governare non basta vincere le elezioni mettendo insieme forze contraddittorie tra loro: bisogna andare oltre, e per questo dobbiamo riuscire a fare le riforme.

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