Corsera Story
C’era
una volta
la Domenica
del Corriere
L'opinione
del Corrierista
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iventare più alti», «Seni sviluppati» e altri erano gli slogan della piccola pubblicità presente un tempo sui giornali popolari, in primo luogo sulla Domenica del Corriere, lo scomparso settimanale del Corriere della Sera che viene ricordato - quando viene ricordato -, solo per le copertine illustrate con i disegni di Achille Beltrame e, più recentemente, di Walter Molino. Della Domenica del Corriere sta svanendo il ricordo, eppure uno dei suoi più illustri redattori fu il grande Dino Buzzati; il quale, normalmente intento in un lavoro di cronaca ordinaria o di «cucina» redazionale, viaggiava con l’immaginazione in mondi surreali e fantastici, quelli che descrisse nel «Deserto dei Tartari».
Perché parlo della Domenica del Corriere? È lo stesso Corriere della Sera che mi costringe a ricordarla. O meglio a ricordare la sua ingloriosa e triste fine. Triste perché era il primo settimanale d’Italia almeno per il numero di copie vendute: un milione 200 mila. Era superata solo da Famiglia Cristiana, che ne vendeva un milione 300 mila, ma con una grande differenza: mentre la Domenica del Corriere veniva venduta nelle edicole presso le quali i lettori, uno ad uno, dovevano recarsi ad acquistarla, Famiglia Cristiana beneficiava non solo dell’appoggio del Vaticano, ma soprattutto della capillare distribuzione che la struttura ecclesiastica ne faceva, non imponendone l’acquisto ma certamente favorendolo, esponendo le copie all’ingresso delle Chiese soprattutto prima e dopo le più affollate Messe domenicali.
Una grande differenza di copie esisteva anche tra le vendite della Domenica del Corriere e quelle di altri settimanali pure di grande successo dell’epoca: pensiamo ai rotocalchi per definizione, in particolare a Oggi e Gente, ma anche alla cosiddetta «presse du coeur» che nel dopoguerra conobbe un boom con Grand Hotel, Sogno, Sorrisi e canzoni ecc. Ma nonostante il primato di vendite, nonostante il successo e la popolarità acquisita in tanti decenni, la Domenica del Corriere aveva i giorni contati proprio perché era così diffusa, così popolare, così bene accetta dal grande pubblico.
È una storia che nessuno ha scritto, ma che va raccontata per far conoscere soprattutto ai giovani giornalisti gli errori del passato, al fine di evitarli nel presente e nel futuro. La fine della Domenica del Corriere ebbe inizio quando cominciarono a prevalere nel Gruppo editoriale del Corriere giornalisti e amministratori animati da forti ambizioni personali, abilmente camuffate dietro proposte e progetti di sviluppo della testata, di maggiori vendite e di maggiori incassi, costituenti però solo formali alibi per interessate prospettive di carriere personali.
Lo spunto per l’avvio di tale operazione furono proprio le piccole inserzioni «Diventare più alti», «Seni sviluppati» ecc. «Perché dobbiamo continuare a pubblicare tali piccole, tristi e poco remunerative inserzioni in bianco e nero, quando sui rotocalchi appaiono intere pagine a colori di pubblicità di automobili, frigidaires, televisori ed altro?», era l’interrogativo posto da quei riformisti della Domenica del Corriere. Apparentemente la prospettiva così delineata era allettante, soprattutto per la proprietà che avrebbe di colpo aumentato i già cospicui utili che il Gruppo realizzava all’epoca. E che un illustre direttore di questo, Gaetano Afeltra, nella seconda metà degli anni 50 indicava in un importo annuo di oltre 600 milioni di lire, somma ingentissima in quei tempi.
Ma era una prospettiva che conteneva un’insidia occulta. Perché l’operazione pubblicitaria ne celava una giornalistica, consistente nella sostituzione del vecchio staff redazionale con uno nuovo, formato appunto da giovani, ambiziosi e intraprendenti giornalisti, alleatisi con altrettanto ambiziosi, intraprendenti ma incauti amministratori. Ci fu chi espresse riserve e perplessità: «I tradizionali lettori della Domenica non sono preparati ad accettare i nuovi contenuti pubblicitari e soprattutto giornalistici. Lasceranno ‘La realtà romanzesca’ e gli articoli alla Pitigrilli per un nuovo genere di contenuti, vago, contraddittorio, neppure ben definito in anticipo?», si chiedevano. I riformisti furono costretti ad ammettere che la nuova ipotizzata Domenica del Corriere avrebbe perduto un certo numero di lettori e, come rimedio, avanzarono un’altra proposta.
Esisteva un settimanale popolare, la Tribuna illustrata, somigliante alla Domenica del Corriere per gli argomenti trattati, per il genere dei lettori, per le copertine disegnate a colori. Non era in floride condizioni finanziarie, anzi era in procinto di chiudere. I lungimiranti riformisti della Domenica pensarono che, acquistandone la testata, i lettori perduti dalla Domenica sarebbero passati alla Tribuna, rimanendo comunque nel Gruppo del Corriere della Sera. L’operazione pertanto fu approvata e attuata, ma il risultato doveva dimostrarsi presto deludente.
Perché la nuova Domenica del Corriere acquistò la pubblicità di auto, frigidaire e televisori, ma perse i lettori di modesta statura fisica e le lettrici di scarse curve toraciche, ma anche gli appassionati lettori di vicende romanzesche e i fans di scrittori alla Pitigrilli. Senza peraltro guadagnarne altri, perché ai contenuti popolari ma omogenei di prima si sostituirono accozzaglie di argomenti «moderni»: se un articolo risultava di gradimento di un lettore, in tutto il settimanale questi non riusciva a trovarne un altro di proprio interesse. Così i lettori cominciarono a calare. Finché un giorno i pochi rimasti non videro più la Domenica del Corriere in edicola.
Ma almeno la Tribuna Illustrata ebbe un diverso destino? Neppure per sogno. Perché poco tempo dopo il suo nuovo direttore elaborò un ragionamento analogo: «Perché dobbiamo continuare a usare una testata vecchia, antiquata, gradita solo a lettori anziani, non in linea con l’evoluzione della società?». E propose di cambiarla in «T7», decretandone la repentina fine. Terminarono in tal modo le velleità riformatrici di alcuni giornalisti e manager del Gruppo? Stando agli ultimi due anni, esse sono anzi riprese e aumentate, e questa volta non a danno di testate collaterali e secondarie del Gruppo, ma di quella principale, il Corriere della Sera. Che è stato notevolmente cambiato, nei contenuti e nella grafica. Ma le rivoluzioni nei giornali, se a volte sono necessarie e fruttuose, altre volte sono inutili ed anzi pericolose. Perché essi vanno rinnovati cautamente, contestualmente al mutamento di esigenze, gusti, cultura, e abitudini dei loro lettori.
(V. C.)
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