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Giustizia 1

Diritto alla casa:
quando si applica
l’esimente dello stato
di necessità

Giustizia 2

Occupazione abusiva:
Il silenzio dell'Iacp
non elimina il reato

di Antonio Marini

 


Diritto alla casa: quando si applica l’esimente
dello stato di necessità

Con due sentenze, emesse a pochi mesi di distanza una dall’altra, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del diritto alla casa. L’occasione è stata fornita da due vicende di occupazione abusiva di alloggi costruiti dagli Iacp, Istituti Autonomi Case Popolari, avvenuta una a Roma e l’altra in provincia di Napoli. Nel primo caso si è riproposta la questione se l’esimente dello stato di necessità possa applicarsi anche a tutela del diritto all’abitazione. Al riguardo è opportuno ricordare che in virtù dell’articolo 54 del Codice penale non è punibile chi ha commesso un reato per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionabile al pericolo.
Il fondamento di questa causa di giustificazione è assai discusso. Non sono pochi coloro che hanno ravvisato la ragione della scriminante nell’istinto di conservazione, incoercibile nell’uomo. Comunque oggetto del pericolo deve essere un danno grave alla persona. Secondo alcuni autori, per danno alla persona si intende solo il danno alla vita e all’integrità fisica. Secondo altri, invece, tale limitazione non è giustificata da alcun plausibile motivo. Anche in tema di integrità fisica o morale, anche i beni della libertà fisica o morale, della inviolabilità sessuale, del pudore o dell’onore, riguardano direttamente le persone e perciò possono essere preservati mediante fatti che di regola costituiscono reato. Così, ad esempio, una bagnante rimasta priva delle vesti, asportate dalla corrente, può impossessarsi di un indumento altrui per salvare il proprio pudore, senza perciò incorrere nell’accusa di furto.
Con la recente sentenza n. 35.580 del 27 giugno 2007 la Cassazione ha precisato che rientrano nel concetto di «danno grave alla persona» non solo la lesione della vita e dell’integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali dell’uomo, secondo la prescrizione contenuta nell’articolo 2 della Costituzione. Rientrano in tale previsione anche quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l’integrità fisica del soggetto, in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, tra i quali deve essere ricompreso il diritto all’abitazione, poiché l’esigenza di un alloggio rientra tra i bisogni primari della persona.
Si tratta di un principio già espresso nel recente passato e che ha trovato la propria incisiva formulazione nella sentenza n. 24.920 del 2004, ove si è puntualizzato che l’interpretazione estensiva del concetto di «danno grave alla persona» va bilanciata da una più attenta e penetrante verifica dei requisiti richiesti dalla legge diretta a circoscrivere la sfera di azione dell’esimente ai soli casi in cui siano indiscutibilmente presenti gli elementi costitutivi della stessa, quali la necessità e l’inevitabilità del pericolo, non potendo i diritti dei terzi essere compressi se non in condizioni eccezionali chiaramente comprovate.
Nella specie, era stato accertato che l’occupazione abusiva dell’immobile da parte dell’imputata, trovatasi da sola con la piccola figlia priva di casa e di risorse economiche, era stata dettata dalla necessità di salvare la bambina da un grave danno alla salute, risolvendosi in un fatto proporzionato a tale pericolo. Perciò, la Suprema Corte aveva confermato la sentenza di assoluzione della donna emessa dal giudice di merito, evidenziando la peculiarità della situazione e rimarcando, altresì, come di tali eccezionali condizioni si fosse fatto carico lo stesso Comune, requisendo l’appartamento proprio per destinarlo, sia pure temporaneamente, al nucleo familiare della donna.
Nell’analogo caso che costituisce oggetto della sentenza in esame è stata, per contro, totalmente omessa dal giudice di merito qualsiasi indagine sia al fine di verificare le effettive condizioni dell’imputata, l’esigenza di tutela del figlio minore, la minaccia dell’integrità fisica degli stessi; sia al fine di verificare la sussistenza, sotto il profilo obiettivo, dei requisiti della necessità e dell’inevitabilità del pericolo che, unitamente agli altri elementi richiesti dalla legge, consentono di ritenere la sussistenza della scriminante in questione. Pertanto la Corte ha annullato la sentenza di condanna dell’imputata, rinviando per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.
Come si vede, si tratta di una decisione che non ha nulla di clamoroso, per cui lo scalpore suscitato sulla stampa è apparso fuori luogo. Infatti non siamo in presenza di una sentenza, come si è paventato, che ha affermato l’irrilevanza penale delle occupazioni abusive, ovvero la non punibilità di chi occupa un alloggio popolare per necessità, ma semplicemente di una decisione che ha riaffermato un principio ormai consolidato in tema di applicabilità dell’esimente dello stato di necessità al reato di invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, previsto dall’articolo 633 del Codice penale, calibrando però la decisione sia alla specificità della situazione di fatto, sia alle «griglie» della causa di giustificazione, che rimane ben radicata nel concreto e immediato pericolo di un grave danno alla persona e nell’impossibilità di evitarlo altrimenti.
In definitiva, nell’applicazione della scriminante si deve tenere debitamente conto della peculiarità del caso concreto, posto che non può in astratto escludersi che una momentanea e transitoria occupazione di un immobile possa essere l’unico rimedio per evitare un danno grave alla persona, specie quando l’esimente rischia di colpire un minore o una persona anziana o ammalata, e nessuna soluzione risulta esperibile nell’ambito dei servizi pubblici o della solidarietà umana.


Occupazione abusiva: Il silenzio dell'Iacp
non elimina il reato

Del tutto diversa è la vicenda che ha costituito oggetto della sentenza n. 37.139 del 25 settembre 2007, nella quale l’occupazione abusiva riguardava l’arbitrario «subentro» in un alloggio dell’Istituto Autonomo Case Popolari di Grumo Nevano, in provincia di Napoli, assegnato in precedenza a una persona che l’aveva lasciato libero per motivi di carattere personale. L’occupazione abusiva era rimasta clandestina fino a quando l’occupante, avvalendosi di quanto disposto dalla legge della Regione Campania n. 13 del 2000, aveva presentato un’istanza di regolarizzazione con contestuale autodenuncia, cominciando a pagare il canone.
Pur avendo accertato che l’imputata aveva indubbiamente posto in essere la condotta materiale prevista dal reato di cui all’articolo 633 del Codice penale, il Tribunale di Napoli l’aveva comunque assolta con la formula «perché il fatto non costituisce reato», affermando tra l’altro che gli Istituti Autonomi delle Case Popolari hanno tra le loro finalità quella di «regolarizzare le locazioni degli immobili per riscuotere i canoni», e che gli alloggi di tali enti «erano destinati a un’assegnazione, previo l’espletamento della relativa procedura».
Nella specie, secondo il giudice di merito non poteva quindi parlarsi di arbitrarietà dell’occupazione, in quanto l’unico interesse dell’ente era quello che le persone che occupavano gli alloggi pagassero il relativo canone, cosa che l’imputata aveva concretamente fatto. Contro la sentenza di assoluzione aveva proposto ricorso il pubblico ministero, censurando in particolare le premesse logico-giuridiche del primo giudice, tali da aprire la porta all’inammissibile corsa all’occupazione degli alloggi di edilizia popolare, in palese contrasto con le leggi in materia.
La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso ed ha annullato la decisione del Tribunale, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte di Appello di Napoli per il nuovo giudizio. Nella sentenza la Suprema Corte rileva, innanzitutto, che gli alloggi costruiti dagli Iacp per la realizzazione dei loro fini devono essere considerati beni immobili destinati al perseguimento di finalità di interesse pubblico, e devono essere assegnati per legge solo agli aventi diritto. Proprio questa funzione sociale - si sottolinea nella sentenza -, comporta che il cardine di tutta la disciplina dell’edilizia popolare è costituito dall’inderogabile principio che l’assegnazione degli alloggi deve avvenire secondo criteri prefissati dagli organismi pubblici e da questi verificati attraverso idonee procedure, pertanto nessuna rilevanza può avere l’arbitrio del singolo, pur bisognoso.
Da qui deriva che la ratio legis in questo settore normativo non può essere disgiunta dal rigoroso rispetto delle regole. La linea ispiratrice di tutta la normativa in materia segue infatti costantemente un’unica direttrice, a cominciare dagli strumenti urbanistici particolareggiati e dall’acquisizione delle aree edificabili fino al finanziamento con pubblico denaro e all’assegnazione in locazione o in proprietà attraverso un’individuazione del soggetto assegnatario non arbitraria e soggettiva, ma pubblica e regolata.
Interessanti spunti in merito si trovano nella precedente sentenza n. 1.076 del 25 gennaio 2002 in cui si è puntualizzato, dopo la premessa che l’edilizia popolare è un esempio tipico di bene destinato ad uso pubblico, che l’assegnazione dell’alloggio costituisce la naturale esplicazione del potere dell’ente pubblico proprio riguardo all’espletamento delle finalità di cura di interessi collettivi. La stessa denominazione corrente dell’attività di edilizia pubblica usata negli anni - edilizia economica e popolare, legge sulla casa, edilizia residenziale pubblica -, dimostra l’obiettivo di tutela di un bene primario quale quello della casa per chi si trovi in condizioni di specifico e definito disagio.
Per quanto riguarda la configurabilità del delitto previsto dall’articolo 633 del Codice penale, la Corte ribadisce il principio secondo cui la condotta di «invasione» non richiede modalità esecutive violente e consiste nel fatto di introdursi arbitrariamente nell’altrui immobile. Secondo la Corte, il requisito dell’arbitrarietà va ravvisato, in particolare, nel fatto di essersi introdotti nell’immobile contra ius, cioè in difetto di un diritto di accesso. Nel caso in cui l’occupazione si protragga nel tempo, deve poi ritenersi che il delitto ha natura permanente e cessa soltanto con l’allontanamento del soggetto dall’edificio, dato che l’offesa al patrimonio pubblico perdura sino a quando continua l’invasione arbitraria dell’immobile al fine di occuparlo o di trarne profitto.
Quanto alla quiescenza di fatto dell’ente proprietario, la Corte ha precisato che essa non elide la situazione di arbitrarietà, non potendo gli organi dell’ente sottrarsi al dovere di assegnazione secondo i criteri sopra menzionati, tanto più che il legislatore ha rafforzato l’accoglienza della norma penale prevedendo la procedibilità d’ufficio quando si tratta di occupazione abusiva di immobili pubblici o destinati ad uso pubblico. Nessun dubbio, quindi, che prima della legge regionale e dell’atto di autodenuncia contestuale all’istanza di regolarizzazione sussistesse un’occupazione arbitraria dell’immobile che integrava gli estremi del reato di cui sopra.
Mancava infatti all’occupante ogni titolo di legittimazione, tale non potendo configurarsi l’abbandono dell’immobile da parte del precedente assegnatario. Mancavano, inoltre, elementi concreti per i quali si potesse ragionevolmente escludere il dolo nel delitto in esame, esistendo la piena consapevolezza del carattere arbitrario della condotta di occupazione dell’immobile posta in essere dall’imputata.


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