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GIULIANO POLETTI:

LEGACOOP,
SÌ AL MERCATO
MA CON BEN DIVERSE FINALITÀ

 


Giuliano Poletti,
presidente della Legacoop,
Lega Nazionale delle Cooperative



«La crisi finanziaria, ormai più
che evidente,
è figlia di una dinamica
nella quale il tempo
e le quantità sono
diventati fattori decisivi;
si deve guadagnare tanto
in poco tempo per cui
si creano moltiplicatori
finanziari come i derivati
e altri strumenti; tutti
sistemi che aumentano
le disponibilità senza
indicare in quale punto
di questa catena viene
a nascondersi il rischio»


n un momento di continue spinte inflazionistiche, rincaro di prezzi e tariffe, aumento generale e continuo del costo della vita, stagnazione dell’economia, crescente inadeguatezza di salari, stipendi e pensioni, sostenuto costo del denaro, sfavorevole rapporto di cambio con il dollaro, insistenza della Banca centrale europea a non tagliare il tasso di sconto dinanzi al sostanzioso taglio deciso invece dalla Banca centrale degli Stati Uniti, insensibilità della classe politica nazionale impegnatissima a varare sistemi elettorali che più le garantiscano la permanenza al potere, a chi e a quale rimedio può rivolgersi il consumatore, oltre a tagliare drasticamente perfino le spese più necessarie alle esigenze familiari? Nella prima Repubblica il Ministero dell’Industria e Commercio lanciava campagne contro il caro-prezzi, ora non se ne sente neppure parlare; anzi Stato ed Enti locali sono i primi ad aumentare tasse e tariffe. Il settore commerciale è trasformato in una giungla; sembrano resistere le coop nell’interesse dei propri soci e dei consumatori in generale. Fa il punto sulla situazione Giuliano Poletti, presidente della Legacoop che alla fine del 2006 contava 7.736.210 soci.

Domanda. Come vede dal suo osservatorio la situazione dei consumi, dei prezzi e del mercato in generale?
Risposta. È molto difficile, perché si incontrano esigenze in certa misura incompatibili: da una parte il reddito delle famiglie è insufficiente a soddisfare i consumi necessari, a far fronte ai costi fissi della vita, alle tariffe crescenti anche a causa dei rincari delle materie prime e delle fonti di energia. Nel settore alimentare la situazione è ulteriormente complicata dagli incredibili aumenti verificatisi negli ultimi tempi anche in esso: i cereali e il latte hanno registrato incrementi repentini, difficilmente trasferibili alle aziende industriali e nei listini dei prezzi al consumo, il che determina rilevanti problemi sia per i produttori industriali - nel nostro caso le cooperative di produzione alimentare -, sia per la grande distribuzione. Dinanzi a una sostanziale stabilità dei consumi, la concorrenza diventa sempre più aspra, le grandi catene cercano di accollare l’aumento dei prezzi ai produttori, questi sono stretti tra gli aumenti del costo delle materie prime e la resistenza della grande distribuzione che cerca di dare al consumatore prodotti al miglior prezzo possibile. Nel tentativo di ognuno di salvare la propria parte, c’è il rischio che si inneschi un corto circuito con il risultato di un caos generale. Questa è la nostra preoccupazione.

D. Non è possibile una ripresa, come avviene in tutti i cicli economici?
R. Stavolta si inseriscono questioni mondiali, come la grande depressione che si profila all’orizzonte. Oggi esiste un tema che a noi cooperatori sta molto a cuore e la cui conoscenza dovrebbe essere più diffusa: la crisi finanziaria, che ormai è più che evidente, è figlia di una dinamica nella quale il tempo e le quantità sono diventati fattori decisivi; si deve guadagnare tanto in poco tempo, per cui si inventano dei moltiplicatori finanziari. Cos’altro sono i «derivati» e tutti gli altri strumenti finanziari, se non ingranaggi che moltiplicano le disponibilità finanziarie senza indicare, però, in quale punto di questa catena viene a nascondersi il rischio?

D. Quindi i risparmiatori non sanno dove rischiano i loro risparmi?
R. Esattamente. Se si possiedono 100 euro che a forza di moltiplicatori, derivati, futures, vendite laterali, garanzie sulle garanzie ecc., diventano 1.000, qualche punto di questa catena deve pure celare il rischio. Qualcuno consapevolmente o inconsapevolmente se l’accolla, e quando in tale costruzione si manifesta una crepa, questa diventa incontrollabile, nessuno sa dove colpirà. Allora si diffondono la paura e il panico e, quando questo avviene, nessuna autorità mondiale è in grado di controllarla, perché i fattori sono tanti e agiscono con logiche diverse e tutte tendenzialmente autodifensive. Tutti tendono a salvare il proprio segmento, e quando salta la coesione vincono i più forti e perdono i più deboli.

D. Quali punti sono soggetti a rischio?
R. I fatti di questi giorni dimostrano che il rischio non è localizzabile in un Paese, in un continente, in un’area economica. Questo è l’aspetto pericoloso della globalizzazione perché, pur sorvegliando i dati fondamentali dell’economia, può non capirsi cosa succede. Assistiamo a Paesi come l’India e la Cina che, pur con un prodotto interno in crescita dell’8-10 per cento l’anno, vedono le loro Borse precipitare del 10 per cento in un giorno. La domanda che ogni cittadino e ogni classe dirigente deve porsi è questa: che c’entra tutto ciò con il valore dell’impresa, con la sua redditività nel medio e lungo periodo? Perché crollano i titoli di imprese industriali che aprono strade, fabbricano automobili, producono latte, insomma che industrialmente sono assolutamente solide? Cosa c’entra con le leggi dell’economia il fatto che in tre settimane perdono il 30-40 per cento del loro valore? Abbiamo insegnato ai nostri studenti che esiste una relazione tra il valore dell’impresa, i suoi risultati, i suoi dati fondamentali, e il valore del suo titolo; non è che tutto ciò cambi dalla sera alla mattina, a meno che nottetempo qualcuno abbia rubato, scavato un buco sotto il palazzo; ma questo non può avvenire per tutti i titoli nel listino italiano. Allora esistono fenomeni imprevedibili e anche ingovernabili.

D. Che bisogna fare per combatterli?
R. Probabilmente cominciare anche a porsi dei limiti, ad abbandonare l’idea che si possano moltiplicare in maniera illimitata le dinamiche della finanza e affidare al mercato la capacità di riequilibrare la situazione. I pericoli sono troppo grandi, i danni troppo ingenti; per evitare che ciò possa accadere, dobbiamo pensare a una necessità di fondo, a un vincolo oltre il quale non si può andare. Le istituzioni del mercato devono essere migliorate, va posto un limite serio attraverso meccanismi di vigilanza, di regolazione mercantile, a tutti i sistemi di governo dei grandi agglomerati economici e dei grandi mercati finanziari.

D. Prima dell’Unione monetaria europea avevamo maggiori poteri e strumenti per intervenire; non era meglio?
R. Siamo nella condizione, mai verificatasi nella storia dell’umanità, che tutti i fondamentali componenti dello sviluppo sono situati in aree del mondo diverse da quelle che tradizionalmente abbiamo definito di «cultura occidentale». Le generazioni più giovani, le nuove leve, le persone formate, non arrivano dagli Stati Uniti, dall’Inghilerra o dall’Italia, ma da altri Paesi. Il petrolio, cioè la principale fonte energetica in assoluto, non sta nel sottosuolo dell’Italia, della Germania o della Francia. Se osserviamo il prodotto interno, vediamo che l’incremento si registra non nella vecchia Europa o negli Stati Uniti. Si è verificato uno spostamento dei fondamentali fuori da questa area, con problemi politico-istituzionali non banali. Qualcuno dovrà chiedersi a cosa punti, ad esempio, la particolarissima attenzione che la Cina mostra verso l’Africa. Nessuno si cura dello sviluppo dell’Africa, ma se vi si guarda, si scopre che l’Europa è rimasta fuori da tutto, mentre la Cina si sta impegnando molto.

D. In altre epoche, in analoghe situazioni si trattava o si combatteva; ed ora che si fa?
R. Il rischio, la tentazione di mostrare i muscoli, esistono sempre, ma spero che questo non avvenga, per cui immagino che i prossimi G8 diventeranno G10, che dovranno riscriversi le gerarchie, ma il momento in cui avverrà anche le tecniche e le logiche di regolazioni dei mercati cambieranno. Interverranno soggetti con condizioni di partenza clamorosamente diverse, perché un conto è ragionare di Borse in Inghilterra, in Usa o in Italia, che hanno una lunga tradizione democratica, un assetto del diritto consolidato, un’idea definita del mercato, un altro conto in Cina, in India, in Indonesia o in Pakistan. In questi anni gli economisti di tutto il mondo si sono chiesti: che succederà quando l’aumento dell’indebitamento pubblico americano si scontrerà con l’aumento dell’indebitamento privato americano? Tutti hanno risposto: così non può durare, qualcosa succederà.

D. Appunto, quale effetto?
R. Chi non ce la fa, non paga più le rate dei debiti; chi ha erogato questi prestiti rischia di saltare in aria portandosi dietro banche e assicurazioni, e queste gli azionisti risparmiatori. La risposta ancora una volta rischia di veder soccombere i più deboli: consumatori, risparmiatori e le generazioni future che sono le vittime più indifese. Questo clamoroso indebitamento sposta il problema sulla destinazione futura delle risorse. Ai nostri figli lasciamo un pianeta più inquinato, con meno energia, più sbilanciato dal punto di vista dei poteri economici. Dobbiamo convincerci che bisogna guardare avanti; che voler produrre tanta ricchezza e consumarla nel breve tempo è un fattore di squilibrio. Per noi esiste una forma societaria, la cooperativa, convinta che non va consumato tutto nel breve periodo, ma che una parte va tenuta a disposizione delle future generazioni.

D. Non ne siamo convinti?
R. Abbiamo una mancanza clamorosa di coesione; non voglio citare i rifiuti urbani campani, ma un problema è ultra evidente, l’assenza di civismo, di tenuta comunitaria, di senso dello stare insieme. Monsignor Angelo Bagnasco parla di società di francobolli e di coriandoli, altri parlano di melma e di società liquida; possiamo chiamarla come vogliamo, ma un dato di fatto è che si è bruciata la solidarietà, ed è la stessa condizione esistente a livello mondiale. Ci si chiude nel proprio giardino o appartamento, nei sondaggi ogni singolo dimostra di avere fiducia solo in se stesso, si cerca di scaricare la responsabilità del cattivo andamento a qualcun altro, non si assume mai la responsabilità di non essersi impegnati, di aver sbagliato scelte nella vita. Questo ci fa capire che non siamo di fronte a una valutazione oggettiva dei fenomeni, che si è perso il senso della comunità. L’individualismo è arrivato al punto che sta scoprendo tutti i limiti, le debolezze, le fragilità; se avesse portato o portasse l’individuo a un’idea molto competitiva e dinamica di sé e della società, si sarebbe realizzato il sogno americano. Ma con questa logica non si aggredisce la realtà per cambiarla, si creano dei muri, ci si chiude dentro e si cercano dei colpevoli.

D. Perché mancano le motivazioni dei giovani di 50 anni fa?
R. Sfortunatamente per loro, i nostri figli hanno avuto una vita materiale migliore perché l’avevano costruita i loro genitori, ma una condizione sociale molto peggiore. Si militasse da una parte o dall’altra, i nostri padri ci avevano insegnato che, qualsiasi azione si compisse, stavamo partecipando a qualcosa più grande e importante di noi. Le ideologie che sono state considerate responsabili di molti errori e anche di veri e propri drammi sono state le molle che hanno spinto generazioni; questi ragazzi non ce l’hanno più, non hanno dove andare, e stanno in casa con il babbo e la mamma. Credo che in questo momento sia necessario acquisire tutti, padri e i figli, la consapevolezza che le dinamiche che ci hanno portato a questo punto vanno profondamente modificate; e che occorrono un atto di coraggio e intelligenza da parte dei giovani e di generosità da parte dei padri.

D. Nel passato le ideologie offrivano una prospettiva a milioni di persone. Come le giudica?
R. Se le loro finalità sono socialmente positive e aiutano gli individui a costruire il proprio futuro e a dare un senso alla vita, sono necessarie. Ma spesso sono strumentalizzate. Da emiliano e da cooperatore osservo che, sotto le bandiere e con la propaganda per il comunismo e la rivoluzione, è nata e cresciuta la più grande socialdemocrazia di questo Paese. Sono stati raggiunti risultati importanti: la dignità del lavoro, la libertà dell’impresa, i servizi sociali, la cooperazione. Che questa fosse promossa dalla Democrazia Cristiana per le banche di credito cooperativo, o dal Partito Comunista per le cooperative dei muratori o dei braccianti, è indifferente; la società ne aveva bisogno e le considerava uno strumento positivo per la propria emancipazione. Oggi l’ideologia non è stata sostituita da un’idea, una logica, una motivazione nuova; l’individuo deve trovarla solo dentro di sé, ma fatica, entra in crisi per qualsiasi cosa. Ad esempio ci domandiamo fino a dove può portarci la scienza, ma la scienza è come un carro, occorre qualcuno che la guida da qualche parte, secondo delle idealità. Con i progressi della medicina possiamo ammalarci di meno, ma siamo più insoddisfatti dei nostri nonni che si ammalavano di più ma avevano degli obiettivi, li raggiungevano e si sentivano di contare; ora si possono compiere anche azioni significative, ma non serve a niente.

D. Cosa possono fare e cosa già fanno le cooperative in questa situazione?
R. Partendo dai propri valori e dalla propria storia, adattandoli alle nuove condizioni del nostro tempo, possono tenere unite le generazioni, rappresentare il passaggio dai padri ai figli. Come si fa oggi ad ignorare che un giovane laureato magari in Ingegneria, se va bene guadagna mille euro al mese e con gli aumenti contrattuali, l’anzianità, le qualifiche, a 55 anni, quando sarà tecnologicamente meno acculturato e avrà meno occasioni di lavoro, percepirà 1.500 o 1.700 euro? Dopo 35 anni l’azienda proverà a mandarlo a casa per sostituirlo, a mille euro al mese, con un ragazzo che sa tutto sui computer, sull’informatica, la chimica, la fisica. Se è una persona normale, lo vivrà come un dramma, punterà i piedi, e scatteranno meccanismi che inquinano la vita dell’impresa e sfibrano gli individui. Perché non dobbiamo cominciare a pensare che, fatte così, le dinamiche salariali non vanno bene?

D. Sì, ma che fare in pratica?
R. Non basta cambiare i modelli contrattuali, vanno cambiate anche le dinamiche del reddito. Ma è proprio necessario che il prelievo fiscale e previdenziale nell’ultimo anno di lavoro sia lo stesso del primo? Modificando le tre voci, la contrattuale, la previdenziale e la fiscale, si potrebbe creare una curva diversa per far sì che il giovane laureato, anziché mille, percepisca 1.200 euro e a 30 anni, quando vuole farsi una famiglia, 1.500 euro; in tal modo potrebbe contrarre il mutuo per acquistare casa senza l’intervento del padre; a 50 anni potrebbe lavorare meno ore, perché il mutuo è già pagato e la famiglia è sistemata; e costerebbe meno all’azienda. Si parla di «invecchiamento attivo», ma come è possibile se esistono un’estrema rigidità in uscita e non si riesce a parlare di part time e di modelli flessibili? Organizzando diversamente la vita probabilmente si rideterminerà un buon rapporto fra le generazioni; nella situazione odierna è economicamente impossibile.

D. Chi è che deve farlo?
R. La politica, e per noi lo fa la cooperazione. In una cooperativa una parte del risultato può essere distribuita come ulteriore reddito; un’altra parte accantonata in azienda perché un altro socio, in futuro, possa avere un’opportunità di lavoro. È un sistema nel quale la relazione tra generazioni si vede materialmente, è percepibile e promossa dalle regole. Uno Stato o una società devono apprezzarlo, cominciare a premiare e a incoraggiare gli atteggiamenti virtuosi. Mi sembra doveroso che gli investimenti nell’azienda siano trattati diversamente dagli altri. In Italia avviene l’opposto, sui redditi di impresa si paga il 30 per cento di tasse, sulla rendita finanziaria il 12 per cento. Dov’è la ratio di questo? Però ci meravigliamo se, invece di reinvestire gli utili nell’azienda, l’imprenditore li porta via o li spende in altro?

D. Quale trattamento è riservato in particolare alle cooperative?
R. Sono stati ridotti in maniera significativa gli incentivi che compensavano i vincoli imposti dalla legge. Negli anni 50-70 essi erano diversificati per settori, e la cooperazione ha avuto incentivi per la sua crescita più da leggi che ne valorizzavano l’esperienza e l’attività che dal fisco. La forma proprietaria e cooperativa era promossa dalla legge, pensiamo alle cooperative edilizie. Negli ultimi anni la politica è cambiata, la legislazione cooperativa è stata modernizzata e gli incentivi fiscali ridotti. La cooperazione italiana ha maturato successi ma ha incontrato anche nuovi problemi: è chiaro che un aumento dimensionale e competitivo dell’impresa cooperativa provoca la reazione dei concorrenti che cercano di ostacolarla.

D. La presunta riscoperta del mercato di questi anni ha favorito le cooperative?
R. Ci scontriamo con un’altra concezione ideologica, secondo la quale in un mercato capitalistico trionfante l’unica impresa in grado di interpretarlo in maniera piena e totale è la società di capitali. Si è sostenuto che qualsiasi altra forma sia una variabile temporanea diretta a correggere dei limiti o a fronteggiare delle emergenze, ma che sarebbe diventata inutile e scomparsa con il ritorno e il successo della normalità del mercato. È una teoria senza fondamento. Noi cooperatori, insieme a molti esponenti del mondo culturale tra cui alcuni Premi Nobel per l’economia, siamo convinti che l’ambiente nel quale dobbiamo agire è il mercato; siamo pienamente dentro il mercato, ma questo non è una costruzione astratta, si realizza con i comportamenti degli uomini, delle istituzioni, delle regole.

D. Ma qual è il mercato migliore?
R. Non è vero che il migliore sia quello in cui operano tante imprese capitalistiche che hanno la stessa finalità; è quello in cui si confrontano differenti modelli di impresa, aventi finalità diverse. La finalità mutualistica non è peggiore o migliore di quella capitalistica, è diversa da essa; come non sono uguali le finalità di un’impresa pubblica, di un’impresa no-profit, di una piccola impresa artigiana individuale; hanno tutte una finalità diversa. Se competono liberamente queste diverse forme, il mercato è migliore, perché il cittadino avrà più opportunità e più libertà di scelta nell’acquisto di prodotti e servizi. Poiché tutte le imprese capitalistiche hanno lo scopo di remunerare nel modo migliore il loro capitale, tendenzialmente si assomiglieranno mentre l’impresa cooperativa, che ha la finalità di favorire lo scambio tra soci e cooperativa, potrà avere comportamenti difformi: non le interesserà di ottenere il massimo rendimento, ma di garantire un buon lavoro per molti anni ai soci. Nel rapporto con il cliente si comporterà diversamente perché, se desidera durare nel tempo, cercherà di aumentare la propria reputazione.

D. Il futuro sta nella ripresa della cooperazione?
R. Il ministro Giuliano Amato ha detto che, nata per contrastare il capitalismo, la cooperazione rischia di difenderlo. Perché continua a fare economia reale, a produrre servizi per i cittadini, a crescere in tutti i continenti. Può essere costruita nelle condizioni materiali di ogni singola realtà, nel villaggio africano, nelle grandi farm canadesi, tra scienziati o tra contadini; parte dai bisogni delle persone, dalla loro voglia di fare. Non ve n’è una simile all’altra. Non c’è un segmento del sistema economico che non registri la sua presenza. La cooperazione in questa fase mostra tutta la propria modernità: si internazionalizza restando ancorata alle proprie radici locali, valorizza l’individuo promuovendone la partecipazione ad azioni collettive, fa crescere il senso civico e di comunità, dà concretezza nel rapporto tra le generazioni.

D. In conclusione, quale è l’attuale situazione del mondo cooperativo?
R. Dal punto di vista della crescita sicuramente positiva. Quante sono le imprese che in 10 anni hanno raddoppiato il numero di occupati? La cooperazione italiana l’ha fatto, ha creato posti di lavoro di una certa qualità e stabili in prospettiva. Fuori di essa, invece, è successo l’opposto. Eppure dobbiamo confrontarci ogni giorno con l’illegalità e rischiare di andare fuori dal mercato perché questa vince, perfino con finte cooperative. Dal punto di vista della percezione da parte della pubblica opinione le cose vanno meno bene. I continui attacchi rivolti soprattutto alle cooperative che hanno raggiunto dimensioni rilevanti e ai cosiddetti «privilegi fiscali» rischiano di incrinare il rapporto con la pubblica opinione e di offuscare gli elementi positivi e di grande valore che la cooperazione sta realizzando nel nostro Paese.

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