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Economia sociale:
così si chiama il futuro
che avanza

di IVANO BARBERINI
presidente dell’Alleanza
Cooperativa Internazionale

n uno scenario dominato dal pericolo incombente di una crisi economica planetaria l’Europa fatica a intraprendere una via di sviluppo, in grado di dare impulso alla competitività e di ripensare il sistema di welfare, salvaguardandone gli obiettivi di fondo. Le volontà di rilancio della Strategia di Lisbona, affermate dal Consiglio europeo nell’ottobre del 2006, si scontrano con divisioni interne e resistenze al cambiamento, per lo più legate alle insicurezze del presente e alla paura del futuro. A rendere tutto più difficile sono i fenomeni legati alla globalizzazione e ai processi migratori. L’insicurezza, la povertà, l’esclusione sociale, le sfide poste dai cambiamenti climatici esigono di essere affrontate con efficacia e tempestività. Recenti studi relativi a questi ultimi hanno contribuito ad accrescere la consapevolezza delle conseguenze a lungo termine, incluse quelle relative allo sviluppo economico globale.

Il buon funzionamento del mercato interno è una condizione sempre più importante per tutte le economie, e ancor più per l’Europa alle prese con un livello di cambio euro-dollaro che penalizza le esportazioni. Questo insieme di problemi e obiettivi sollecita una maggiore attenzione da parte delle Istituzioni nei confronti delle imprese piccole e medie e dell’Economia sociale, ossia di quel mondo variegato che comprende le cooperative, le mutue, le associazioni e le fondazioni. Tutti questi soggetti hanno dimostrato di essere un motore della crescita, della creazione di posti di lavoro e dell’innovazione, dotati di grandi potenzialità.

L’economia sociale è un concetto già emerso nel corso del 19esimo secolo. Il socialismo utopistico e il cristianesimo sociale sono stati i principali promotori di sistemi industriali e di associazioni di persone destinate a procurare il massimo benessere possibile ai lavoratori e un’equa distribuzione delle ricchezze. L’obiettivo generale era la moderazione degli eccessi del capitalismo, non soltanto sul piano culturale ma dando vita a iniziative concrete. Nel 1856 Frédéric Le Play costituì la «Societé de l’Economie Sociale», con lo scopo di modificare la morfologia del quartiere e della casa operaia per rigenerare la famiglia, considerata il veicolo essenziale della riforma morale.

Le radici dell’Economia sociale sono perciò antiche. Tuttavia essa appare come una realtà nuova, ancora poco riconosciuta come settore. In Francia e Spagna beneficia di un riconoscimento giuridico; in altri Paesi come Portogallo, Irlanda, Svezia e Italia il concetto è ampiamente accettato anche se non si presenta come un settore con propria visibilità e organizzazione. In altri Paesi europei il livello di accettazione è relativo o addirittura scarso, soprattutto in Austria e Germania. Nel Regno Unito il basso livello di riconoscimento dell’Economia sociale contrasta con la politica del Governo intesa a sostenere le imprese sociali. In Polonia l’Economia sociale è un concetto piuttosto nuovo, ma è sempre più accettato ed è rafforzato dall’effetto strutturante esercitato dall’Unione Europea. Nello stesso tempo il concetto di Economia sociale si è progressivamente diffuso, a partire dagli anni 90, sia in alcuni Paesi asiatici tra i quali il Giappone, sia in America Latina, dal Brasile all’Argentina.

La ricerca di una definizione universalmente condivisa di Economia sociale rimane aperta sia nelle discussioni interne sia nel rapporto con le Istituzioni. A questo fine l’organizzazione europea dell’Economia sociale, ossia il CEP-CMAF (Conferenza europea permanente delle cooperative, mutue, associazioni e fondazioni) ha approvato una «Carta» che ne definisce i 7 principi basilari: prevalenza dell’individuo e dell’obiettivo sociale sul capitale; adesione volontaria ed aperta; controllo democratico da parte dei soci (tranne che per le fondazioni in quanto non ne hanno); combinazione degli interessi dei soci/utenti e dell’interesse generale; difesa e applicazione dei principi di solidarietà e responsabilità; autonomia di gestione e indipendenza dalle autorità pubbliche; destinazione della maggior parte dell’avanzo di bilancio al conseguimento di obiettivi di sviluppo sostenibile, a servizi di interesse per i soci o di interesse generale.

Nell’ottobre 2007 il CIRIEC, su richiesta del Comitato Economico e Sociale europeo (CESE), ha concluso un’interessante ricerca che evidenzia una realtà per molti versi sorprendente. Secondo questa fonte, l’Economia sociale impiega nei Paesi dell’Unione Europea più di 11 milioni di persone, il 6,7 per cento dei lavoratori dipendenti. Questa percentuale è più bassa nei dieci nuovi Stati membri (il 4,2 per cento della popolazione di lavoratori dipendenti) mentre nei 15 «vecchi» Stati membri arriva al 7,0 per cento, con punte superiori nei Paesi Bassi (10,7), in Irlanda (10,6) e in Francia (8,7).
Un’analisi dettagliata mostra la consistenza dei soggetti che si riconoscono nell’Economia sociale. Le Associazioni occupano 6,3 milioni di persone, con una incidenza pari al 4 per cento del prodotto interno e un’adesione pari al 50 per cento dei cittadini dell’Unione Europea. Le Mutue sanitarie e di previdenza sociale forniscono assistenza e copertura assicurativa ad oltre 120 milioni di persone. Le mutue assicuratrici detengono una quota di mercato del 23,7 per cento. Le Cooperative sono oltre 240 mila, radicate in tutti i settori di attività, sia tradizionali che innovativi. I lavoratori occupati, nei Paesi dell’Unione Europea, sono oltre 3,7 milioni, mentre i soci sono pari a 143 milioni.

Le Fondazioni sono oltre 75 mila, in forte crescita dal 1980 in 25 Stati membri. Attualmente lavorano oltre 5 milioni di volontari. I problemi tuttavia non mancano. Per assicurare un futuro alle imprese dell’Economia sociale occorre che le organizzazioni che ne fanno parte agiscano in modo coerente e congiunto: per questo è importante che esse rafforzino i tratti comuni come parte non separabile della loro identità. Le varie «famiglie» dovrebbero limitare i propri «egoismi» per il raggiungimento di un più ampio e proficuo bene comune.

Le imprese dell’Economia sociale devono cogliere tempestivamente il nuovo che avanza in Europa, nell’idea di economia e di società, per essere, a loro volta, agenti di cambiamento, in sintonia con i bisogni e i sogni dei cittadini. L’efficienza sul piano sociale deve accompagnarsi a quella economica. È altresì importante tracciare un percorso «culturale europeo» dell’Economia sociale, attraverso un confronto delle esperienze e delle idee maturate nei vari Paesi. In Europa hanno maggior peso e voce le organizzazioni snelle, efficaci e socialmente visibili, in grado di portare le proprie proposte all’attenzione del Parlamento europeo, della Commissione e delle altre istituzioni.
È su queste basi che l’Economia sociale può meglio concorrere all’affermazione del pluralismo nel mercato e allo sviluppo della democrazia e della coesione sociale. Valorizzare tutte le energie disponibili per uno sviluppo economico socialmente responsabile, con politiche e normative appropriate, è nell’interesse generale e nella responsabilità delle Istituzioni, nazionali e internazionali. È una scelta che non dovrebbe essere elusa.

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