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DIARIO ITALIANO

Parlamento:
perché non va a fare certe leggi in un ospedale?

di Giorgio Fozzati


Come fanno i nostri
parlamentari a fare
leggi così contrarie
al buon senso e alla
tutela della salute?
Quanti soldi prendono
dai commercianti
di morte per certe
proposte? Su droga
e altro non si deve
legiferare a tavolino,
ma in un Pronto
Soccorso o in una
corsia d’ospedale

o ammetto: entrare in un Pronto Soccorso spalancando la porta e aggredendo il personale all'alba ovvero alle 6 del mattino può suscitare una reazione poco confacente al luogo, ma insomma io stavo proprio male. E dire che ci sono abituato, è da dieci anni che con una discreta puntualità mi capita una colica renale agli inizi di gennaio e un’altra agli inizi di agosto. Dunque era di giovedì mattina, l'orologio segnava le cinque e la morsa renale non mollava, fregandosene delle iniezioni che mi ero fatto da solo. Niente da fare.

Salgo in auto, è Pietro che guida, sicuro e calmo, per le strade ancora buie e deserte di Firenze. I semafori lampeggiano, è un sollievo non dover aspettare. Io, come sanno tutti quelli che hanno avuto una colica renale, non so come stare seduto in auto e mi dimeno come posso. Arriviamo presto al grande ospedale, l'ingresso carrabile per il pronto soccorso è chiuso da una sbarra. Giusto, penso io. È notte, chissà quanti guai ci si risparmia con una bella sbarra abbassata. Pietro tocca il clacson con leggerezza e lampeggia: dal gabbiottino un’arcigna signora urla che dobbiamo tornare indietro e suonare il campanello del citofono, all’altezza del finestrino dell’auto. L’avevamo fatto, ma non ci rispondeva nessuno. Nessuno, cioè lei.

Retromarcia, Pietro abbassa il finestrino e scandisce: Ho uno con una colica renale, mi fa entrare? L'urlo che esce dalla grata del citofono è davvero sgradevole: «Avete mezz'ora di tempo, poi deve trovare parcheggio fuori. Potete entrare». La sbarra si alza, entriamo nel dedalo di stradine interne. Dov'è il Pronto Soccorso? Da questa parte. Peccato che, quando sto per scendere, mi rendo conto che si tratta del pronto soccorso del Reparto Maternità. Bene, giusto: precedenza ai bimbi che devono nascere e alle loro mamme.

Ma dov'è il mio Pronto Soccorso? Non ci sono indicazioni, un medico in camice bianco rilucente sotto il lampione capisce e indica: in fondo, a sinistra, la prima a destra e ci siete. Buona fortuna. Buona fortuna? Accidenti, speriamo bene. Scendo con un balzo dall'auto e spingo con violenza il portellone di ingresso, la hall è popolata di infermieri e barellieri. Chiedo ad alta voce se qualcuno può aiutarmi, ho una colica renale, sono piegato in due. Un infermiere mi guarda sospettoso e mi intima un «Venga con me» che non mi convince del tutto. Lo seguo comunque fiducioso verso il bancone di ingresso, avrà dimenticato di prendere qualcosa lì, penso fra me e un ennesimo spasmo doloroso. Si siede dietro a un computer e senza guardarmi chiede: «Nome?».

Sono incredulo, ma penso che devo rispondergli subito: «Giorgio Fozzati, con due zeta come Zagabria». Ma Zagabria ha una zeta sola. Sì, io ne ho due. Ho capito che devo resistere, anche se mi sento venir meno. Nato a, residente a? È già stato nel nostro ospedale? Ormai sto rantolando, se voleva una prova che non stessi barando l'ha avuta, non riesco più a rispondere. «Adesso mi segua». Barcollo, sono piegato in due, non riesco nemmeno più a vergognarmi del mio pietoso stato di salute. Mi fa stendere su una barella in una stanza e intanto ha allontanato Pietro che mi guardava impietosito ma interdetto dal prestarmi qualsiasi aiuto. Mi risuona il «Buona fortuna» del medico poco fa. Dal punto di vista tecnico non sbaglia una mossa: agocannula, flebo con 400 millilitri di Toradol per stroncare il dolore.

Comincio a sentire freddo, lo cerco con lo sguardo ma non lo trovo: mi ricordo che sono in un Pronto Soccorso, dove tutto è urgenza. Io sono solo una «colica», e così sento che mi chiamano «la colica delle 6,30». Finalmente lo incrocio, chiedo la cortesia di una coperta, me la stende subito, è di cotone, non mi scalda, ma almeno mi da l'impressione di non avere più freddo. Arriva il medico, ha lo sguardo capace, attento, ha capito che non sto barando per passarmi qualche ora al Pronto Soccorso a sbafo. Mi dice quello che farà appena termina la fase acuta, che grazie a Dio e al Toradol sta terminando.

Mi lascia di nuovo da solo, ho bisogno di sentire una mano amica, qualcuno che mi stia vicino. Sento le voci alte del personale infermieristico che discute di termini sindacali e prossimi scioperi. Penso che, tutto sommato, io tra breve starò meglio e uscirò con le mie gambe, le stesse con cui sono arrivato qui dentro. Ma penso a quelli che stanno peggio di me, a quanto bene gli fa sentire tutti questi discorsi conditi con improperi mentre loro stanno soffrendo e lottando per sopravvivere.

Mi spostano in un corridoio per fare spazio a un nuovo arrivo. Mi passano accanto tutti. Un’infermiera si ferma e mi rabbocca la coperta, la guardo e la ringrazio: è il primo gesto umano da quando sono entrato. Arriva Pietro, sono riuscito a convincere il medico a farlo rientrare. Mi stringe la mano, mi basta quel poco di calore per riprendere serenità e sicurezza. Vengo portato in una stanza a tre posti, cioè c'è posto per tre lettighe. Mi hanno tolto la flebo, tra breve mi faranno gli esami del caso.

Mi giro, accanto a me c'è un giovane, diciamo così, sui trent’anni. Sta delirando. Lo guardo, gli sorrido e gli chiedo che cosa ha. La febbre alta, ha la febbre alta. Perché? Per un’infezione al braccio, «guarda come si è gonfiato». Ma perchè non spengono la luce, dannazione! Più in là c'è un'anziana signora infartuata. Le infermiere entrano ed escono parlando ad alta voce, il ragazzone protesta. Arriva una dottoressa, gli guarda il braccio e a bassa voce, ma io sento, gli chiede quante volte si droga alla settimana: «Tre, tre o quattro volte». Sempre nello stesso braccio?

Chiudo gli occhi e vedo l'Aula di Montecitorio che discute sulla «modica quantità» di droga consentita per uso personale. Ma lo vedono questo straccio che mi sta accanto? Come fanno a fare queste leggi così contrarie al buon senso e alla tutela della salute? Quanti soldi si sono presi dai commercianti di morte per fare quelle proposte di legge? Non riesco a pensare ad altro. E provo un ribrezzo politico infinito. Le leggi fatte a tavolino: propongo che alcune leggi vengano discusse in un Pronto Soccorso o al massimo in una corsia di ospedale.

Mi martella in testa la moratoria contro la pena di aborto che Giuliano Ferrara sta coraggiosamente portando avanti ed è già nell'immaginazione collettiva, grazie al Cielo. La 194, un'altra legge fatta a tavolino, un inganno legislativo perfino mai applicato in tutte quelle parti che ne definiscono il titolo «Legge a tutela della maternità». Se continuo così mi sale la pressione, ma forse è un bene perché io abitualmente l'ho assai bassa. Riesco ad alzarmi, ho deciso di uscire da questo piccolo girone infernale nel quale mi sono cacciato. Lo dico a un'infermiera, giusto per scrupolo, caso mai svenissi. Mi guarda e per tutta risposta mi dice «Se lei se la sente, faccia pure». Buona fortuna. Ecco cosa voleva dire il medico sotto il lampione. O.k., ce l'ho quasi fatta, mi sento come Joe Frazier dopo l'ultimo incontro con Classius Clay, suonato e stordito. Conquisto una seggiola in un angolo e aspetto che mi vengano a prendere per gli esami.

Ma ormai la colica è passata, riesco a recuperare. Vado a fare la radiografia: si abbassi i pantaloni, ce la fa a stare in piedi? È probabile che un ospedale da campo assomigli a quanto sto vivendo adesso qui, nella città dove vivo, dove non ci sono guerre se non le solite tra Guelfi e Ghibellini. Provo disagio ad abbassarmi i pantaloni così, davanti a me c'è una giovane dottoressa, il mio personale senso del pudore - che nulla ha a che vedere con il comune senso del pudore, anche questo frutto di sentenze studiate a tavolino ed emesse dalla nostra Corte suprema - si sente offeso.

Obbedisco, sono in vista del traguardo e l'adrenalina ricompare per correre gli ultimi 195 metri della maratona del Pronto Soccorso. Tralascio il successivo esame diagnostico, dove il mio ancora personale senso del pudore viene messo al tappeto da un'intraprendente infermiera. Il risultato è un calcolo di 7 millimetri che mi terrà compagnia per una settimana abbondante. Vengo dimesso con una terapia adatta e finalmente rimonto in macchina. Pietro mette in moto e con un sorriso sdrammatizza: «Dai che ti è andata bene!». Piove e fa freddo, il cielo è grigio scuro, ma è già mezzogiorno. Buona fortuna.

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